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Topics - valdobear

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Altro / La profezia
« il: Marzo 31, 2016, 12:30:05 »


La profezia


In questa vecchia Europa, quasi ogni pietra sovrapposta a un altra, ciascun crocevia, ogni arco, è testimonianza di eventi remoti, esempi di eroismo, di bellezza, spesso di ferocia e crudeltà.
Tutto ciò si può trovare, ad esempio, a Francoforte sul Meno, oggi cuore gelido della Finanza tedesca, ieri luogo dove le legioni di Diocleziano costruirono i loro accampamenti.
Lasciati i grattacieli del quartiere degli affari, tracce e atmosfere dei duemila anni di storia della città se ne possono trovare molte, ma non cercate l’antica Börnerplatz con la sua imponente Sinagoga.
Quella piazza, cuore di uno dei più antichi ghetti d’Europa, subì il destino di milioni di altri cuori, fermati per sempre dall’avvento al potere del nazismo e dalla successiva, folle macelleria chiamata “seconda guerra mondiale”.
La Sinagoga fu data alle fiamme e poi rasa al suolo nel 1938; l’area che occupava fu destinata a “migliorare la viabilità cittadina”, così recitava l’ordinanza dell’amministrazione locale che ne sanciva la totale scomparsa.
Quanto alla Börnerplatz, ebbe una sorte meno cruenta: semplicemente le fu cambiato il nome perché il signor Börne, poliedrico intellettuale dell’ottocento, in realtà si chiamava Baruch ed era un ebreo.
Il nuovo nome di quella piazza era Dominikanerplatz, e nel pomeriggio di domenica del tardo settembre 1937, due ragazze uscivano dal portone di un palazzo, proprio di fronte alla sinagoga.
Ester e Miriam, diciassette anni, erano nate a poche ore di distanza, nello stesso ospedale. Figlie di due sorelle, più che cugine erano da sempre amiche inseparabili che condividevano gli studi, i turbamenti dell’adolescenza, i segreti grandi e piccoli, e naturalmente, i divertimenti.
Chiacchierando, le ragazze si diressero verso il fiume non lontano dove, in uno spiazzo polveroso, era accampata una carovana di orsanti e saltimbanchi italiani.
«Io non ci credo: come dice mio padre, chi pretende di leggere il futuro è un imbroglione», stava dicendo Miriam.
«Può darsi, ma Solomon, Ahron e i suoi amici ci sono andati e ne sono entusiasti, pare che quella vecchia riesca a dire cose inquietanti in modo strano e convincente», rispose Ester.
«Strano è dire poco, ti ricordi quello che ci ha raccontato il professore di lettere sulla Sibilla… come diceva? Ah sì, ibis redibis numquam peribis. Furbo più che strano, direi.».
«Miriam, noi andiamo solo per divertirci, anzi, qualunque cosa ci dirà non la prenderemo sul serio, d’accordo?».
Miriam annui, poi si arrestò. Non sorrideva più.
«Certo, hai ragione, le cose serie sono altre». La ragazza indicava un grande manifesto sul bordo della strada: “Der ewige Jude”, “L’eterno giudeo”. Pubblicizzava la mostra che, appena inaugurata a Monaco, presto sarebbe giunta anche lì, a Francoforte.
Il manifesto raffigurava un ebreo ritratto secondo la visione nazista: il volto deformato da un ghigno malvagio, la barba lunga e incolta, nella mano destra alcune monete d’oro, nell’altra la falce col martello, simbolo del bolscevismo. Secondo la propaganda antiebraica, il bolscevismo era il mezzo prescelto dal complotto globale giudaico per arrivare al dominio politico ed economico sul mondo intero.
«Io non capisco tutto quello che sta accadendo» disse Ester, dopo aver letto il manifesto, «ma ascolto quello che dicono i miei genitori; sono molto preoccupati, tra l’altro devono fare mille sacrifici, abbiamo sempre meno clienti e devono anche pagare la nostra scuola. Ora stanno addirittura pensando di lasciare la Germania.».
«Quella di chiudere le scuole pubbliche a noi ebrei è stata proprio una porcata», rispose Miriam, «anche i miei parlano di andarsene, non sanno quanto potranno resistere. È vero, nel negozio i clienti diminuiscono ogni giorno. Mio padre dice che per gli altri, i gentili, anche quelli che non ci odiano, sta diventando pericoloso persino frequentare un nostro negozio.».
«…e molti sono già partiti», la interruppe Ester. «Fra quelli che conosciamo, sono andati via i Blum, i gioiellieri con quei tre bellissimi bambini, e i Frank; Ricordi Margot, che era a scuola con noi?»
«Sì, certo, la Frank, abbiamo spesso studiato a casa sua, ricordo anche la sorellina, Anna, mi pare, così simpatica e sveglia.»
«E altri stanno per partire, tutti per Amsterdam, al sicuro.».
«Il quartiere si sta spopolando, e noi cosa faremo?».
«Miriam, noi saremo sempre insieme, vedrai, le nostre famiglie sono troppo unite. Ma adesso basta pensieri tristi, siamo quasi arrivate, cerchiamo di divertirci un pò’».
Le due amiche non ebbero difficoltà a individuare il carrozzone che cercavano: una coda di una decina di persone in attesa lo rivelava anche a una certa distanza.
Dovettero attendere più di un’ora prima di essere ammesse all’interno e subito provarono un senso di delusione: il carrozzone era buio, odoroso d’incenso e ricco di pesanti tendaggi, esattamente lo scenario che si attendevano da un antro di ciarlatani, ne avevano già visti altri. Inaspettata fu invece la reazione della donna che le accolse, una vecchia biascicante e quasi repellente.
Dopo un primo sguardo alle ragazze, la donna mormorò a bassa voce, come tra sé, due parole in yiddish: “giovani ebree”, poi aprì un grande baule e ne trasse una menorah, la posò sul tavolo e ne accese cerimoniosamente i sette lumi. Miriam e Ester si guadarono stupite. “Bel trucco, come avrà fatto a sapere che siamo ebree?” pensarono entrambe.
«Ponete la mano sinistra col palmo in alto, sotto la menorah, e fate in modo che si tocchino.».
Esaminò brevemente le mani, in silenzio. Poi ripeté l’esame con più cura, sfiorando con sorprendente delicatezza le linee e seguendole con i polpastrelli, a occhi chiusi. Infine, dopo un silenzio che alle ragazze parve lunghissimo, appuntò uno sguardo colmo di tristezza sugli occhi di Ester, poi su quelli di Miriam: «Fumo che porta morte fumo che porta vita uno vincerà per entrambe».
Pronunciò la frase cantilenando, senza pause e senza espressione. Non disse altro ma rifiutò il denaro che le veniva offerto, lasciando le due amiche deluse e turbate.
Appena fuori dal carrozzone, tentarono di mascherare l’inquietudine con una risata liberatoria, ma lo strano responso continuò a lungo a risuonare nella loro mente e s’incise nella loro memoria.
Sulla strada del ritorno, passarono accanto al manifesto della mostra. Un gruppetto di ragazzi, forse della loro stessa età, lo stava osservando discutendo animatamente. Al passaggio delle ragazze si voltarono, probabilmente solo per lanciare qualche complimento volgare, ma uno di loro le apostrofò a voce alta: «Vi conosco, siete le figlie dei giudei che hanno le botteghe nella Jordanstrasse, presto ci occuperemo delle vostre famiglie e di voi in particolare, sarà un piacere!».
Tra risate e altre minacce, Miriam ed Ester, in silenzio, accelerarono il passo, spaventate. Non riuscivano, anzi non potevano capire la ragione di tanto odio e non vedevano l’ora di parlarne coi genitori.
A pochi passi da casa, passando sotto la nuova targa che annunciava “Dominikanerplatz”, per la prima volta compresero il sinistro significato di quel segnale, apparentemente di poco conto. Dopo l’eliminazione tutta simbolica dei nomi ebrei, sarebbe forse giunta quella reale delle persone ?

20 gennaio 1940

«Mamma e papà mi mancano. Se avessimo insistito per restare, alla fine avrebbero ceduto; io sono più che preoccupata, l’Italia non è un paese sicuro per loro.».
Se avessero fatto, se avessero visto, se avessero detto… troppe volte la vita delle persone è stata decisa, nel suo bivio cruciale, da una piccola parola: “se”. Nella sua ingannevole brevità, quel “se” racchiude spesso un grido di rimpianto, una sentenza senza appello.

Miriam fumava nervosamente una sigaretta, lo sguardo alla scia turbinosa che, sotto di lei, il grande piroscafo “Orazio”, veterano della rotta che da Genova portava all’America del sud, lasciava tra le onde agitate.
«Sì, forse siamo state troppo arrendevoli. Se avessimo discusso, pregato, magari pianto come quando eravamo bambine, saremmo ancora con loro e non ci toccherebbe aspettare un mese prima di riabbracciarli, e non voglio pensare al peggio.».
Miriam ed Ester erano state costrette a imbarcarsi da sole su quella nave, diretta verso una nuova vita e una sicurezza da ritrovare. A Valparaiso erano attese da amici, fuggiti prima di loro da quella Germania decisa a liberarsi in qualsiasi modo della popolazione di origine giudea.
Un’associazione umanitaria aveva organizzato quel nuovo Esodo verso una terra promessa ma, una volta arrivate a Genova, molte famiglie si erano trovate a un bivio.
Il controllo minuzioso dei documenti, e in particolare dei visti di transito, da parte delle autorità italiane aveva di fatto impedito a molti l’imbarco sull’Orazio. Sorte toccata pure ai genitori di Miriam e di Ester.
«Voi siete in regola, non dovete perdere la nave. Partite, a Valparaiso ci saranno gli amici ad aspettarvi, abbiamo già telegrafato. Noi ci siamo prenotati sull’Augustus, partirà tra un mese; passerà in fretta e ci riabbracceremo.».
Era giustificato il timore per una sosta forzata in un paese, l’Italia, il cui regime aveva emanato già nel 1938 severe leggi razziali mirate a emarginare chi professava la religione ebraica o fosse comunque ebreo per discendenza. Sino a quel momento, tuttavia, il regime fascista era stato tollerante con quel flusso di emigranti forzati che da paesi quali Germania, Austria e Polonia raggiungeva i porti di Genova e Trieste per riacquistare oltre gli oceani libertà e dignità.
Se le ragazze avessero saputo la verità che si celava dietro quegli intoppi burocratici, sarebbero state più che preoccupate, spaventate.
Non si trattava di semplice zelo e pignoleria nei controlli: era invece il frutto di un documento riservato col quale il governo “raccomandava” alla polizia di frontiera di “non agevolare” l’esodo degli ebrei. Un prologo ai primi internamenti di ebrei, anche stranieri, che sarebbe scattato pochi mesi dopo.

Miriam ed Ester stavano ancora parlando dei loro timori mentre il cielo al tramonto, di un rosso cupo screziato di nero, non prometteva nulla di buono. Infatti, il viaggio dell’Orazio era iniziato sotto cattivi auspici.
Salpata il giorno precedente da Genova con rotta per lo stretto di Gibilterra, presto la grande nave fu nelle acque territoriali francesi.
Poco dopo, l’Orazio fu affiancata da due motovedette, partite da Tolone, che le imposero di fermarsi per una ispezione. Si voleva controllare che il piroscafo trasportasse solo civili e non avesse a bordo, a nessun titolo, materiale bellico.
Le operazioni durarono ore. La nave, pur lontana dall’essere stipata, aveva imbarcato oltre quattrocento passeggeri e circa lo stesso numero di persone d’equipaggio; di ciascuno furono ancora una volta esaminati i documenti con pignoleria esasperante.
Nulla di sospetto emerse né tra gli imbarcati né dal contenuto delle stive. Ma tutto questo doveva già essere noto alle autorità francesi, che disponevano di un ottimo servizio di spionaggio nei porti italiani.
Terminata l’ispezione, nel tardo pomeriggio fu concesso all’Orazio il permesso di ripartire.
Ester e Miriam, appoggiate al parapetto del belvedere di poppa, avevano gli occhi arrossati dal fumo denso che le caldaie, alimentate al massimo, lasciavano fuoruscire dall’alta ciminiera. Il comandante aveva ordinato l’avanti a tutta forza per cercare di recuperare il tempo perduto e le macchine, così sollecitate, emettevano più fumo e particelle incombuste di quanto facessero di solito,
La cosa però non disturbava né le due ragazze né molti altri passeggeri della terza classe. Nella prospettiva di condividere per settimane i dormitori maleodoranti, in molti preferivano il freddo e il fumo dei ponti all’ara aperta.
Miriam era turbata anche da un fatto avvenuto durante l’ispezione.
«Quel francese che mi ha controllato i documenti, mi ha guardato in modo strano quando ha visto che ero ebrea.».
«Ma certo, Miriam. Ti avrà guardato perché sei una vera bellezza, gli uomini si voltano quando passi, lo sai.».
Miriam sorrise appena, scuotendo la testa.
«No, sarò prevenuta, ma mi pareva più disprezzo che altro e poi, non so, aveva un mezzo sorriso cattivo, era come se… ma forse devo ancora abituarmi al ritorno in un mondo normale, dove l’essere ciò che siamo non ci rende inferiori, spregevoli».
Ester non rispose, come se stesse pensando ad altro,
«Tutto questo fumo non ti ricorda qualcosa?» disse alla fine
«Forse alludi alla vecchia zingara e alla sua profezia? Sarà questo il fumo del quale parlava?».
«Sì, pensavo proprio a lei, chissà cosa voleva dirci, in realtà. Sempre che avesse qualcosa da dirci e più ci penso e più sono convinta che fosse un’imbrogliona».
«Un’imbrogliona non penso, visto che ha rifiutato di farsi pagare, forse voleva solo divertirsi a spaventarci.».
«Spaventarci? Per così poco? A Francoforte c’è stato chi ha saputo farlo molto meglio, io mi sveglio ancora la notte con gli incubi!»
Ester rabbrividì, non solo per il vento gelido che spazzava la nave. «È passato un anno e poco più, non è bastato a farmi dimenticare il terrore di quella notte e non ne basteranno cento. Quelle belve impazzite che hanno incendiato la sinagoga, e poi sembrava che volessero ucciderci tutti, hanno distrutto le nostre botteghe e ci hanno rovinato! Ricordi? Gridavano “porci giudei, sarete tutti spazzati via”… facevano sul serio, ho visto le loro facce stravolte dall’odio. “La notte dei cristalli” la chiamano, ci scherzano persino!».
Mentre le due amiche conversavano e l’Orazio procedeva sulla sua rotta, a nord, nella valle del Rodano, il Mistral stava rinforzando, e più si avvicinava alla foce, nel golfo del Leone, più ancora rinforzava. Presto, al largo, le sue raffiche superarono i quaranta nodi, sollevando le onde di tempesta che rendono temute quelle acque sin dai tempi lontani delle navi fenicie.
L’Orazio, ben più robusto di quei fragili legni e costruito per affrontare gli oceani, iniziò ugualmente a rollare e beccheggiare sempre più violentemente.
Verso le 23, anche l’ultimo dei passeggeri che avevano affollato gli spazi all’aperto trovò rifugio all’interno, nei dormitori, al riparo dal vento e dalle ondate che si rompevano sullo scafo.
Il mal di mare colpiva praticamente tutti, e lo spettacolo, oltre che l’odore, non era piacevole.
Miriam ed Ester furono tra le ultime a cedere ma, una volta nelle loro cuccette, si addormentarono col sonno profondo dei giovani.
Nel ventre della nave, i motori avevano ridotto i loro giri, non si affronta una tempesta navigando a tutta forza, e il loro battito regolare contribuiva a ritmare il respiro profondo dei dormienti. Soprattutto quello dei passeggeri di terza classe, alloggiati nei ponti inferiori, vicino al calore e al rumore della sala macchine.
Nella notte tutto pareva procedere regolarmente, nella grande nave bianca vegliava soltanto il personale di turno.
Sul ponte di comando, il secondo ufficiale controllò ancora il grande cronometro di bordo, doveva fare un’annotazione sul registro del turno. Erano esattamente le cinque e dodici minuti, mancavano quasi due ore al sorgere del sole e l’Orazio si trovava venticinque miglia al largo della costa francese.
L’ufficiale fu scaraventato sul pavimento da una esplosione che squassò la nave. L’origine fu subito chiara: il cuore pulsante dell’”Orazio”, la sala macchine.
Le fiamme si levarono immediatamente e la nave iniziò a imbardare, appesantita dall’acqua che entrava da un ampio squarcio sulla linea di galleggiamento.
In pochi minuti la situazione fu drammaticamente chiara all’esperto comandante, accorso subito in plancia: diede ordine di lanciare il segnale di SOS e abbandonare la nave.
Il panico s’impadronì dei passeggeri ma venne ben tenuto a freno dall’equipaggio, guidato da un Comandante del quale la marineria potè essere fiera. Per buona sorte, quel tratto di mare era tanto tempestoso quanto frequentato. Quattro motovedette francesi e il transatlantico “Conte Biancamano” si trovavano a poche miglia e altre navi erano a qualche ora di navigazione in più. Captata la temuta sequenze di punti e di linee del segnale di soccorso, tutte cambiarono immediatamente rotta, convergendo a piena velocità verso il luogo del disastro.
Il fumo delle loro ciminiere, quel fumo “che porta vita”, in breve fu visibile sia dalle scialuppe sballottate dai marosi, sia da coloro che ancora si trovavano sull’Orazio, in preda alle fiamme e prossimo a spezzarsi in due tronconi.
In breve tempo iniziarono le operazioni di salvataggio, difficili per le condizioni del mare e più ancora per le fiamme galleggianti che si alzavano dagli oli combustibili rilasciati dalle ferite mortali dell’Orazio.
Il buio della lunga notte invernale era solcato dai fasci luminosi dei riflettori, puntati dal Biancamano e dalle altre unità, Così guidate, le scialuppe dei soccorritori, a forza di remi, fecero la spola, faticosa, rischiosa ai confini dell’eroismo, sino a quando non si ebbe la ragionevole certezza di aver raccolto tutti i sopravvissuti
Alla fine, quando si riuscì a fare il conteggio preciso dei superstiti raccolti da ciascuno dei soccorritori, all’appello mancarono oltre cento persone, tra passeggeri ed equipaggio.
Alcuni, vittime del mare in tempesta che non era stato clemente con chi, nel panico, si era tuffato dall’Orazio per sfuggire alle fiamme.
Ester e Miriam ebbero un destino diverso.
Travolte da altri passeggeri terrorizzati, non riuscirono a risalire le scale verso il ponte scialuppe e la possibile salvezza. Cadute, calpestate, tramortite, la loro vita si spense quando il fumo “che porta morte” vinse la gara fatale con quello “che porta vita” e le raggiunse, strisciando come una serpe per poi soffocarle nelle sue spire.

Presto la guerra, con ben altri massacri e le sue distruzioni, fece dimenticare il naufragio dell’Orazio, le sue vittime in gran parte ebree, e i sospetti che molti avanzarono sulle cause.
Si disse che i servizi segreti nazisti fossero riusciti a infiltrare un agente tra gli ispettori francesi saliti a bordo. Anzi, che la stessa ispezione fu decisa su pressione di agenti nazisti infiltrati.
Sempre secondo questa versione, fu l’agente salito a bordo che, fingendo di effettuare le verifiche al carico, riuscì a piazzare un ordigno a orologeria nella sala macchine.
Tuttavia, il mistero dell'esplosione non fu mai indagato e il relitto dell’Orazio giace ancora, dimora inviolata di creature marine e resti mortali, sui fondali del Golfo del Leone.

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Pensieri, riflessioni, saggi / Lettera a un bambino dai capelli buffi
« il: Febbraio 03, 2016, 17:13:16 »
Forse è una cosa inutile, forse tra poco la rileggerò e deciderò di cancellarla, come ho cancellato quasi tutto ciò che ho scritto in questi ultimi mesi.
Perchè questa è una lettera che non avrà mai un francobollo, e nemmeno uno di quegli indirizzi con la chiocciolina, di quelle che fai un click ed è già arrivata al destinatario.
Questa è una lettera a me stesso, ma non a quello che pensionato, nei ritagli di tempo concessi dai quattro nipotini, se ne sta mezzo sdraiato sul divano a battere i tasti del suo portatile, mentre le note della celtica “Annachi Gordon” riempiono la stanza.
Io scrivo al me stesso di tanti anni fa, quello che ho ritrovato bambino col ciuffetto a banana in una foto vecchia di sessantotto anni, custodita gelosamente nella cerniera di una vecchia borsa di mia madre.
Facciamo il punto, bimbo mio, ora che hai doppiato le colonne d’Ercole. Quelle che ti fanno lasciare alle spalle il mare tempestoso della gioventù e poi quello tranquillo della mezza età, ora che vedi le onde infide dell’oceano della vecchiaia gonfiarsi davanti a te. Lì, come nelle antiche illustrazioni, ci sono i mostri, pronti a trascinarti negli abissi ad ogni istante. Anzi, uno di loro ti ha già messo i tentacoli addosso ma, come Gilliat ne  “I lavoratori del mare”, tu stai lottando col mostro e lo farai sin quando avrai forza.
L'ultimo legame col bambino dal ciuffetto è stato reciso quando sei entrato in quella stanza d’ospedale dove t’aspettavi di trovare tua madre sofferente; la trovasti già oltre il sonno, partita così silenziosamente per il suo ultimo viaggio che neppure un dottore, o un'infermiera, o l'inserviente delle pulizie, se n’era accorto; l’allarme lo hai dato tu e questo fatto non ha accresciuto la tua fiducia negli ospedali della tua città.
Dunque, bimbo dal ciuffo a banana, dimmi: cosa hai combinato dopo essere cresciuto?
Certo hai studiato, forse non tanto come avresti voluto, con quei sogni da ingegnere messi nel cassetto per tanti buoni motivi.
Ti ricordi come ti divertivi a costruire i tuoi accrocchi elettronici? 
Radio, amplificatori, persino un tentativo di televisore e alcune trasmittenti, rigorosamente illegali.
C’erano le valvole allora, e tu andavi in una discarica dove i militari della base Nato gettavano di tutto, comprese delle meraviglie di valvole militari introvabili e perfettamente funzionanti. Una volta registrasti sul Gelosino a bobine un messaggio di buon compleanno di tua madre a tuo padre e la sera, a tavola, riuscisti a trasmetterlo dalla tua stanza alla radio accesa in cucina, facendo piangere di commozione entrambi, che ti già ti vedevano un gradino più in alto di Marconi.
Come dici? Non ti diverti più con quelle cose e i monumenti a Marconi possono stare tranquilli che nessuno li soppianterà? Allora forse hai fatto altro, i tuoi interessi erano tanti e a volte spericolati.
Avevi un cugino più grande, e con lui costruisti addirittura un piccolo missile, che poi s’innalzò di alcune decine di metri sul prato per ricadere, sibilando ed esplodendo, a pochi metri da una ragazza che, in bicicletta, percorreva il sentiero vicino. Sai che la poveretta si è portata nella tomba la convinzione che da giovane era stata attaccata da un UFO pieno di marziani malvagi? Invece il cugino decise che era meglio studiare sul serio prima di riprovarci. Infatti oggi basta cercare il suo nome su internet e viene fuori un fisico di fama internazionale, che non lancia missili ma applica la fisica alla medicina.
Tu invece a testa bassa a lavorare. Perdesti presto tuo padre, uomo dolce e totalmente inadatto alla vita attuale, legato com’era a valori obsoleti quale onestà, altruismo, onore. Ma lui non per nulla era un gentiluomo del sud, nato nel 1899, incredibile a dirsi ma si parla di due secoli fa, di quelli che la parola Patria l’intendevano in un certo modo. Già, un valore oramai caduto in disuso, pagato di persona sul Grappa e sull’Isonzo, medaglie e croci di guerra, titolo di Cavaliere di Vittorio Veneto, il tutto perduto in qualche cassetto e sopravvissuto a tanti traslochi.
Ma torniamo a te, giovanotto senza più la banana in testa, sostituita da una pettinatura con la riga che porti ancora oggi, grazie ai capelli abbondanti che, a differenza di tanti tuoi sogni, non ti hanno abbandonato.
Tu dici che hai lavorato duramente e onestamente, che dopo oltre quarant'anni di competizione stressante, le multinazionali è noto che non regalano nulla, ti godi la meritata pensione. Hai dei figli, e pure dei nipotini, insomma non ti manca nulla e su quell'oceano di cui parlavo prima puoi navigare tranquillo sino a quando Dio, per chi ha la fortuna di credere, o il Fato, lo vorrà.
Strani modi ha di manifestarsi, il Fato.
Può prendere la forma di un fulmine, o di un piccolo grumo di sangue in qualche arteria vitale, cose che ti ucciderebbero all’istante ma ti risparmierebbero ulteriori lunghe sofferenze.
Oppure, come nel tuo caso, può essere un foglio di carta, ricco di grafici, numeri e parole incomprensibili tranne l’ultima, chiarissima, col nome di un signore inglese che si prese il disturbo di studiare una malattia ai suoi tempi senza nome e senza causa.
Ecco, ora davvero non ti manca nulla, hai persino la visione del percorso in ripido declino che ti attende..
Non ti manca nulla. Ma ne sei proprio certo?
E allora, perchè scrivi?.
Perchè hai ancora tanti sogni?
Perchè ti aggrappi ancora alle tue illusioni che piano piano, una alla volta, abbandonano la tua nave come piccole scialuppe abitate da gnomi, folletti e fatine incantatrici e spariscono tra un'onda e l'altra?
E perchè tu, mentre le saluti con un gesto stanco della mano, hai gli occhi che si riempiono di acqua salata?
Sono soltanto gli spruzzi dell'oceano, dici.
Addio, bambino dai capelli buffi, oggi è il tuo compleanno...
"... ma la tua festa ch'anco tardi a venir non ti sia grave".


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Fantastico / Alla luce rossa della candela
« il: Gennaio 30, 2016, 17:23:38 »


Spesso le porte di legno cigolano, anche quelle delle chiese.
Ma questa aveva proprio bisogno di una buona oliata, non poté fare a meno di pensare la donna nerovestita; come per darle ragione, gli echi di quel cigolio rimbalzarono a lungo nella navata, prima di spegnersi nella semioscurità dell’antico coro ligneo.

All’interno, l’atmosfera era cupa, quasi sinistra. Gli archi a sesto acuto, altissimi, si perdevano nel buio e, in basso, il chiarore proveniva dai finestroni, alti e stretti, le cui vetrate lasciavano filtrare solo i toni scuri della luce esterna: un azzurro profondo e un rosso sangue piuttosto inquietante.
La donna si rese conto di essere sola, così avanzò senza curarsi del suono martellante dei suoi tacchi a spillo, sormontati da un paio di gambe affusolate e nervose.
Era non più giovanissima, Rosetta, ma sotto il velo nero s’intravvedevano gli splendidi occhi verde chiaro, gemme di un volto che ancora non avrebbe sfigurato sulla copertina di un giornale di moda. Come il resto del corpo, che il vestito nero fasciava in modo discreto, ma non celava del tutto. A ogni passo, era evidente sotto la stoffa leggera il libero sussultare dei seni floridi che precedevano la vedova, tale era da poco, nel suo incedere verso l’altare maggiore.

Rosetta era entrata in quella chiesa con uno scopo ben chiaro in mente: si sarebbe finalmente tolta un peso, anzi una serie di macigni, dalla coscienza.
Era pronta a pagarne il prezzo, confessando tutti i suoi peccati e rinunciando per sempre ai suoi molti amanti.

Il rimorso per la morte del marito, l’unico uomo che avesse mai veramente amato, l’aveva precipitata in una profonda crisi di coscienza. Forse erano stati proprio i suoi continui tradimenti, mai nascosti, a minare prima lo spirito e poi il corpo del suo amato Giovanni, che infine, una notte, le si era abbandonato inerte tra le braccia nel momento culminante di uno dei rari amplessi che lei ancora gli concedeva.

Rosetta suonò il campanello del confessionale e un trillo lontano, in qualche angolo della sagrestia, le confermò che presto un sacerdote sarebbe arrivato ad ascoltare le sue trasgressioni dalla via che avrebbe dovuto seguire una moglie virtuosa. Forse ne sarebbe uscito sconvolto, il pretino, si disse lasciandosi sfuggire un mezzo sorriso malizioso.
Nell’attesa si sarebbe preparata. Si avvicinò all’altare, infilò una moneta nella cassetta delle offerte, prese una lunga candela, l’accese alla fiamma di un’altra e la fissò sul candeliere in ferro.
S’inginocchiò, mentre la candela ardeva sempre più decisa, più luminosa.
- Accidenti, ma quanta luce fa quella candela?- si domandò sorpresa, accorgendosi di un chiarore strano che si stava diffondendo proprio sopra la sua testa.
Alzò gli occhi e vide qualcosa che la lasciò a bocca spalancata, mentre una sensazione sembrava irradiarsi dalle radici dei suoi capelli giù, lungo la spina dorsale: una lama di luce rossastra proveniente da un finestrone andava a cadere proprio dove la fiammella della candela faceva tremolare l’aria sovrastante. In quella piccola area, luminosissima, si stavano formando delle immagini che, da vaghe e confuse, diventavano sempre più nitide.
Rosetta era come impietrita, incapace di distogliere lo sguardo da... ma santo cielo, quello era Giovanni! Ed era nudo, in piedi. Non solo nudo, ma nello splendore, si fa per dire giacché non era molto dotato, della sua erezione. E non era solo. Una donna inginocchiata davanti a lui si stava dando da fare volenterosamente. Per un momento anche il viso di lei divenne chiaro, per quanto un poco distorto dall’esercizio che stava compiendo con entusiasmo. - Patrizia, quella troia! - esclamò Rosetta. Patrizia, proprio quella che le aveva confidato di aver avuto cento amanti ma che non avrebbe mai toccato con un dito il marito di una sua amica. E infatti, non era un dito quello che stava usando.
Ma già la scena andava sfocando e le si sovrapponeva, come in una dissolvenza incrociata, un’altra immagine. Il protagonista maschile però era lo stesso, sempre nudo, ma questa volta comodamente sdraiato su quello che Rosetta riconobbe come il loro letto. Sopra di lui, un paio di tette prosperose sussultavano a ogni movimento - e si muoveva, eccome se si muoveva - di Roberta, la moglie del fornaio.
- La santarellina, brutta maiala, e pure sul mio letto! -
Rosetta si alzò in piedi quasi urlando, mentre la terza scena si componeva lentamente, mostrando questa volta un groviglio di corpi, nel quale a fatica si distinguevano due donne sconosciute e il solito Giovanni, che si rotolavano in quella che pareva la stanza di un motel di lusso, con tanto di enorme materasso ad acqua e specchi dappertutto.
Rosetta non aveva più parole, lo stupore stava lasciando il posto alla furia.
Come, il suo Giovanni, il suo tranquillo, remissivo, dolcemente e coscientemente cornuto Giovanni, l’aveva ripagata della stessa moneta? E lei, cretina, che si stava per pentire, stava per rinunciare ai suoi amanti e consacrare il resto della vita al ricordo del suo amore? Un porco, un depravato, ecco quello che era!

Rosetta strappò con rabbia la candela dal candelabro, sbattendola per terra e lasciando così interruptus il coito multiplo che si stava allegramente consumando nella luce sopra la sua testa.
Si voltò di scatto, incrociando un basito sacerdote che, diretto al confessionale, nulla aveva veduto se non il gesto violento che aveva spento la candela.
I tacchi risuonarono sul pavimento di pietra come fucilate, mentre Rosetta frugava nervosamente nella borsetta alla ricerca del suo cellulare. Non era ancora arrivata a far cigolare la porta che le parole della donna, quasi urlate, giunsero alle orecchie del povero sacerdote che si affrettò a segnarsi avvampando: - Preparati, tesoro, che arrivo e ti faccio un servizio come non hai mai avuto in vita tua! -

Una mano elegante, affusolata, spense il monitor sull’antica scrivania di mogano.
- Geniale, devo ammetterlo - fu il commento soddisfatto - stavamo proprio per perdercela quella cliente, e invece ecco dimostrato ancora una volta che la strategia a lungo termine paga. Tra grandi fratelli, dibattici politici, e come li chiamano... ah sì, reality, la gente oramai crede a tutto, basta propinarglielo sopra un bello schermo a colori. E questa volta è stato ancora più divertente, eravamo pure in trasferta... - , concluse con una risatina ironica.
Si accese un sigaro, si accarezzò il pizzetto ben curato e s'allungò rilassato sulla poltrona, arrotolando la lunga coda puntuta in modo che non gli facesse quello scomodo mucchietto sotto al sedere.

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Altro / Dal fiume di carta stagnola
« il: Dicembre 23, 2015, 10:51:47 »
Dal fiume di carta stagnola


Salotto in penombra, In un angolo, sopra il ripiano di un tavolino, un presepe con qualche lucina accesa. Si nota che è stato fatto in modo sbrigativo, con la mente lontano dallo spirito del Natale.
Sul tavolo al centro della stanza, un unico pacchetto incartato con cura. Ha l’aria sobria ma l’etichetta è importante, di una gioielleria famosa.


«C’è qualcosa di diverso in questo Natale, non so cosa sia, ma lo sento.»
«Non vedi? Le luci sono accese, il muschio è fresco e profumato, tu cucini come sempre; ci siamo tutti: l’angelo, gli altri pastori, la Famiglia nella capanna, il bue e l’asinello. La cometa è lassù, fissata con la puntina da disegno, presto arriveranno anche i Magi. Intanto il fiume di stagnola passa sotto il mulino, tutto scorre come sempre.»
«Lo so, e tu suoni la zampogna per un gregge che non c’è più. Non siamo noi a essere diversi, Luca è diverso, sembra disperato.»
«Ma cosa vai a pensare? Luca è un uomo, avrà qualche preoccupazione, gli uomini sono così fragili, non sono come noi: loro hanno un cuore!»
«Ma è solo! E’ Natale e lui è solo. Non era mai accaduto prima.»
«Io sono con le spalle alla sua vita; come sempre, io guardo la Capanna, a chi è dentro e a te che sei lì a fianco, vicino al fiume. Così vuole e così faccio, non m’interessa vedere altro.»
«Già, tu guardi solo al tuo piccolo angolo, del resto qui è la nostra esistenza, lo scopo per cui siamo stati creati. Ma io sono diversa, io ho gli occhi rivolti verso l’altro mondo. Certo, vedo anch’io il muschio e ne sento l’odore, vedo brillare il fiume. Ma io vedo oltre, e Luca lo sento diverso, c’è qualcosa di terribile nell’aria.»
«Ora che me lo dici, qualcosa ho notato. Da bambino, Luca aveva i genitori che lo coccolavano e gli facevano tanti regali. Mi ricordo di suo padre, lui mi portò qui.“Vedi”, diceva, “quello è un pastore col suo gregge, va ad adorare il Bambino”, ed io mi sentivo importante, suonavo la mia zampogna ancora più forte e badavo che le pecorelle non si rompessero una zampa, erano tanto delicate.  Ora non ne ho più, l’ultima si è rotta due anni fa. Ma oggi, a parte noi, per la prima volta non c’è nessuno con Lui.»
«Ricordo anch’io. Quando arrivai, fui subito deposta vicino alla capanna, a preparare la cena sul fuoco di legna. ”La ragazza che cucina” mi chiamavano. Ponevano una piccola lampadina rossa vicino, tra il muschio, e mi piaceva tanto quella luce, mi riscaldava. Invece ora non c’è, si è rotta e Luca non se ne è accorto, qui è buio e sento freddo. Ma vedessi lui, come va avanti e indietro, come fissa l’orologio… sembra che aspetti qualcuno.»
«Sta aspettando Betta. C’era, l’anno scorso, e Luca era felice. Invece non ho sentito la sua presenza quest’anno. Deve essere successa una di quelle cose che accadono agli uomini. E alle donne.»
«Tu, oltre a non vedere, non ascolti. Se smettessi di soffiare in quella zampogna e usassi le orecchie, sentiresti. Sentiresti la speranza con la quale Lui ha deposto un pacchetto sul tavolo. Sai, ho idea che contenga una cosa importante, di quelle che cambiano la vita di due persone. E sentiresti le telefonate che Luca ha fatto. Era infuriato, urlava. Poi un’altra volta piangeva, sembrava un bambino. Ma Betta verrà, io le cose le sento.».
«Sei tu che a furia di cucinare sempre lo stesso stufato ti sei ammattita. Lei non verrà. Ho sentito, ho sentito, cosa credi? Io suonerò anche la zampogna badando a un gregge che non c’è, ma almeno ho il buon senso che tu non hai. Luca le ha detto cose terribili, come vuoi che una donna torni da uno che l’ha trattata così?»
«Le donne a volte sanno capire che l’amore e la disperazione possono prendere la mano a un uomo. E sanno perdonare… Oh Dio mio!»
«Che c’è? Che cosa succede?»
«Luca ha tirato fuori una cosa, una pistola, e ora la tiene in mano!»
«Santo cielo! Tu pensi che…?»
«Sì, io credo che lo farà, te l’ho detto, io le cose le sento. Poi gliel’aveva gridato che l’avrebbe fatto. Aspetta, ecco, ora telefona di nuovo.»
«Mi hai messo l’angoscia; perché non lo sento parlare?»
«Non c’è risposta. Ora Luca prende il pacchetto sul tavolo… oh no! Lo ha gettato nel cestino. Ora sembra più calmo, guarda la pistola, ce l’ha davanti. Non deve farlo, Betta sta arrivando, io lo so!  Pastore, non possiamo lasciarlo morire così, davanti a noi, a Natale, davanti al suo presepe. Dobbiamo fare qualcosa!»
«Ma cosa possiamo fare? Noi non cambiamo gli eventi, noi siamo solo dei testimoni, io sono il Pastore e tu la Ragazza che cucina, noi siamo delle statuine.»
«Io posso, io devo!»


Luca guarda ancora l’orologio.
Betta entra trafelata nel portone e inizia a salire i tre piani di scale, di corsa.
Luca prende in mano la pistola e la punta alla tempia.
Un improvviso rumore alle sue spalle, come di cosa infranta.
Luca si gira istintivamente, si guarda intorno.
Sul pavimento, i frammenti di una statuina, quella della ragazza che cucinava vicino alla capanna.
Il campanello della porta suona istericamente


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Fantastico / Il mio tacchino di Natale
« il: Dicembre 14, 2015, 19:50:02 »


Lo so, il Galateo lo vieta, ma quando si è soli con se stessi, al diavolo le convenzioni!
E poi, detto tra noi, chi legge ancora monsignor Della Casa?
Così, quando consumo un pasto in solitudine, a me piace leggere; e certamente non il Galateo.
Il Natale era alle porte, e sarebbe stato il mio settantesimo; un numero che, riferito all’età, incute seri timori: il conteggio alla rovescia vede lo zero sempre più vicino; però dopo, quando Qualcuno preme il pulsante rosso, non si parte per la luna.
Da alcuni giorni, in solitudine da anacoreta, mi ero rifugiato nel mio Rascard, a quasi duemila metri di altezza in una remota valle ai confini con la Francia.
Stavo facendo il bilancio di tante cose e, forse perché andavo scoprendo che il passivo superava di molto l’attivo, o forse perché l’inverno stava facendo il proprio mestiere mandando una fitta nevicata, insomma, qualunque ne fosse il motivo, avevo deciso di rileggere un piccolo gioiello: "A Christmas Carol" di Charles Dickens. In lingua originale, per rendermi la vita un po’più difficile di quanto già fosse.
Avevo trasferito una parte dei miei libri, così come una parte dei miei dischi preferiti, in quel rifugio, perfetto per godermi gli uni e gli altri.
Misi sul lettore un disco; avevo scelto “Quadri di un’esposizione” di Mussorsgsky che, per le sue atmosfere magiche, mi pareva un ottimo accompagnamento alla mia lettura, poi mi diressi agli scaffali della libreria.
Solo i miei libri preferiti possono fregiarsi dell’Ordine della Macchia d’Unto, che inevitabilmente onora le pagine lette sulla tavola, accanto ai miei piatti; e quelle che mi apprestavo a leggere erano già state decorate più volte.
"Marley was dead, to begin with."
Tanto per cominciare, Marley era morto. Un incipit folgorante che non potevo fare a meno di associare al mio tacchino, assaporato in ricca porzione: in effetti, era defunto come un chiodo in una bara, il povero tacchino Marley. Di lui giacevano nel mio piatto, ma ancora per poco, le saporite, invitanti, spoglie mortali.
Meno di un'ora dopo, del tacchino non era rimasto che qualche ossicino, del contorno di radicchio nemmeno quello, visto che gli scienziati ancora non sono riusciti a creare il radicchio vertebrato transgenico ma, se qualche multinazionale intravvede un “business”, date loro qualche annetto e ci arriveranno… ma questa è un’altra storia.
Quanto al vino, nel decanter non rimaneva altro che il profumo: il soave, corposo, ben strutturato Fumin di Grosjean, annata 2003, mi aveva deliziato e poi infuso un certo torpore.
Spensi la musica, sulle note del quadro “La capanna dalle zampe di gallina” e, prima di arrivare alle ultime pagine del libro, mi andai ad avvoltolare anzitempo nelle coperte per godermi il totale silenzio di una notte di neve in montagna.
Presto mi svegliai, allarmato.
Qualcosa si muoveva nella casa, non c'era dubbio.
Accesi la luce e mi guardai attorno. Nulla.
«Chi c'è? Ho il cellulare, chiamo la polizia!».
Un bluff, come rilanciare con una coppia di due: pur trascurando il fatto che lassù il cellulare funzionava oppure no, secondo indecifrabili umori, i carabinieri più vicini erano a una ventina di chilometri di strada di montagna innevata, quindi un malintenzionato avrebbe fatto in tempo a spennarmi, cucinarmi e rosicchiarmi sino all'ultimo ossicino, proprio come io avevo fatto col tacchino Marley.
Per tutta risposta, dalla stanza attigua mi giunse un rumore, come di uno zampettio. Poi un chiarore intermittente, dove diversi colori si alternavano con ritmo lento.
Decisi che dovevo andare a vedere, costasse quello che costasse. Impugnai il bastone da trekking che tenevo accanto alla porta-finestra e mi diressi verso l'altra stanza.
Mi piacerebbe dire che lo feci risolutamente; in realtà l’avverbio più adatto, se solo esistesse, sarebbe “tremebondamente”. Invito i signori accademici della Crusca a sancirne l’esistenza.
Di certo, agli occhi di un malintenzionato, magari armato, avrei avuto un aspetto impressionante: scalzo, mutande alla Fantozzi, maglia di lana e bastone, un’apparizione da farlo schiattare, ma dalle risate.
Subito vidi la fonte di quel chiarore policromo: il piccolo albero di Natale, uno di quelli di plastica che si acquistano al supermercato già addobbati. Ma io ero certo di averlo lasciato con la spina staccata, non avevo alcuna intenzione di accenderlo.
Per quello che viene dopo, occorre intenderci subito, se no è meglio che cambiate lettura.
Il padre di Amleto è già morto e sepolto all'inizio del dramma.
Se non credete agli spettri, la sua passeggiata sugli spalti del castello di Elsinore e tutto quello che ne consegue, incluso il sin troppo famoso “ To be, or not to be…” sono una solenne baggianata. Ora, chi vuole sostenere che l'Amleto sia una solenne baggianata?
Dicevo dell'alberello acceso. Subito dopo, mi sentii rimescolare la cena nello stomaco: in un angolo, ritto su due zampe scheletriche, proprio come quelle che sorreggono la capanna di Baba Yaga nell’omonima fiaba russa, stava una figura da incubo. Traslucido come un miraggio, enorme, oscenamente spennato, gli occhi che mi fissavano iniettati di sangue, non vi era dubbio: si trattava di Marley, come avevo battezzato il tacchino della mia cena.
Era verde, poi giallo, era rosso, poi ancora verde. Era il colore delle luci dell'albero che si accendevano in sequenza.
«Ma... ma tu sei morto e mangiato», dissi stupidamente.
«Certo, ma non te ne voglio, non sono qui per questo.».
Parlava. Chissà perché la cosa non mi sorprese più di tanto.
«E allora cosa fai qui, cosa vuoi da me?».
«Io? Non voglio molto e a dire il vero non sono nemmeno un tacchino. Ho pensato di presentarmi in questa forma per non spaventarti troppo.».
«Grazie, molto gentile, in verità sono abbastanza spaventato anche così. Ma se non sei un tacchino, chi diavolo saresti?».
«Hai appena riletto un certo racconto, quindi puoi ben immaginarti chi io sia.».
In effetti non ci voleva molta fantasia, una volta accettata la situazione assurda nella quale mi trovavo. Mi feci coraggio e risposi:
«Veramente, in "A Christmas Carol", di spettri ce ne sono a bizzeffe. Ma io non ho soci d'affari defunti di fresco, quindi suppongo che tu pretenda di essere uno degli spiriti del Natale.».
«Io non pretendo, io sono! Per l'esattezza, sono lo spirito del Natale Presente e il perché della mia venuta è semplice: tu mi devi delle scuse.».
Spettro o tacchino che fosse, non vedevo per quale ragione avrei dovuto chiedere scusa a qualcosa che, in fondo, nemmeno credevo reale, e glielo dissi.
Per tutta risposta venne fuori con una specie di ruggito che fece tremare i doppi vetri della sala.
«Tu non accogli più lo spirito del Natale! Dovresti vergognarti, implorare il mio perdono, correre fuori a comprare i regali e fare felici tante persone!».
Io sono un pò' timido e pure incline a mediare, ma non aggreditemi soprattutto quando penso di essere dalla parte della ragione. A quel punto l'arrabbiato ero io, e ben deciso a farmi valere.
«Bene, sono contento che tu sia venuto, almeno ti dico di persona perché ti detesto, e mi risulta che in tanti la pensino come me!».
«Ma cosa dici? In tutto il mondo brillano le luci, si canta "Jingle bells", si scambiano doni, io sono ovunque, più vivo e presente che mai!».
«Ecco, questo è proprio un aspetto del problema: sei fin troppo vivo.».
«E da quando essere troppo vivo sarebbe un problema?».
«Lascia che ti spieghi. Vedi, quando ero piccolo...» m’interruppe con un secondo ruggito:
«Aaah che palle, sempre la solita solfa! Voi umani siete monotoni e banali! Tutti a dire com'era bello il Natale da bambini, il calore di mamma e papà, dei fratellini o sorelline, l'abete, i regalini poco costosi, altro che gli smartphone e i videogiochi... bla bla bla, che lagna! Possibile che non vi rendiate conto di quanto io sia più bello adesso, più allegro e sopratutto più ricco?».
«Questo è proprio il punto, mio caro. Sei sfacciatamente ricco, come uno sceicco del petrolio e se non bastasse, sei pure cieco, muto e sordo. Rassomigli alle tre scimmiette, sai quelle che si mettono le mani sugli occhi, sulla bocca e sulle orecchie? È inutile che adesso inizi a sferragliare trascinando chissà quali catene, saranno certamente d'oro massiccio e proprio non mi fai pena.».
Il tacchino, o spirito, o chiunque fosse, divenne rosso, questa volta non per le luci dell’albero ma per la rabbia. Forse avevo esagerato e ne avrei subite terribili conseguenze?
Invece si calmò e riprese a parlare quasi in tono affettuoso.
«Sei tu che mi fai pena, pover’uomo: e pensare che ho acceso il tuo miserando alberello perché volevo tirarti su di morale, magari farti venire voglia di prendere la tua automobile e andare giù, in paese. Sai, c'è festa nel Pub, c'è la musica e tanta gente felice.».
«Gente che pensa di comprare la felicità, vuoi dire. Felice era un tempo, sì proprio quel tempo con mamma e papà, l'angelo di cartone, il regalo povero ma atteso come un miracolo. Se tutto ciò ti fa dire "che palle" puoi dirlo, ma io ti vorrei ancora così, con quelle serate in famiglia, col calore di una stufa a legna e senza il bisogno di decine di pacchetti costosi per sentirsi felici. Tu sei qui, bello grasso e chiassoso, ma non sei come dovresti essere.».
«Se parli di queste forme da tacchino, hai ragione, ma per il resto come dovrei essere, di grazia? Tutto si evolve, tutto cambia e pure io sono cambiato, c'è qualcosa di male in questo?».
Oramai il timore aveva lasciato il posto alla mia voglia di sfogarmi con qualcuno, fosse pure un sedicente spirito, e nulla mi avrebbe trattenuto; così gli snocciolai una tiritera che avevo bella e pronta da tempo ma che nessuno era ancora riuscito a tirarmi fuori.
«Oh no, non è il cambiamento in sé, per quello hai ragione, tutto cambia. Il punto è come si cambia. E tu sei cambiato troppo e troppo male. Ma guardati! Se ti prendessi la briga di usare quelle aluccie da tacchino e di andare un po' in giro per il mondo, vedresti quello che vedono tutti, vedresti ciò che accade ogni giorno: dove sono la solidarietà, la tolleranza, l’amore per il prossimo? Semplice, queste cose le mettiamo in uno scatolone assieme alle palline colorate, ai fili d’argento, alle statuine del presepe e le tiriamo fuori una volta all’anno. E cosa vuoi che sia un giorno d’ipocrita bontà rispetto ai trecentosessantaquattro dove tu non ti fai vivo?».
«Io veramente... », tentò di interloquire l'ombra del pennuto, ma io ero lanciato e non lo lasciai continuare.
«Era una domanda retorica, e ora te ne faccio un'altra: dove sei tu, quando i mercanti nel tempio svendono la giustizia, l’onestà, la salute, la fede, persino il Bambino, il bue e l’asinello? La capanna non la toccano solo perché c'è la crisi del mercato immobiliare, l’IMU e tutto il resto, non è il momento per vendere.».
Era un tantino sconcertato, si vedeva dai bargigli più penduli che mai e si percepiva dal tono della voce quando tentò una risposta.
«Ma nei tempi passati esistevano cose persino peggiori di queste, eppure il Natale era un giorno felice.».
«In passato era molto più facile far finta di non sapere. Oggi sappiamo, sappiamo tutto. Vediamo bambini addestrati a uccidere o a farsi esplodere, vediamo i poveri del mondo morire di fame mentre distrattamente gettiamo nell’immondizia tonnellate di cibo, vediamo coloro che dovrebbero guidarci intenti ad azzuffarsi per il loro potere e il loro tornaconto… e qui smetto, ma una cosa è sicura: l’uomo è l’unica, autentica belva feroce, l’unico del creato che sorride con i denti arrossati del sangue del fratello mentre ti augura “Buon Natale”.».
Avevo finito. Restammo a fissarci per lunghi istanti, mentre gli occhi di Marley cambiavano colore: verde, giallo, rosso, ancora verde.
Poi, nelle sue pupille, vidi il riflesso di un lampo improvviso, seguito immediatamente da un tuono vicinissimo.
L'alberello si spense mentre il buio tornava padrone della casa.
Mi trovai sul letto, sudato, con i piedi sul cuscino e la coperta per terra.
La luce era davvero saltata, ne dedussi che il tuono era stata l’unica cosa reale di quella strana nottata, ma tutto era tremendamente vivido nella mia mente. Di solito il ricordo dei miei sogni dura il tempo di infilarmi le pantofole.
Andai a tentoni a ripristinare l'interruttore che era scattato, accesi tutte le luci e confesso che, entrando in sala, ebbi un brivido vedendo l’albero di natale con le luci accese. Forse, mi dissi, avevo inserito la spina prima di buttarmi sul letto, mezzo brillo per quel vino.
Però continuai a ispezionare la casa con circospezione, guardando persino sotto il letto, come un imbecille.
Naturalmente non trovai nessuno.
Alla fine mi convinsi di aver avuto uno strano incubo, complici il defunto pennuto, la musica di Mussorsghj e un bicchiere di troppo.
Ma chi avrebbe potuto ancora dormire?
All'alba aveva smesso di nevicare, il cielo era sgombro da nubi e lo spettacolo era meraviglioso.
Mi vestii, presi le racchette da neve e uscii per andare a fare un giro lungo i sentieri che conoscevo bene.
Forse il freddo e l'aria tersa mi avrebbero rischiarato del tutto le idee.
Mi avviai senza fretta, ricordando di essere un visitatore, un ospite rispettoso e ammirato; persino i miei deboli rumori, il respiro e il fruscio ovattato delle racchette, sembravano fuori posto.
Una breve salita, poi un pascolo illuminato dai primi raggi. Ciascun singolo cristallo di neve rifletteva il sole, erano milioni di piccole luci che tremolavano, si spegnevano e si riaccendevano a ogni movimento degli occhi.
Sulla morbida superficie, una serie di minuscole impronte raccontava storie di abitanti notturni, di ricerca di cibo, di passi furtivi e improvvisi fruscii di ali mortali, di tragedie e di speranze del piccolo popolo della montagna.
Non mi meravigliai troppo se per un lungo tratto del primo sentiero, dalla porta, lungo il pascolo, sino ai margini del bosco, ben riconoscibili tra tutte le altre, mi accompagnò una serie di orme ancora fresche; al mio occhio poco esperto parevano proprio quelle di un grande tacchino.

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Fantastico / Il piccolo naso
« il: Novembre 22, 2015, 08:36:36 »


Per Mario, le porte del magico mondo dei libri si aprirono un pomeriggio primaverile di tanti anni fa, sul prato intorno alla casa di campagna.
Anna, la sorella maggiore, stava leggendo seduta all’ombra del salice quando Mario, che gironzolava sul prato a piedi nudi con l’aria piuttosto annoiata, le si avvicinò e chiese cosa ci trovasse di tanto interessante in un libro: non sarebbe stato meglio se avesse giocato con lui?
«Questo libro racconta una storia meravigliosa» disse Anna «ma tu sei troppo piccolo e non sai ancora leggere, quando potrai, piacerà molto anche a te.  Ora però devo mettermi a studiare la lezione».
Anna chiuse il libro e lo posò sull’erba, vicino ai piedi di Mario, e ne aprì un altro che sino a quel momento era rimasto ad aspettare sotto al salice.
Mario era incuriosito, quel libro chiuso lo attirava irresistibilmente, così allungò la gamba sino ad arrivare a sfiorarlo sul dorso, con la punta dell’alluce. “Certo che non so leggere, sono piccolo, ma questo libro mi dirà lo stesso delle cose”, pensò, e chiuse gli occhi in attesa di scoprire quali sensazioni gli sarebbero arrivate, risalendo dall’alluce su, lungo il suo corpo, sino alla testolina.
Perché Mario era un bambino di cinque anni, abbastanza grazioso, abbastanza simpatico, abbastanza felice, insomma un bambino come tanti altri.
Se non fosse stato per il naso.
Intendiamoci, il suo  naso era a posto, ben fatto, un poco largo forse, ma sul suo viso da furbo monello ci stava benissimo.
Quello per lui era “il grande naso”; poi c’era “il piccolo naso”.
Piccolo naso? Certo! Sulla punta del piede destro, esattamente sull’alluce, lui aveva scoperto di avere un altro naso, sensibile agli odori come e più di quello di un cane da caccia.
Una scoperta recente, avvenuta all’inizio della primavera, mentre camminava a piedi nudi sul prato, proprio come quel giorno.
Tutto un mondo di odori, fatto di forti contrasti e lievi sfumature, sensazioni che di solito i bambini non possono percepire, e nemmeno i grandi, a dirla tutta.
Perché gli odori di quel tipo se ne stanno giù, bassi bassi, a livello del suolo, come se avessero paura di farsi notare, e se osano alzarsi vengono presi dal vento, sbatacchiati, mescolati e resi irriconoscibili.
Per fare un esempio, camminando sul prato Mario ne sentiva l’odore. E non dite che quello lo sentono tutti, anche col naso normale: tutti credono di sentirlo. Quello che assaporava Mario era il vero odore, anzi,  una sinfonia di tanti odori diversi, perché ogni erbetta, ogni piccolo fiore, ogni animaletto, aveva una sua impronta particolare; non è detto che fosse un profumo, ma lui riusciva a distinguerli uno per uno e poteva dire a occhi chiusi: «Qui ci sono dei nontiscordardimè, là invece dei trifogli e laggiù, accanto a quelle margherite, sta per sbocciare una viola.». E lo stesso per le formiche, che distingueva subito tra quelle rosse e quelle nere. Le verdi mantidi mandavano un profumo particolare, per non parlare degli scarabei stercorari che insomma, ecco, quelli davvero puzzavano, tanto che pensava: “Poveretti, col mestiere che fanno, mica hanno il bagnoschiuma profumato che li aspetta a casa”.
Allo stesso modo, da quel libro sotto il salice iniziarono ad arrivare molti profumi diversi.
C’era la carta, col retrogusto di legno, poi l’inchiostro, che aveva un certo aroma amarognolo. Ma cos’era quell’odore strano? Eppure gli pareva di conoscerlo. Ecco! La vacanza dell’anno precedente con mamma, papà e Anna, le scogliere, gli spruzzi… l’oceano! Quello che sentiva era certamente l’odore dell’oceano.
Poi ne arrivò un altro, dolciastro, sgradevole, sembrava quello delle erbe morte che il signor Paolo, il giardiniere, toglieva dalla vasca della fontana.
Si corresse, “No, si chiamano alghe”. Suo padre, mentre passeggiavamo sulla spiaggia dopo una mareggiata, aveva spiegato che le alghe sono piante che crescono nell’acqua e persino nell’oceano. Infine, sopra a tutti, un puzzo così intenso che gli fece istintivamente allontanare il piede dal libro. “Che brutto! Mamma mia, sembra l’odore di un mostro enorme, sarà un orco? O forse un drago che sputa fiamme, come nelle figure del libro di San Giorgio?”. Anna era tutta intenta al suo studio ma ugualmente scorse lo scatto della gamba e notò la smorfia di disgusto del fratellino.
 «Cosa c’è, ti ha morso un ragno?».
 «Peggio, Anna; senti, quel libro parla dell’oceano e di un mostro puzzolente che ci vive?».
Anna rimase perplessa: come faceva Mario a sapere quelle cose?
«Beh sì, anche. Non è proprio un mostro, parla di un capitano e dei suoi uomini coraggiosi che danno la caccia a una grande balena bianca, e la caccia si svolge sull’oceano, naturalmente».
 «Una balena? Come quella che ingoia Geppetto?» chiese Mario, interessato.
Anna cercò le parole giuste per spiegare a un bambino di cinque anni cosa fosse una balena, ma pure lei, che di anni ne aveva quasi dieci, non ne aveva mai vista una. Però aveva visto dei disegni, e stava leggendo quel libro che diceva molte cose sulle balene.
«Una balena non ingoia nessuno, è come un pesce perché vive nel mare, ma respira aria come noi ed è molto grande, più grande persino di Bullo, il toro del signor Guido, e soffia come lui, ma soffia acqua puzzolente.».
Mario era soddisfatto, era quella la puzza e la balena era un grande mostro. Si diresse verso casa saltellando e cantilenando a gran voce.
Una volta entrato, si diresse, sempre correndo, verso la biblioteca di papà.
La scoperta degli odori nel libro era stata eccitante, voleva provare con altri libri e sapeva che lì ne avrebbe trovati molti.
“Saranno un milione”, pensò entrando nella grande stanza piena di volumi bene allineati lungo tre delle quattro pareti.
Si alzò in punta di piedi per arrivare al primo scaffale. Una bella copertina di cartoncino rosso attrasse la su attenzione. Prese il libro con fatica e lo posò sul tappeto, quindi si sedette con la schiena appoggiata alla poltrona di cuoio e accostò il piede alle pagine ingiallite.
Cercò di ignorare gli odori di carta e d’inchiostro che aveva già sentito, e si concentrò su quelli nuovi che iniziavano ad arrivare.
Prima un odore strano, certo non piacevole. Era come quello del posto pieno di lumini rossi, dove mamma e papà l’avevano portato all’inizio di Novembre. Gli avevano indicato una piccola costruzione di marmo bianco con due fotografie rotonde, quelle di un’anziana signora e di un vecchietto con i baffoni. «Qui dormono i tuoi nonni, la mamma e il papà di tua mamma» gli avevano detto.
Ma subito dopo un nuovo odore prese il sopravvento, talmente prepotente da pervadere tutto il libro. Mario sentì un brivido lungo la schiena, subito seguito da una strana sensazione alla radice dei capelli. Ritrasse il piede come se si fosse scottato.
Era l’odore della paura, lo conosceva, l’aveva sentito quando, per fare uno scherzo ad Anna, si ero nascosto sotto il suo letto e poi, al buio, le aveva tirato i piedi urlando “buuuh”. Anna si era messa a urlare, poi a piangere mentre la stanza si riempiva di quell’odore. La mamma era accorsa agli strilli ed era riuscita a calmarla facilmente, ma quando Anna le raccontò cosa l’aveva terrorizzata, a Mario toccò una ramanzina solenne e una spiegazione su come la paura potesse fare del male. «Non azzardarti a fare mai più uno scherzo del genere» gli aveva detto, molto seria in viso, «se lo rifarai, lo dirò a papà». Quella di essere sgridato davanti a suo padre era la punizione più temuta, Mario adorava suo padre e ne cercava sempre i sorrisi e le coccole.
“Allora nei libri può esserci la paura”, pensò “dovrò stare attento, la mamma dice che la paura può fare male”.
Lasciò sul tappeto quel libro e ne prese un altro, poi un altro e altri ancora, tirandoli giù da tutti gli scaffali bassi, dove poteva arrivare.
Ognuno gli diede sensazioni diverse, alcune conosciute, come il mare, i fiori, il vento, i cavalli e i boschi, altre che non riuscì a capire, piacevoli, tristi, o semplicemente impossibili da definire con l’esperienza di un bambino.
Ma a cinque anni ci si stanca in fretta persino del giocattolo più meraviglioso, e quella tempesta di emozioni ben presto lasciò Mario svuotato di energie, con la testolina confusa e piena di domande.
Si sdraiò sul morbido tappeto, circondato dai libri, l’ultimo posto sotto la testa come un cuscino, e chiuse gli occhi.
Suo padre lo trovò cosi, e dopo un attimo di stupore e un lampo di disappunto nel vedere i suoi amatissimi volumi trattati in quel modo, sorrise scorgendolo addormentato sulla rara e preziosa edizione di “Fermo e Lucia”.
Si chinò e lo prese in braccio, dandogli un bacio sulla fronte. Lui sorrise e aprì gli occhi.
«Papà, lo sai che i tuoi libri mi piacciono molto, quasi tutti. Ma qualcuno mi fa paura».
«Caro, tu non sai leggere, non puoi capire cosa dicono i libri. Invece non dovresti giocarci, alcuni sono davvero molto rari ed io non vorrei che si rovinassero».
«Mica li rovino, poi non so leggere ma i libri hanno dentro gli odori. Vedi, è come quando ci porti al cinema: non serve leggere per ridere con i cartoni animati e capire le storie che ci fanno vedere».
Il padre sorrise a quella che sembrava una sciocchezza di bimbo. «Mario, tesoro, i libri odorano di carta, magari di vecchio e di muffa, e basta. E’ vero, alcuni contengono storie che mettono paura, ma altri fanno volare con la fantasia, ti mostrano luoghi, persone e cose che mai potresti vedere o ascoltare. I libri sono la più grande invenzione dell’uomo, ma vanno trattati con amore, e occorre leggerli quando si è pronti per farlo».
Mario strinse più forte suo papà, assaporandone tutto il suo odore così rassicurante, robusto come il tabacco della sua pipa, dolce e morbido come la camicia che indossava, fresca di bucato e appena stirata.
«Io sono pronto, papà, quando mi sveglio torno dai libri, ma ti prometto di non romperli».
Da quel giorno e per alcuni anni, la biblioteca fu il mondo di Mario, che vi trascorreva quasi tutto il tempo libero. Naturalmente imparò a leggere, ma per le prime sensazioni di un libro che stava per aprire, si affidava ancora al suo nasino segreto.
Tutto cambiò quando si accorse che pure il suo corpo stava cambiando, preparandolo a entrare in un mondo senza più favole e senza più profumi segreti.
Ma i libri, per fortuna, c’erano ancora, e non li abbandonò, anzi li amò sempre e loro, in cambio, tennero viva la sua fantasia e la sua voglia di conoscere.
Dovette adattarsi a leggerli come fanno tutti, eppure… eppure ancora adesso nonno Mario, riaprendo Moby Dick, magari per leggerne alcuni passi ai nipotini, socchiude gli occhi e sembra che ritrovi il profumo dell’oceano, il sentore delle alghe e, quando la vedetta urla nel vento “Laggiù soffia!”, l’inconfondibile odore della grande balena, più grande persino di Bullo, il toro del signor Guido.

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Anch'io ho scritto un aforisma / Nostalgia
« il: Novembre 09, 2015, 21:42:13 »
La nostalgia mette i segnalibri tra le pagine del passato, la malinconia è il vento che apre il libro dove sono quei nastrini rossi. Ma è l’Anima che legge la pagina. 

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Presentazioni / un vecchio orso
« il: Novembre 08, 2015, 18:57:34 »
Orso brontolone e di antico pelo, aggiungo.
Scrivo da una decina d'anni, dopo essere andato in pensione, e infesto con i miei racconti siti e piccoli concorsi.
Ho scoperto questo sito ed eccomi con un brano di recente scrittura e antica ispirazione.
Non abbiate timore di stroncare i miei lavori. io farò lo stesso  ;)

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Altro / Una storia del vecchio nostromo
« il: Novembre 08, 2015, 17:43:02 »


“Qual è la tua sostanza, di cosa sei fatto
che milioni di strane Ombre ti fanno scorta?”.
(W. Shakespeare, sonetto 53)


Troppe volte la vita di un uomo è stata decisa nel suo bivio cruciale, da una piccola parola: “se”.
Se avesse fatto, se avesse visto, se avesse ascoltato… quel “se”, nella sua brevità, racchiude un grido di rimpianto,  spesso una sentenza senza appello.
La vita di Konstantin Afanasevič Samaraev non aveva ancora incontrato quel bivio.
Alla soglia dei venticinque anni, Konstantin trascorreva i suoi giorni senza rimpianti tra San Pietroburgo e una delle grandi tenute di famiglia, nei pressi di Lebjaž'e, affacciata sule gelide acque del golfo di Finlandia.
Sebbene primogenito di un nobile dalle grandi ricchezze, a suo tempo insignito dallo Zar Nicola I dell’ordine di Cavaliere di San Vladimiro, Konstantin amava mescolarsi al popolo di pescatori e marinai che affollava la taverna di Jakov, al porto. 
Spesso, nella buona stagione, lasciava a cavallo la tenuta e passava la notte nel tanfo di pessima vodka, giocando a carte e cantando strofe che a San Pietroburgo gli sarebbero costate l'esclusione dai salotti della buona società, e forse anche di peggio.
Nella taverna, Konstantin trovava l’opposto di ciò che non sopportava nei salotti della capitale: persone che valeva la pena di conoscere, schiette nella loro dignitosa povertà, interessanti perché riscattavano la loro ignoranza incolpevole con i tesori dell’esperienza. E questi tesori erano sempre disposti a condividerli, senza chiedere altra ricompensa che un bicchiere di vodka.
Una di queste persone era certamente Staryj Botsman.
In realtà nessuno sapeva il suo vero nome, si faceva chiamare soltanto Staryj Botsman, vecchio Nostromo;  ugualmente, nessuno sapeva di dove fosse: era arrivato un giorno di tempesta, da solo a governare una Jaala estone a due alberi.  Ancorata vicino a riva, fatiscente, quella era la sua casa.
Senza nome, senza età, senza patria, certamente con la gioventù lontana molti lustri, il volto arso dal sale e il corpo ricoperto dai segni delle risse nei porti di ogni mare, sedeva sempre da solo, allo stesso tavolo, e dava fondo a bottiglie e ricordi.
La sua voce, che aveva sovrastato quella dei marosi ruggenti e l’urlo dei venti tra il sartiame, nel tempo si era arrochita e affievolita, ma era ancora in grado di dominare lo schiamazzo disordinato degli avventori.
«San Nicola mi è testimone, quella volta che…», iniziava invariabilmente, e intorno a lui si faceva silenzio.
Allora, in quella stanza maleodorante, il Kraken divoratore di vascelli e marinai, con i suoi cento tentacoli si avvinghiava alle gambe dei tavoli, oppure il brigantino del capitano Fokke, dalle vele lacere e la ciurma di spettri, attraversava a dritta la rotta di un vassoio di vodka, mentre gabbiani diabolici dagli occhi di fuoco si calavano sul bancone, guardando malignamente gli avventori.
Se, Il fatale “se” di Konstantin: se avesse prestato attenzione a una delle storie del Nostromo…
Avrebbe dovuto, non fosse altro perché quella sera, per più volte, lo sguardo del vecchio aveva attraversato il vetro del bicchiere e si era puntato negli occhi di Konstantin, che ne era rimasto turbato; “dagli occhi di un uomo si giunge alla sua anima”, dice un proverbio russo, e gli era parso che quell’uomo pieno di misteri stesse appunto leggendo il libro nero della sua anima.
Perché il disegno del delitto che lo avrebbe dannato per l’eternità era ormai germogliato in lui, come un cancro senza remissione.
Invece, distratto da quello sguardo e immerso nei suoi sinistri pensieri, aveva permesso che le parole pronunciate dal vecchio scivolassero nella sua mente senza destare alcuna attenzione o lasciare una traccia in grado di riaffiorare tra i ricordi.  In fondo i racconti del Nostromo erano solo cupe leggende, da prendere per quello che valevano: una bottiglia di pessima Vodka.

Erano passati due giorni e una breve notte mai del tutto oscura, l’alba segnava l’inizio di un nuovo, interminabile giorno e già in alto volavano i padroni dei venti, i gabbiani, emettendo le loro grida inconfondibili.
Se solo si fosse ricordato del racconto del Nostromo, sicuramente avrebbe fatto qualcosa di diverso, invece Konstantin aveva appena abbandonato il corpo inanimato di Nina Michailovna tra gli scogli dove l’aveva trascinato.
Alla luce radente del sole, Nina aveva perso tutto il suo potere di seduzione. Quello che aveva abbandonato lì, nella schiuma della risacca, era qualcosa di simile alla pelle della serpe che si trova a volte lungo il sentiero: una forma vuota, priva d'ogni fascino perverso e non più in grado di avvelenare chi l’avesse avvicinata.
Presto il mare se la sarebbe presa e di Nina non si sarebbe mai più sentito parlare, lei non avrebbe gettato ancora i suoi maligni incantesimi, nessun uomo sarebbe ancora stato schiavo della sua bellezza.
Nina, la più bella e la più pericolosa tra le donne che Kostantin avesse mai conosciuto.
L'aveva amata con tutto se stesso, e San Pietroburgo era rimasta per mesi senza Konstantin Afanasevič Samaraev, come se non ci fosse mai vissuto. Si era dileguato, scomparso.
Era pronto a sfidare le convenzioni per sposarla e imporla alla famiglia, contro le ipocrite leggi non scritte che lo avrebbero reso un reietto di quella società chiusa e bigotta. A Ivan Nikiforovič, cugino e soprattutto grande amico, che da San Pietroburgo era venuto a cercarlo alla tenuta, aveva confidato ogni cosa.
"Una popolana di una sperduta cittadina di pescatori? Forse addirittura una mezza prostituta? Ma andiamo, Konstantin! Divertiti, passaci tutte le notti che vuoi, ma sposarla, portarla a San Pietroburgo... non sarai impazzito? Tuo padre ti toglierebbe l’eredità e ogni altro aiuto, e tu come vivresti? Non sei tagliato per lavorare, questo lo sai bene.",
Le parole di Ivan non sortirono altro effetto che la dolorosa consapevolezza di avere contro anche il suo amico più caro.
Konstantin lo invitò bruscamente a tornare a San Pietroburgo, che riferisse pure a suo padre ciò che gli pareva giusto. Salutandolo, gli diede un freddo addio.
Pochi giorni dopo quel commiato, accadde ciò che mai Konstantin si sarebbe atteso.
C'è sempre qualche anima perfida, qualche Iago,  capace delle più orribili azioni per il puro piacere di offendere,  di annientare, di fare del male, per poi godere segretamente delle sofferenze causate. La maniera più facile è  sussurrare un certo tipo di notizie, non importa se vere o create allo scopo.
A Konstantin pervenne un biglietto anonimo.
“Credevi di essere il solo? La tua Nina s’incontra col suo amante questa notte, nella vecchia capanna di Arkadj”.
Incredulo ma deciso a scoprire la verità, Konstantin si appostò sul sentiero, in vista della capanna.
Dovette attendere ben poco: appena accennata l’incerta oscurità, che il buio compiacente mai calava del tutto in quella stagione, arrivò Nina, pochi minuti dopo il suo amante la raggiunse.
Lo riconobbe, era Andrej, un giovane pescatore dal grande fascino, che si diceva avesse sedotto quasi ogni ragazza del paese.
Konstantin iniziò in quel momento a concepire la sua vendetta, con una freddezza e una lucidità che non sapeva di possedere.
Nulla doveva trapelare dal suo comportamento e infatti, in attesa dell’incontro con Nina, fissato da lì a pochi giorni, si era recato come al solito alla taverna di Jakov. Fu quella la sera in cui il vecchio turbò Konstantin leggendogli l’anima mentre narrava una storia.
Parlava di gabbiani maligni.

Due giorni dopo, come convenuto, Nina lo raggiunse nel loro posto segreto, una baracca al riparo dai marosi, dove per mesi si erano incontrati e si erano amati quasi ferocemente.
Ancora ferocemente l'aveva amata per l’ultima volta, prendendo da lei tutto il piacere che gli veniva offerto e poi, mentre Nina ansimava con gli occhi chiusi e i sensi rivolti a un unico scopo, Konstantin le disse che avrebbe fatto un nuovo gioco. L’aveva bendata, poi, appoggiata la punta del pugnale sul seno, aveva spinto con crudele lentezza.
La lama gli fece percepire il battito del cuore della sua amante, sempre più convulso. Nina fece in tempo a capire che stava morendo e a soffrire per pochi, atroci momenti; poi la sua anima di peccatrice andò ad alimentare le fiamme dell'inferno per l'eternità; almeno questo era il pensiero di Konstantin al compiersi della sua vendetta. 
Restava Andrej, l‘altro amante, colui che aveva spezzato i suoi sogni e reso vana la sua ribellione alle convenzioni. Era in mare, ma al ritorno sarebbe toccato anche a lui: la strada solitaria, l'agguato, una coltellata alla gola.
No, certo non per sua mano, Konstantin Afanasevič Samaraev non si sarebbe sporcato le mani col sangue di un misero pescatore: la promessa di poche monete d’oro era bastata a comprare i servigi di un tagliagole. Era pronto, e attendeva solo l’occasione per guadagnarsi il compenso pattuito.

Questi erano i pensieri di Konstantin mentre si lavava tra gli scogli, in una pozza d’acqua gelida, per strappare via il sangue, l’odore di Nina e il male che lei gli aveva fatto.
Quando gli parve di essersi liberato di tutto, si rivestì e si diresse verso la capanna dove, le briglie legate ai rami di un cespuglio, lo aspettava il suo bel roano.
Il villaggio era vicino e Nina di solito vi faceva ritorno a piedi, lungo il sentiero che a tratti costeggiava il mare. In paese avrebbero pensato a una disgrazia: un piede in fallo, la caduta fatale tra gli scogli. Ma non l’avrebbero ritrovata, questo era certo, pensò Konstantin mentre saliva in sella e si dirigeva verso la tenuta, oltre il promontorio. Perché Nina a quell’ora se la sarebbe già presa il mare. Ne sentiva il rumore, si stava ingrossando sotto la spinta di un freddo vento da nord-ovest, e il fragore dei marosi l’avrebbe accompagnato lungo il percorso, che per un lungo tratto passava sopra la grigia scogliera di granito.

I gabbiani sapevano dove le onde avrebbero sospinto le prede e strinsero i cerchi eleganti dei loro volteggi sempre di più, verso la scogliera. Uno di essi, planando sopra le creste spumose, fu attratto da una forma bianca che pareva sul punto di essere trascinata al largo, ma ancora si aggrappava alla terra, un braccio imprigionato tra le rocce.
Cibo, il corpo di un animale pronto per essere divorato.
Con un grido di trionfo il gabbiano si tuffò verso quella forma, si posò su di lei, i suoi occhi si fissarono su altri occhi che, spalancati, parevano guardarlo come se fossero vivi. Era pronto a cibarsene.
Ma l’animale fu percorso da un tremito, poi qualcosa di nuovo e diverso si accese nel suo sguardo. Rimase ancora qualche momento su quel corpo sballottato e martoriato, ma non lo violò: la fame si era estinta, un nuovo prepotente impulso lo spingeva ad agire.
Con un grido, allargò le ali e si lasciò trasportare in alto, dal vento che risaliva il promontorio.
Al di sotto, un’ondata più violenta delle altre ebbe finalmente la meglio sulla presa degli scogli e il corpo di Nina iniziò a seguire i capricci delle forti correnti e delle raffiche di vento.
Konstantin era arrivato sul punto più alto del sentiero. Quasi cinquanta metri sotto di lui, il mare ingaggiava la sua millenaria lotta contro il granito della scogliera; il tempo era dalla sua parte e la vittoria sarebbe arrivata, non importava quanto ci sarebbe voluto.
Il gabbiano arrivò all’improvviso, un lampo bianco scaraventato dal vento; si abbatté sul muso del cavallo e rimbalzò a sfiorare il viso del cavaliere. Un’impennata, un balzo istintivo dell’animale e Konstantin non ebbe nemmeno il tempo di reagire.
L’uomo e la sua cavalcatura si trovarono oltre il ciglio del sentiero, con le pietre che franavano sotto gli zoccoli del cavallo atterrito.
Konstantin, ancora assurdamente stretto con le ginocchia alla sella, vide il mare avvicinarsi sempre più rapidamente e il bianco di un corpo nudo che, le braccia aperte e gli occhi fissi su di lui, sembrava volesse accoglierlo.
In alto, il gabbiano roteava, stridendo trionfante.
In un attimo, la mente sconvolta di Konstantin fece riaffiorare le parole dette dal vecchio Nostromo quella sera, mentre lo guardava attraverso il bicchiere, quelle parole che, se ascoltate, avrebbero potuto salvargli la vita: "Il gabbiano che fisserà gli occhi di una persona morta nel peccato, sarà posseduto dal suo spirito e tormenterà gli uomini sino a portarli giù, nell'inferno, con lui."

La taverna di Jakov non dormiva mai. Al suo interno alcuni ubriachi russavano sulle panche, nel puzzo di vodka e vomito: Jakov sarebbe presto passato con un secchio d’acqua di mare a svegliare gli ebbri e ripulire alla meglio la stanza.
Il vecchio Nostromo era seduto da solo, apparentemente non aveva dormito, aspettando il mattino immerso nei suoi pensieri e traendo energie dalla bottiglia di vodka che giaceva vuota, rovesciata sul tavolo.
Come se avesse udito qualcosa, si fece attento, poi si alzò e, con passo assolutamente fermo si diresse alla porta. Uscì e s’incamminò verso la sua casa, la Jaala ancorata in porto.
Un gabbiano era posato sul molo, come in attesa. Il vecchio lo raggiunse e il gabbiano si alzò in volo, puntando verso il largo.
L’uomo lo seguì con lo sguardo sino a quando l’uccello emise un grido, sparendo verso il sole.
In quella direzione, il vecchio Nostromo scorse due corpi che affioravano addossati l’uno all’altro.
Si diresse verso un barcone dove alcuni uomini stavano lavorando, avrebbe dato l’allarme.
Sul suo viso antico un mezzo sorriso, come un taglio nella pelle incartapecorita, gli conferiva un’espressione sinistra.
Parlava solo a se stesso: «Se mi avesse ascoltato, ora non avrei un’altra storia da raccontare.»

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