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Topics - Rubio

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Umoristico / Osservabili
« il: Luglio 22, 2012, 08:40:01 »
Osservabili

L’immaginario coniugato di un qualunque
autoket è un autobra riconducibile allo
 stesso autovalore e viceversa.
                                           Paul M. C. Dirac


   E il vostro immaginario a cosa è coniugato? Qual è il vostro autoket di riferimento? e a quale autovalore si riferisce? Certo, capisco che di questi tempi di grandi rivolgimenti, con una crisi economica che annulla ogni residua sicurezza, di autovalori ne sono rimasti pochini. Se poi li cercate in banca, sul conto corrente o allo sportello mutui, il rischio di una cocente delusione è molto alto. Ma anche autovalori un po’ meno materiali, di quelli che fino a pochi anni fa venivano sparsi a piene mani qui e là, dalla parrocchia alla festa dell’Unità, è diventato piuttosto difficile ritrovarne. Poi parlare di auto-valori è già un segno dei tempi: qui nessuno ti dà niente per niente e anche i valori te li devi dare da solo, perché se aspetti vengano da qualche parte «campa cavallo!».
    Io ci starei pure a auto-darmeli, in fondo non è un giorno che bado a me stesso, ma la mia paura, sempre più viva, è che siano solo miei, auto-referenziali insomma, che trovare qualcuno con cui condividerli, non dico per una vita intera, ma anche solo per una piacevole serata, sarebbe impresa ardua. Di valori così auto, allora, che te ne fai? Non sono spendibili, è manifesto; non che io voglia passare per veniale, per uno che voglia il proprio tornaconto, men che meno immediato, ma un minimo di condivisione mi sento di pretenderla: che il tuo autovalore sia anche il mio (e anche D. accennava a un viceversa)!
     Vengo da un passato in cui quel che è mio è tuo (anche se ho sofferto un po’ per il viceversa; su questo D. era più ottimista, forse non aveva frequentato quelli che ho frequentato io) e per me la condivisione è fatto naturale. Ritrovarmi in un tempo di autovalori è un po’ spiazzante, ma tant’è.
    Non  son più un pischello, e la ricerca di un autoket, per il mio autobra (non ho capito bene, però, quale sia maschile e quale femminile) è in cima alle mie priorità. Ognuno cerca la propria metà della mela che, dicono, da qualche parte, sembra esserci. Ed è giocoforza che sia bene essere riconducibile allo stesso autovalore (che, però, in questo caso non rimarrebbe più solo auto). Ma una volta l’avessi trovato, corredato di tutti gli autovalori del caso (che ciascuno ci ha i suoi, ma tutti quanti li cercano dalla terza misura in su, non si sa perché, per poi accontentarsi di quel che capita) cosa scateni l’immaginario ad esso coniugato non saprei, qui su due piedi, dirlo con precisione. Una certa idea, di massima, ce l’ho, come tutti. E, devo dire, che l’immaginario mi scatta anche ben prima aver trovato il giusto autoket; anzi, a dir la verità, è onnipresente, e mi guida nella ricerca.
    L’augurio che voglio qui di fare, e in questo mi sento un po’ critico con D., è che ciascuno trovi il proprio autoket/autobra (per non essere maschilista) e non si accontenti di uno qualunque.


    Senta professorè, io sto tema l’ho fatto (e mi sembra pure benino) ma, a dirla tutta, cosa volesse dire esattamente D. non è che l’abbia proprio capito. Poi, forse, il mio disappunto ha piuttosto un’altra origine: a lei, lei lei, lei professorè, che le è saltato in mente di darci ‘sta traccia, io non lo so. A volte dovremmo noi mettervi i voti a voi, professorè, e costringervi ad un esame di coscienza; a volte non vi regolate proprio. Non era una traccia? non era un tema? era scienza moderna? era il titolo di una conferenza, di quel tale dell’Università che viene lunedì in aula magna, a cui il prof. di fisica le ha chiesto di accompagnarci? e quali erano le tracce per oggi? “La poetica manzoniana tra trecce morbide e affannosi petti”? Questa sì che è una traccia, professorè, anche se un po’ osè, eh professorè, il Preside cosa dice?, a me quegli affannosi petti danno un solletico … . È proprio quella la questione? come il poeta risveglia, con un semplice aggettivo, affannoso, un immaginario. Quanto e con cosa, poi, sia coniugato, sta a noi valutarlo?

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Altro / Le idee non si pagano
« il: Luglio 09, 2012, 13:10:55 »
Le idee non si pagano

«Le idee non si pagano, che siamo matti? pensi che io, col lavoro che faccio, debba dare il pizzo all’architetto che m’ha messo sulla strada giusta? ha avuto ragione, chi lo nega, ma i soldi li ho messi io, io ho rischiato e ho vinto». «Ma senza di lui i soldi rimanevano in banca, o un’altra strada avrebbero preso, questo è innegabile, e non si sarebbero moltiplicati». «Ma se ci mettiamo a pagare le idee dove finiamo? che vogliamo metterci il copirait su ogni stronzata ci esce dalla bocca?», «su ogni, no. Ma su quelle bone …».
Quella discussione con l’amico e socio di una vita l’aveva innervosito, non riusciva a raccapezzarcisi: da una parte si sentiva dal giusto, da un’altra non trascurava la sua contraddizione. Non aveva fatto anch’egli affari intuendo una crepa nel sistema, che la giusta zeppa poteva allargare a sufficienza per passarvi comodamente in mezzo? ma l’idea era stata sua, suo l’istinto e, soprattutto, suoi i soldi che avevano allargato la crepa bastevolmente. Tutto tornava, ma in quell’altra faccenna la cosa era più complicata: dove mettere la zeppa del suo potere finanziario gliel’aveva indicato un altro. Certo, quello, non aveva rischiato niente di suo, e il suo contributo era tutto nell’aver alzato un dito e indicato il punto preciso, nient’altro. Quanto vale quel gesto? qualcosa in mezzo tra il niente e il tutto. Ma comunque, in ogni caso, sarebbe stata elargizione riconoscente, magnanimità: nessun diritto, nulla a pretendere, nessun copirait, insomma.
Non amava i pensatori, gli “uomini d’ingegno”, come se noi fossimo stupidi, quelli che si fanno vanto di aver studiato, capaci di mettere du parole in fila in grado di abbindolarti. Li guardava dall’alto in basso, conscio di quanto poco potessero da soli, anzi nulla potessero, e albergassero ai piedi della so mensa, a raccogliere le briciole. Utili manovali all’abbisogna, da accogliere a giornata, meglio a prestazione, che raccoglievano quelle briciole di carta moneta tutti sorridenti, prima di andarsene scodinzolando, increduli di come, con poco sforzo, fossero riusciti a mettere insieme un pranzo e due cene. Lui aveva studiato ben più di loro, in mezzo alle strade sterrate, nei cantieri, per una vita. Rubando con gli occhi, fin da bambino, dai più grandi, dal suo mentore e dai suoi collaboratori. La laurea sel’era presa su quelle palanche, traversate su due bidoni, altro che. E nessuno poteva fargli abbassare lo sguardo, perché era pari, se non superiore, a qualunque “dottore”, con la sua laurea all’università della vita.
Se pagava quell’architetto quanto avrebbe dovuto dare a suo nipote che l’aveva aiutato, dopo che la segretaria era già andata via, a spedire la mail con la risposta a quel preventivo? Qual è il valore di quei due clik? E un sorriso? una parola gentile? quanto valgono? son cose preziose, ma senza valore. Lui paga il lavoro ben fatto, non le idee, non siamo a Holliwood.
Il libro remunera l’autore, ma il libro è un oggetto, è solido, occupa spazio, è logico abbia un valore. Così un disco. Uguale un film, al cinema o in DVD. Ai concerti, e a tutto ciò che oggi chiamano eventi, non andava: perché pagare per qualcuno che si agita su un palco? che mi rimane poi? chi lo chiamava effimero non aveva tutti i torti. Non si paga per l’effimero, come per le idee, ecco come la pensava. Non si paga per il software, si scarica, così la musica e i film. È giusto siano gratis, per tutti. Alla faccia di tutti quegli spot sulla pirateria che è furto; ne subiamo tanti noi di furti che stiamo solo riprendendoci quanto ci hanno tolto.
L’economia è quello che produce beni materiali, beni durevoli: soldi in cambio di beni. Per questo non aveva mai capito la finanza, la borsa, le azioni. Le banche sì, le capiva, anche i soldi hanno un prezzo. Prendi soldi in prestito, paghi la tua mercé, si capisce. Ma le azioni che salgono, che scendono secondo l’umore, le speculazioni di ignoti magnati della finanza non le capiva e se ne era tenuto, sempre, doverosamente, alla larga.
Ma in fondo al cuore cominciava a sentire che questa logica stringente, su cui aveva basato la propria vita, aveva qualche incrinatura. Ed era proprio la storia di quell’architetto ad aver assunto ruolo emblematico. Quanto valeva quel dito alzato ad indicare?

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Sentimentale / Il convegno
« il: Maggio 30, 2012, 19:22:22 »
Il convegno

   Era arrivata prima lei. In quell’alberghetto in riva al mare dove si erano dati convegno l’aspettava senza fretta. Era questo l’accordo: non aspettarsi niente di più di quanto non potessero darsi e non avere fretta.  Poi, forse, c’era un’altra clausola implicita: non recriminare; è stupido e inutile. Se aveva fatto tardi ci sarebbe stato sicuramente un motivo, il treno era in ritardo, o l’aveva perso. Che fosse scappato con una bionda era da escludersi; chi se lo piglia! A vederlo così dimesso non lo considereresti neanche, andava scoperto piano piano cosa avesse in quei pochi etti di materia grigia. Era quello il suo fascino, i suoi modi, la sua esperienza, quell’atavica consuetudine a cercare i perché delle cose anche quando non faceva piacere scoprirli. Troppo per una qualunque bionda!
  <<Ma che importanza ha fare congetture!>> – tra poco lo avrebbe saputo e, quasi certamente, non gliene sarebbe fregato nulla: una futilità fatta per lasciare il posto a ben altro. Ogni incontro era meticolosamente preparato, da giorni, settimane, talvolta mesi, ma da ciascuno dei due separatamente. Ciascuno immagina, sogna, dà sfogo alle proprie fantasie per rendersi pronto all’improvvisazione. Chi contrappone razionalità e istinto non si è mai guardato dentro: l’istintivo prepara lungamente la sua impulsività. Come l’atleta si allena una vita così che in quel salto metta tutto se stesso.
  Il difficile era lasciarsi andare: quei corpi non più giovani potevano tradirli e l’abitudine al controllo, che è del lavoro e delle convenzioni sociali, doveva lasciare il posto alla fantasia. Ma di lui si poteva fidare; non l’aveva mai delusa. Anche quando aveva detto no, che non le andava, che era nervosa, arrabbiata col mondo – o delusa, depressa – non aveva battuto ciglio; aveva giocato un altro gioco: l’aveva portata a cena fuori; avevano passeggiato sul lungo mare e, sul finire, aveva anche accettato di intrecciare la propria mano con le sua, come due adolescenti  al primo appuntamento. E poi avevano dormito abbracciati e si era sentita rassicurata, libera anche di negarsi senza rinunciare all’amore. Ma non l’aveva più fatto, solo quella volta, voleva solo metterlo alla prova, voleva vedere se era possibile.
  Niente telefonini, ovvero niente ansia: dove stai? sto entrando in stazione proprio adesso, se trovo un taxi sto lì in dieci minuti. Non serve a niente, comunicazione inutile - corredata, inoltre, da trilli fastidiosi e vociare scomposto - a cui loro evitavano accuratamente di lasciarsi andare. La soluzione era tutta nella premessa: non premeva forse, anche a lui, quanto a lei quell’incontro? E allora avrebbe fatto tutto il possibile per arrivare al più presto.
  Una volta le aveva spiegato – indulgendo una volta di più alla deformazione professionale – che era in quello l’essenza dell’einsteiniana teoria della relatività. Cos’altro significava verificare le conseguenze del incontrovertibile fatto che la velocità della luce è finita? Nient’altro che ogni messaggio necessita di un tempo finito per giungere al destinatario, di un tempo reale. Se volesse saperlo in arrivo dovrebbe alzarsi, prendere il telefono, formare il numero, attendere la risposta (che già conosce). Un tempo nevrotico, un po’ più breve di quello dell’attesa, che mal si coniuga con l’andamento lento di amanti maturi.
  L’attesa è parte del gioco amoroso, lo nutre. E’ l’inevitabile complemento alla minore elasticità dei gesti, non sempre correttamente correlati alle intenzioni. La fretta è dei giovani che ancora non sanno e le cui urgenze sembra non possano aspettare. E’ la teoria della relatività! E’ legge del nostro universo.
  Ma quanto ci avevano messo a costruirsi quell’universo? Una vita. Matrimoni e figli sulle spalle di ciascuno dei due e qualche storia fallita, tentativo di ritrovarsi e vedersi ancora vivi. Il tutto li aveva portatati entrambi ma separatamente – singolare coincidenza - alla consapevolezza che non poteva funzionare se non guardando meglio dentro sé e, soprattutto, all’altro da sé. “Cosa desidero?” ovvero “cosa desidera da me?”. Ormai sanno tutti che l’amore è il piacere di dare piacere! Solo gli stolti sono sì masochisti da pensare solo a sé stessi e negarsi il piacere dell’altro! Ma non solo a letto!, avevano capito, e si erano giurati che la prossima storia sarebbe stata diversa, una storia matura. Un incontro tra un uomo e una donna non tra due eterni, canuti, adolescenti.
  E’ veramente ingiusto che ci si arrivi così tardi perdendosi il meglio. Ma prima di aver fallito, anche se te lo spiegano, difficilmente lo capisci. E averlo capito è solo il primo passo. Bisognava trovare l’altro e, altro paradosso, non si trova né se lo si cerca né se si smette di cercarlo. La condizione ideale è la vigile attesa: continuare la propria vita come se nulla fosse, il lavoro, gli amici, le vacanze e guardarsi intorno. Cercare nello sguardo dell’altro se qualcosa è passato, se da diverse esperienze si sia giunti a simili conclusioni.
  Tra loro era stato per caso, ma erano entrambi lungamente pronti; uno scompartimento ferroviario e un libro distrattamente lasciato sul sedile che lui ritrova tra le mani di lei, che si scusa imbarazzata - non voleva, non sa cosa le sia preso, è stata proprio impulsiva e maleducata -  no, ma che male c’è, lo tenga pure; anzi lo accetti come regalo. Non potrebbe mai, le sembrerebbe di tradire l’educazione ricevuta (per un attimo rivede la madre), un regalo da uno sconosciuto non potrebbe mai accettarlo. E allora accetti per lo meno di conoscerlo almeno un po’ questo sconosciuto. “Dove va?” Da sua sorella al centro città. “Mi permetta di accompagnarla, ho la macchina qua fuori ed è di strada.” “Posso rivederla, c’è una mostra a dieci chilometri. Passo domattina alle dieci? Il libro lo tenga, ormai ci conosciamo”. L’aveva aspettato l’indomani con un altro libro, debitamente impacchettato, tra le mani. Reciprocità, era quello che aveva imparato dal femminismo. E poi dare piacere se si aveva ricevuto piacere, come aveva capito da sé.
  Si era lasciata corteggiare ma aveva già deciso da subito. Era quello giusto, valeva la pena di provare. Senza farsi illusioni, lo sapeva, prendendo quello che veniva. Non sapeva niente di lui - era sposato? – e non le importava di saperlo. Cosa sarebbe cambiato? Lei era libera, e pronta. Lui se era libero tanto meglio, se no … si sarebbe liberato, almeno quando stava con lei! Presunzione femminile! Per fortuna era libero e non aveva dovuto metterlo, e mettersi, alla prova.
  Era andata bene. Una fortuna quell’incontro. Solo fortuna? Sicuramente no! Ma anche, perchè negarlo. Gli esseri viventi, tutti, anche quelli più semplici, sfuggono al determinismo, e fanno i conti con il caso. Fato per gli antichi, destino per i moderni, sono modelli deterministici del caso, nomi inventati per non volerci fare i conti: si inventa un deus ex machina che sovrintende ai destini del mondo. 
  Si potevano non incontrare e tutto sarebbe stato diverso, ma se fossero stati diversi, non fossero stati loro, si potevano incontrare e non deviare minimamente dalla strada intrapresa.

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Umoristico / Paratattico
« il: Maggio 27, 2012, 22:18:23 »
Paratattico

   Ho questione seria, che mi opprime e mi blocca la scrittura. C'è chi dice che sono paratattico. Oddio è grave? si guarisce? o per sempre sarò allontanato dai veri amanti della Letteratura? Lo sapevo di essere un abusivo, di essere entrato nel salotto buono con gli scarponi sporchi di fango, che non è il posto mio. Sono paratattico, ecco la questione e si attacca a ciò che scrivo come un virus. Dovrei scrivere in camera sterile e, anche lì, probabilmente, riuscirei ad infettare ciò che esce dalla mia penna.
   Non vorrei si sapesse, mi spiacerebbe essere additato, di sottecchi, per le vie del borgo. Io qui ci devo vivere tutti i giorni e la stigma di paratattico vorrei evitarla.
   Non ho ben capito se sia malattia ereditaria o si acquisisce, nel qual caso dove e come. Dovrei rileggere gli scritti di mio padre, ma ho paura di trovare lì, da una lontana infanzia, i miei prodromi. 
   Son sicuro che la paratassi sia stata, se non altro, agevolata dai miei studi scientifici. Non si passa indenni per quelle forche caudine. Il Nostro diceva di noi che “ci nutrivamo di pseudoconcetti”, i concetti, quelli loro, albergavano in altre facoltà. Per fortuna eravamo pochi, un’infima minoranza e l’infezione rimaneva circoscritta. Inoltre i più tra noi sapevano bene di esser di altra razza e mai avrebbero varcato i portoni dei templi dell’Arte, se non in punta dei piedi e sicuri di essere stati invitati. Ad ogni buon conto sapevano bene fosse prudente fermarsi nelle ultime file, spettatori abusivi. Qualcuno, invece, non aveva sufficiente cognizione del sé e pensava, ingenuamente, che questo nostro novecento avesse portato, insieme alla democrazia, anche l’uguaglianza. La presunzione li aveva portati, sparuto gruppo, a sentirsi pari e ad organizzare convegni di filosofia, persino. Furono messi a posto in un lampo. Il mio maestro Enriques fu pubblicamente bacchettato per tanto oltraggio, barcollò ma non si piegò (ed era troppo educato per piegarsi alla Bertoldo, dovettero passare quasi cinquat’anni perché lo facessero prima i Corvi e poi gli Indiani metropolitani). Ma il monito fu chiaro a tutti: ciascuno al suo posto, i paratattici con i loro, similes cum similibus.
    Inoltre la malattia è malattia recente, novecentesca. Ed io, ma non i miei feroci critici, sono uomo del novecento. Di quelli che non credono alla Verità, che scorgono la complessità del reale nelle sue mille sfaccettature e se ne beano, perché lì c’è la ricchezza: la figura ambigua, quella che può essere letta in diverse maniere, financo antitetiche, è il nostro emblema. Capite bene che non sia un dogma che, rifiuto di verità rilevate e paratassi, vadano a braccetto; ciò non toglie che, talvolta, la nefasta commistione si palesi e che, quando questo avvenga, la miscela possa essere ancor più esplosiva dell’incontro tra composti dell’azoto e glicerina (per gli immuni da paratassi segnaliamo che Nitrum è il nome latino di Azoto e questo, se non spiega la similitudine, la rende intellegibile ai più).
Comunque sintomi gravi li ricordo fin dalla gioventù: della letteratura odiavo (per rischi di complessità e tedio) le lunghe descrizioni, l’indugiare nei particolari, il voler dir tutto e palesare ciò che sarebbe stato meglio celare, lasciandolo all’immaginazione. Scoprii il mio 25 Aprile (metafora che dovrebbero capire tutti nei due opposti schieramenti) nell’Impressionismo di cui divenni fanatico (qualche paratattico estremista direbbe fan, ma io non vado così oltre). Cos’è l’Impressionismo in Letteratura? forse qualcuno gli negherebbe cittadinanza, addirittura potrebbe, poggiandosi su certa tradizione, considerarlo un ossimoro. Io però amo i centauri (sineddoche di ardua decodifica) e me ne nutro (il senso metaforico, dovrebbe esser ben chiaro, altrimenti morirei di fame). Eppure quelle rapide pennellate che adombrano una ricchezza che non appare sono la mia cifra. Vado al sodo, lo so, mentre ad altri piace indugiare e crogiolarsi e ricamane nella lingua fino a rimanervici impigliati per sempre. È li il loro rifugio nella bella forma che trasla la bella morte di antico retaggio. Io, di converso, amo la vita e includendo in questa il lettore che ha spirito proprio e propria intelligenza (nel senso etimologico) e ce la fa da solo, senza la nostra guida, a ritrovar la strada; noi dobbiamo solo accennargli il sentiero, meglio un tratturo che si rinnova in ogni stagione. Probabilmente sono irrimediabilmente paratattico e la condanna è certa: sarò fuori dei giochi, lontano dai riflettori, emarginato per il mio handicap. Dovrei smettere? farmi da parte? lasciare a chi è del mestiere? Ma non si riduce al silenzio una voce, mai, e non c’è bisogno di Voltaire per ricordarcelo. E poi mai con un epiteto!

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Umoristico / Statistica quantistica
« il: Maggio 21, 2012, 19:03:48 »
Statistica quantistica

   In natura ci sono due tipi di particelle, e di persone: i bosoni e i fermioni. Immaginate di giungere in una grande spiaggia di buon mattino e, da fermione inveterato, amante della solitudine per potenziare le capacità di riflessione e concentrazione, piantate l’ombrellone un po’ discosto; anzi un bel po’ discosto due o trecento metri dall’accesso, cominciando già ad assaporare una giornata di lettura al fresco della brezza marina.
   Il tempo passa e, piano piano, vi trovate circondato da una pipinara, con nonne, zie e pargoli al seguito, che, in una spiaggia per lo più deserta, hanno facilmente annullato il distacco e si sono portati a ridosso del fermione riottoso. Questi sono bosoni: incapaci di stare soli, devono congregarsi in un’amalgama informe per ritrovare se stessi.
   Inutile fuggire, spostarsi produce l’unico risultato di differire nel tempo la nascita di una nuova colonia. Perché i bosoni sono tanti e determinati e, soprattutto, non capiscono la diversa altrui natura. Sono in preda ad una specie di istinto primordiale che li porta ad inglobare il solitario. In cuor loro sono convinti che stanno compiendo un’opera buona, lo stanno salvando dalla solitudine che, dal loro punto di vista, è identificata col male assoluto.
   Ormai vi dovrebbero essere ben chiari i comportamenti abituali tipicamente bosonici; in particolare il terrore per il silenzio che deve essere, in ogni caso, limitato ai pochi istanti tra un urlo e l’altro, o tra la fine di un brano tecno-house-punk-hard-heavy e l’inizio del successivo. L’idea che qualcuno possa non gradire è assolutamente estranea all’ideologia bosonica che, per questo, rientra a buon diritto nel grande raggruppamento dei diversi integralismi.
   Tolleranza, libero pensiero, rispetto delle minoranze emergono dalla capacità di affrancarsi dal comportamento bosonico e sono fortemente correlate ad istanze fermioniche. Ma qual è la lunghezza della vita media di un fermione in natura? Esperimenti ripetutamente approntati nel corso della storia moderna e contemporanea hanno dimostrato che fatalmente i principi liberali, fermionici, trovano naturale sviluppo in istanze collettive come associazioni, partiti, sindacati che, per difendere la propria esistenza, si strutturano bosonicamente.
   E la storia si ripete. Quanti fermioni si sono poi distaccati alla ricerca di principi autentici per finire a riprodurre l’ennesimo raggruppamento bosonico?
   Sembra senza scampo la ricerca di autonomia che trova ostacolo naturale nel carattere sociale dell’animale uomo. Raggruppamento fermionico è un ossimoro, una contraddizione in termini: un po’ come libertà vigilata o silenzio assenso. Ma anche il fermione non sfugge a ricercare l’altro e, per questo, rinuncia poco a poco alla sua natura, tollerando moderate contaminazioni bosoniche per accedere alla socialità.
   Non esistono, perciò, fermioni liberi in natura se non per tempi brevi e con costi astronomici: ci si può sempre ritirare in un eremo, ma per quanto?
   Chi risponde che gli basterebbero un paio di giorni mente sapendo di mentire, perché mai si staccherebbe da cellulare e computer (oggi la televisione ha meno appeal tra i fermioni), magari con collegamento internet: prolungamenti artificiali, ponti verso i simili che non si lasciamo mai veramente e che, almeno virtualmente, vogliamo vicini.
   I fermioni non fanno proseliti perché incoerenti, non credibili, in eterna contraddizione. E’ natura scomoda, precaria, fatalmente esposta alla critica. Un mondo di liberi fermioni, in mutua relazione a partire dalle proprie legittime esigenze, è Utopia ancor più del bosonico Comunismo. Antitrust e simili sono poco più che palliativi, ridicoli tentativi di limitare una bosonizzazione pervasiva, come le segreterie telefoniche che tengono a distanza, controllata, gli intrusi.
   Noi fragili fermioni, catullianamente, non possiamo vivere né con, ma neanche senza gli odiati bosoni. Dobbiamo conviverci. Ma come possiamo riuscirci senza dargli ragione?

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Sentimentale / Sentire i gesti
« il: Maggio 21, 2012, 18:41:57 »
Sentire i gesti

Cosa devo pensare? Mi ha salutato frettolosamente all’uscita delle lezioni, oberata da pacchi e pacchetti, con quel sorriso che incanta; l’ho vista che si allontanava con quella gonna svolazzante e mi ha lanciato un «ti chiamo dopo». Io il dopo l’ho aspettato, ma non è arrivato, né quel giorno, né poi. In cuor mio lo sapevo, troppa fretta. A volte dicono più i gesti che le parole e che ci fosse incoerenza tra questi era palese a qualsiasi osservatore neutrale, quale io non so essere. Ho visto più le parole che sentito i gesti, perché così mi conveniva, così placavo la mia ansia, così potevo ancora sperare.
   Non vuole saperne più niente di me e non sa come dirmelo, allora finge naturalezza col sapore di una fuga, per guadagnar tempo, per togliersi dall’imbarazzo, per rimandare l’inevitabile. Non vorrebbe ferirmi ma, così, mi ferisce ancor di più. E poi, questo essere trattato da bambino che va preservato dai traumi mi offende; sono grande a sufficienza per accettare la realtà: mi ha amato e non mi ama più. E so mettere l’accento sulla prima sentenza e lasciar scivolare la seconda. mi ha amato, capisci, mi ha amato. Io, per un po’, sono stato l’eletto. Per un po’, certo, ma è così con lei, non potevo sperare di averla tutta per me e per sempre: la casetta col prato all’inglese, i bambini di fronte al focolare ad ascoltare le storie che gli raccontiamo. Non è il tipo; forse lo diventerà, ma ora no. È quella meraviglia che è, quello spirito libero ed io non ho né la stoffa, né la voglia di ingabbiarla in angusti stereotipi.
   Sono felice di quello che ho avuto, è finita e mi preparo al dopo. Intanto quei due esami da dare, poi il matrimonio di mia sorella - di cui non mene frega niente, ma sono comunque intenzionato a fare fino in fondo il mio ruolo - e, infine, quella mostra con Elisa da inaugurare a breve. Ce n’è abbastanza per non pensare, per mettersi in gioco a dare il meglio di sé. Guarderò al passato come la guardavo andar via, con la gonna svolazzante e il sorriso suo; così è dentro di me e, se non sono sciocco, così la conserverò per sempre. Lei andrà altrove, lei cercherà ancora se stessa, le auguro ogni bene. Io devo pensare a me.

   Vorrei piangere, disperarmi, cerco di reagire ma non riesco, fingo una falsa indifferenza ma, devo ammetterlo, non mi è ancora passata. Non mi rassegno anche se ce la metto tutta. È brutto essere messi da parte, scoprire di non contare più niente. M’avesse parlato, poi, avrei potuto capire, replicare; invece così.
   Pensavo di farcela, invece no. Credevo di essere più forte, di andare avanti e, invece, le gambe mi si piegano e, in un attimo, sono in ginocchio. Non voglio farmi vedere così, ho una dignità. No, non ce l’ho, l’ho perduta. Sono nulla, sono schiavo.
   Apro gli occhi, mi guardo intorno, sono ancora vivo; un’altra giornata di tormento. Finirà mai? Per quanto ancora mi trascinerò così, come uno zombi? Avrei voluto non risvegliarmi mai più. La presenza di lei è costante, più è distante e più è presente. Mi metto a studiare? magari, a farcela. Mia madre non chiede niente, ha paura; sa che lunedì dovrei fare l’esame e mi ha visto studiare poco e niente. Si distrae col matrimonio, prima di farmi una sfuriata. Ma non sa cosa ho dentro, non sa che non ce la faccio.
Io ci provo, vediamo un po’. Io, comunque, sono stato bravo, non l’ho richiamata, ho aspettato quello che non c’era da aspettare. Non aveva detto così? l’ho presa in parola. Non credo le sia piaciuto, lo scommetto. Un po’ spiazzata lo sarà anche lei. Ora ripeto il terzo capitolo.

Sei tu? non mi avevi detto che avresti chiamato? se potevo chiamare io? certo, ma pensavo non ti importasse più. Tu hai creduto lo stesso? è una settimana che ti disperi? e io? sembro uno zombi. Ma perché fai così? Avevi detto che chiamavi.
Mamma? Esco. Sì esco, devo uscire. Quando studio? dopo. Sì mi ricordo di passare da Ernesto, ho capito, ciao.
Amore, mi hai fatto disperare. Anche io? cavolo, anche io. È che penso di non meritarti, che tu sia troppo per me, pensavo ti fossi stufata di stare con questo rottame che non è riuscito a tenersi in piedi per conservare una dignità. Siamo due stupidi, degni figli di questo tempo. Ognuno a presumere, ognuno sulle sue, incapaci di dirci anche una sola parola. Dì una parola, amore, e sarai salvato.

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Giochi letterari / Il gioco dei telegrammi
« il: Maggio 10, 2012, 23:56:08 »
Telegramma, retaggio del passato. Facciamolo vivere ancora. Io inizio, vediamo chi risponde.

Solingo sto cercasi corrispondente stop vita migliore piudduno stop impaziente attendo stop Rubio

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Introspettivo / La camera
« il: Aprile 29, 2012, 12:22:29 »
La camera

     Girovagavo senza meta in quella città sconosciuta. Al crepuscolo che disegnava di tinte pastello ogni angolo, ogni scorcio, ogni dettaglio. Tra poco sarebbe arrivata la sera, e poi la notte, e l’istinto mi avrebbe guidato verso un rifugio sicuro: quella notte la mia camera d’albergo, anonima, vuota. Era spesso per me così, il mio lavoro mi conduceva ogni settimana in un posto diverso, belle cittadine, perlopiù medievali, dell’ovest francese, fino al confine con la Spagna, in cui è piacevole perdersi.
    Già m’immaginavo la scena che avevo visto mille volte e più e che sicuramente si sarebbe ripetuta uguale anche quella notte: i miei passi solitari, le luci gialle al sodio (che i sindaci di queste parti, o i loro architetti urbani, pensano ricreino l’atmosfera perduta) e, piano, uno alla volta, i piccoli camion lavastrade che invadono, come una divisione corrazzata, tutto lo spazio lasciando, dietro di sé, scie bagnate sull’acciottolato. Il messaggio è chiaro, che ci fai lì? perché non sei a casa? la notte è per noi, che vincendo i ritmi naturali lavoriamo a che voi domani possiate godere della nostra città, non per te, parte della parte attiva che vive di giorno e riposa di notte e non ci ostacola; che non impedisce l’efficacia del nostro sacrificio.
    Fuori posto e, soprattutto, l’unico ad esserlo. Nessuno in giro con cui condividere la trasgressione, una città di morti o, perlomeno, di dormienti, tutti rintanati nei loro loculi, a rinfrancarsi per le fatiche prossime. Nessuno. Non uno che torna dal turno, non una coppia che si è attardata a far l’amore, non una combriccola di scalmanati intenzionati a marinare la scuola l’indomani. Come è possibile che sempre resto solo poco dopo l’imbrunire? È la provincia che è riuscita, così, naturalmente, ad ottenere l’ordine che a comunità più complesse è precluso? Ogni volta non mi capacito anche, forse, perché la città io la vedo a quest’ora, poi, di giorno sono fuori, nelle campagne, con altri scenari, altri ritmi, altri odori.
   Qui nuoto contro corrente e, a rammentarmelo, è solo la mia solitudine e la coscienza di non essere in un villaggio abbandonato: le insegne dei negozi diffondono i loro messaggi accattivanti, così come i manifesti pubblicitari ordinatamente incollati nelle apposite bacheche e la targa del dentista che ricorda l’orario, dalle 9 alle 16 dei giorni feriali, per appuntamento, lasciano presagire che altri esseri popolino quei luoghi, che tra loro intessino relazioni, commerci, financo affetti.
    Ma si ricava da indizi, da presunzioni, non ne ho prove provate, non l’ho visto con i miei occhi, l’ho solo immaginato, l’ho dedotto. Un po’ poco. La sensazione di un inganno ordito a mio danno riposa in un angolo della mia mente e lavora, come un tarlo, a minare le mie certezze. Potrei, cioè, trovarmi su un set, ed ogni dettaglio essere lì posto da un regista, uno scenografo apposta per dare l’illusione.
    Ma poi faccio due calcoli e mi ritrovo razionale a convincermi che sarebbe assai improbabile che centinaia di persone avessero speso tante energie per illudermi: la gente ha altro da fare, pensa a sé, persegue i suoi fini e da me non ricaverebbe alcunché.
    È ben triste, allora, che questa non sia un’illusione, è la realtà, che sono solo in una città deserta, che con le sue strade vuote mi allontana e mi spinge verso la mia camera, anch’essa solitaria, ma chiusa ad ogni sguardo.
    Il portiere di notte accenna a un «buona notte» mentre mi porge la chiave con l’urgenza di ritrovare il suo riposo. Salgo quei gradini stancamente, insoddisfatto di ritrovarmi al sicuro, ma solo con me stesso.
    È troppo tardi per telefonare a qualcuno anche se avrei bisogno di una voce amica per lenire le mie ansie. Poi, in questi alberghetti del centro non c’è neanche la rete a darti l’illusione di essere cittadino del mondo. C’è la TV, magra consolazione. Passo da un canale all’altro con tedio e non mi risveglia neanche quel siparietto osè, anzi mi annoia come e più dell’altro.
    Avrei fatto meglio a camminare ancora? a non farmi ricacciare qui? non ho saputo resistere a sufficienza, non ho saputo bearmi di quanto di incomparabile c’è lì fuori, ho visto solo quello che manca, non ho goduto di quanto ci fosse. Ancora una volta il problema è in me, non ringrazio abbastanza per quanto ho e passo l’esistenza a misurare quanto mi manca.

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15 minuti per creare / L'acquisto
« il: Aprile 24, 2012, 17:29:12 »
  Vi capita mai di subire un'indecisione invalidante, star lì a soppesare se davvero vorrei o non vorrei, per ore o per giorni e, poi, esser presi da una frenesia, uscire in fretta, precipitarsi e, infine, stringere tra le mani quel pacchetto: con quel cappello, quel libro, quel disco tanto desiderato e tanto resistito?
  Ci sono cose su cui praticare la rinuncia non si può; le cose connesse con l'essere. Non si può cancellarsi, anche se agevolmente potremmo incolpare i tempi, gli eventi, l'altrui natura e toglierci dal ruolo di soggetto. Siamo ad un passo per varcare il confine della disumanità in nome di ineluttabili necessità. Ancora, strenuamente, resisto ma non so fino a quando ne avrò la forza. Gioco di anticipo e taglio su tutto il necessario - posso mangiare di meno, vestirmi come l'altr'anno, trascinarmi una chioma indecente - ma il superfluo no. Se mi togliete il superfluo di me che rimane?
  Ci si può vendere l'anima solo per rimanere se stessi.

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Pensieri, riflessioni, saggi / Poche parole
« il: Aprile 20, 2012, 15:56:59 »
         Poche parole. Molte volte, finito di rileggere ciò che ho scritto, anche a distanza i mesi, mi scopro un groppo in gola e le lacrime che mi rigano il volto. Che sintomo è? che l'altro da me che scrive ha colpito nel segno e mi ha fatto commuovere? che sono autoreferenziale e parlo solo a me? che sono fragile come non mai? che sono efficace nel mostrarmi e lì mi riconosco? che mi riapproprio di me? e gli altri? pianse per la sua Bovary? e l'altro per la sua Karenina? Se crei creature vive puoi innamorartene? puoi provare pietà per quel te che ti si palesa dalla carta, dove tu l'hai messo e solo lì scoperto? Forse è solo autocoscienza. Non si piange sul lettino dell'analista? e perchè? è pudore della nudità, ma anche consapevolezza che solo così, nudo, sei vero; senza quegli stracci che fan da velo alla certezza. Fragile che solo a persone speciali puoi mostrarti, a chi non abusa, raccoglie e restituisce intatto e accresciuto.
Si scrive per sè, ma ora che mi beo a leggere ciò che altri similmente scrivono, penso che non solo; vuoi che torni qualcosa di quelle carni nude, rese imperfette dalla natura e dal tempo, un accenno, un respiro, un soffio, che ti indichi, incontrovertibilmente, che non è un soliloquio, che non stai scivolando nella pazzia, che qualcun'altro possa gioirne. Che il successo altrui nulla ti toglie e se l'altro è riuscito a rendersi chiaro forse puoi nutrirtene ancora e trovare la forza per far meglio e in questo rispecchiarti.
Scrive Nihil, ed ha tragicamente ragione, “Io non faccio leggere nulla. I miei parenti non stanno nemmeno ad ascoltare, mio marito dice che sono temini, i miei figli ridono( giustamente) o dicono che è roba disfattista. Credo che il detto nemo profeta in patria sia sempre valido, anche perchè è difficile scindere la conoscenza personale dell'autore, dall'autore stesso. Nei nostri scritti credo compaia qualcosa di noi che a prima vista non è rilevabile, ciò forse destabilizza il lettore amico, che non sa cosa dire, in un senso o in un altro. Qui ci si commenta perchè abbiamo gli stessi interessi, di scrittura, di lettura e molte altre cose, inoltre sappiamo cosa c'è dietro a ogni scritto: un pensiero, uno sforzo di comunicazione, un regalo di condivisione. I parenti, penso, credano ad un atto di esibizionismo nei loro confronti, che vivono come se fossero messi su un gradino inferiore. Forse sono così solo i miei parenti ?! mia cognata arrivò a dire di far leggere i miei racconti a suo figlio, così mi poteva dare un parere! insomma, come se avessi fatto i compiti a scuola.
Trovai la cosa il massimo dell'arroganza. Faccio leggere solo a voi e che i miei scritti piacciano o no...siamo sempre amici come prima”.
Riscontro esattamente lo stesso. Mettiamo in imbarazzo chi ci conosce, tranne pochi. I pochi che si sono risolti o, almeno, si sono avviati a farlo, che non hanno invidie. Questo è il punto “lìberati dall’invidia e così sia”. È un sentimento spregevole, il meno umano, anzi negatore della natura umana, che ti allontana dall’altro che dovrebbe essere il tuo fine. Sono feroce con l’invidia, non che non ne sia, anche se raramente, vittima, ma la tengo a bada.
Forse mettiamo similmente in imbarazzo anche noi stessi ma non possiamo invidiarci senza scivolare in un vortice autoreferenziale e da lì la commozione: incapacità di gestirlo quel vortice e riconoscenza per avercene, nel contempo, liberato.
Dovrebbero provare tutti a liberarsi, a mettersi a nudo, dovremmo consigliarlo. Non siamo speciali, siamo solo quelli che ci hanno provato e ne hanno tratto giovamento. Gridiamo che stiamo bene, che siamo felici, ciascuno per sé e per noi come comunità di simili. Facciamo proseliti, liberiamone un altro e poi un altro ancora fino a non aver più tempo per leggerli tutti e sceglieremo a caso nel mucchio, sapendo che non a tutti potremo rispondere. Ma altri lo faranno in nostra vece e, esattamente, come avremmo fatto noi, forse meglio, e nessun rimpianto mai ci adombrerà.
   Sono solo a commuovermi? sono l’unico efficacemente autoreferenziale?  l’unico fragile? o qualcun altro mi fa compagnia? E chi sembra più forte, che “sta come torre ferma che non crolla giammai la cima”, lo è veramente? O siamo noi, resi flessibili combattendo a nostro modo la nostra intima fragilità, a resistere meglio alle intemperie della vita?

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Pensieri, riflessioni, saggi / Futuro II
« il: Aprile 16, 2012, 15:38:32 »
Futuro II

   Chi sei tu? Cosa ci fai nel mio letto? Io? Sono il tuo futuro. Il mio futuro? finalmente, ti aspettavo. Mi aspettavi? Sono sorpreso. Perché? tutti andiamo incontro al nostro futuro, è normale, no? Sì è normale, ma in genere non mi capita una tale accoglienza. Suscito più diffidenza e sconcerto. Io sono curiosa, invece. Bene, dimmi cosa mi serbi? Con una come te mi viene da dire: serviti.
   Quante cose belle! Tutta quest’elettronica, automatismi, aerei telecomandati; gente che si sposta a frotte, tutti collegati, anzi connessi, che si parlano in quest’esperanto della modernità, il global english. Popoli e lingue diverse che si comprendono, è l’antibabele; e la democrazia ha più consenso della teocrazia; chi l’avrebbe detto! E poi i giovani protagonisti: finalmente al centro del mondo e i vecchi bacucchi superstiziosi che gli corrono dietro, ma ormai hanno preso un bel vantaggio! Ma dov’è il centro? In Europa non più, In America neppure. In Cina, in India non ancora, forse mai. Non abbiamo più un centro, è la prima volta!
   Seguiamo il percorso della Storia: prima Babilonia, poi l’Egitto, poi le polis sparse nel Mediterraneo, poi Roma; e la ferita di Alessandria e la cultura affidata agli amanuensi, poi i Comuni italiani, i grandi Stati Nazionali sempre in guerra, poi il testimone passa da Parigi a Londra e infine a Berlino. Ci voleva Hitler per allontanare il centro dall’Europa e portarlo oltreoceano (contribuendo così alla sua sconfitta). Ma ormai non è più neanche là, è ovunque: ovunque è centro e periferia. Il centro è per chiunque ha qualcosa da dire, alla faccia di tutti i soloni che decretarono, troppo presto, la fine della Storia!
   Certo a vederlo così dall’alto i vecchi bacucchi siamo noi, e noi italiani ancor di più: vedi il nonno ottantenne che fa fatica a lasciare al figlio sessantenne l’edicola di una vita? Vedi una tabaccheria, un ristorante, una lavanderia in mano ad un giovane? non ce n’è, non mollano, non mollano. Non sono i politici che non mollano, non molla nessuno, tutti aggrappati a difendere il passato. Ma quanto possono reggere? saranno spazzati via, è questione di tempo. La maledizione sarà che la loro caduta trascinerà tutto, sarà uno tsunami improvviso e imprevisto ai più, che lascerà solo macerie e poche teste per ricostruire e, temo, di molti colori diversi, con poco bianco.
   C’è molto da fare e gli eredi dei lumi e dei dubbi non possono stare ai margini, non abbiamo tempo di trasferire ai nuovi quello che generazioni dopo generazioni hanno capito. Si rischia di lasciare solo un velo di marmellata su una fetta biscottata. Non c’è tempo, tutto è così veloce. E’ la pedagogia la vera emergenza. Come si trasferisce in fretta e furia la merce del magazzino che rischia di essere raggiunto dall’acqua e dal fango, così dobbiamo insegnare cosa sono stati i Diritti dell’Uomo, e poi della Donna, e del Fanciullo, e dei Diversi, come si tutelano le minoranze, si bilanciano i poteri, si da spazio al merito e si promuove l’intraprendenza. I più non lo sanno, non possono ricominciare, i libri, anche elettronici, non bastano! Servono maestri in ogni borgo, a coniugare, pazienti, i diritti nella lingua della modernità: a seminare dubbi fecondi e lasciare che germoglino; se c’è il giusto seme e l’humus adatto, lo faranno. Bisogna aver fiducia. Ma non c’è un attimo da perdere, ci sono millenni di storia da trasferire in un territorio infinito, in un tempo minimo; e siamo in pochi, in pochi a capirlo, in pochi ad affannarsi. Gli altri continuano a ballare pensando, ignari, che sia per sempre.
   C’è da tremare, un compito improbo. E i peggiori sforzi sono nelle battaglie con chi resiste, con chi si aggrappa al consueto, chi non vuole vedere che panta rei, anche se l’hanno studiato e lo ripetono da una vita. Ma l’hanno capito che sembriamo fermi e rivoluzioniamo a migliaia di chilometri all’ora intorno al Sole? e la nostra galassia, come tutte, si allontana alla velocità di Hubble dal Big Bang? Pensano di riuscire a fermarsi anche solo per pensare? Illusi, verranno travolti.
Noi non possiamo stare qui a compiangerli: un'altra Alessandria no, non possiamo permettercela, non possiamo aspettare altri duemila anni e più per ristare al punto di oggi, col rischio concreto di non trovare neanche la terra sotto ai piedi! Chi sa, si dia da fare nel trasloco: di là ci aspettano, con le braccia aperte e la mente sgombra, giovani cuori. A loro affidiamo l’eredità dei padri, anche se non hanno i tratti di famiglia. Ne sapranno fare tesoro se riusciremo a palesargliene il valore e la fragilità delle cose preziose. Siamo i Grandi Vecchi, rendiamocene conto. Ti ho aspettato una vita, futuro, ora so cosa devo fare.

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Pensieri, riflessioni, saggi / Futuro I
« il: Aprile 16, 2012, 15:37:41 »
Futuro I

   Chi sei tu? Cosa ci fai nel mio letto? Io? Sono il tuo futuro. Il mio futuro? non ti conosco, non ti ho mai visto. Lo so, ma non per questo non esisto.
   E se non lo volessi un futuro? Se mi bastasse il passato? ho avuto un bel passato, sai? Lo so, ma nessuno può permettersi di non avere un futuro. E il mio sei tu? non assomigli in niente al mio passato. E perché dovrei? Dovresti, invece, aver voglia di assaggiarmi; dovresti guardarmi in faccia.
   Non mi interessi, so dove mi piace rivolgere lo sguardo ed io ho imparato, da sempre, ad evitare quelli come te. Da sempre? d’accordo, ma per sempre? Chi può dirlo? Ti hanno insegnato che si cambia?
   E perché dovrei cambiare? mi è andata sempre bene così; mai nulla che non valesse la pena: il meglio, sempre. Sicura? o è così che vuoi ricordarti? Stai attenta al passato  si nasconde, non lo guardi mai veramente in faccia; lo oblii per trovare la forza di vivere.
   Vuoi dire che mistifico? No, voglio dire che dimentichi. Il futuro, invece, non lo puoi dimenticare. Lo prendi tutto: polpa e coccia. Vada per la polpa ma la coccia te la lascio. A me? Magari potessi limitarmi a smaltire materiali così facilmente biodegradabili. In genere mi lasciano, improvvidamente, danni ambientali e scorie nucleari! Sono abituato a conviverci. Ma non sanno, i meschini, che lasciandole a me, le lasciano anche a loro, ai loro figli, ai figli dei loro figli?
   Questo succede perché non mi si vuole guardare in faccia, mi si preferisce lui, il rassicurante passato, facile da edulcorare e, lasciamelo dire, da abbindolare. Siete tutti così,  mi venite incontro ad occhi chiusi, ignari, ingenui. Colgo la sorpresa nei vostri sguardi, l’incredulità venata di nostalgia. Così, però, vi perdete il meglio.
   Il meglio? e tu saresti il meglio? Lo sanno tutti che si stava meglio prima, quando c’erano le lucciole … Sì tra le lucciole, sulla Via Gluck!
   Non volete vedere che porto il meglio e le cocce che coprono la polpa sono il frutto delle vostre vittorie, problemi nuovi che accompagnano la soluzione dei vecchi. Le opportunità del nuovo sono incalcolabili, ma nessuno vi ha preparato a coglierle. Hanno venduto bene una sola merce: la paura. La paura del nuovo, la paura di cambiare. E così partecipo alla festa senza essere invitato; me ne sono fatto una ragione. Ma mi dispiace, vorrei le fanfare, il sorriso limpido della tensione creativa, le forze giovani in prima fila che si fanno seguire dall’esperienza dei più.
   Finisce che qui, in questo vostro paese, sarò sempre prodotto d’importazione, di seconda mano, già usato altrove, fondo di magazzino. Un futuro vestito come un rassicurante passato.
   Eppure li avete avuti i Leonardo, i Bruno, i Galileo, i Marconi, i Fermi; quelli che hanno cambiato il mondo. Ma non li avete mai amati. I più lungimiranti tra voi chiedevano di cambiare tutto perché non cambiasse niente, figuratevi gli altri!
   Se poteste, fareste a meno di me; in subordine fate come se non esistessi. Mi scansate, mi guardate con sospetto, prima di prendere un po’ di confidenza ai voglia! Vi appellate alla vostra bella tradizione, all’arte, alla letteratura, alla scienza. Ricordate i tempi gloriosi dimentichi dei più che non partecipavano al  banchetto e che, con ogni probabilità, sareste stati tra questi: tra coloro che morivano a quarant’anni, o in guerra, o di parto, o non raggiungevano la maggiore età. E se riuscivano a metter su famiglia si struggevano di un lavoro avvilente e faticoso. Certo, le glorie antiche hanno forgiato il vostro presente, e anche me; come negarlo? Ma non basta, devono servire a costruire il nuovo, a far sì che non si ammali dei mali antichi.
   La verità è che ho bisogno di voi, se no non ce la posso fare. Ho bisogno di te. Vorresti conoscermi? darmi almeno una possibilità? Eviterò la retorica, eviterò di dirti che è a te che daresti una possibilità  (so che non mi crederesti, che non mi daresti retta). Cercherò di essere sobrio e non invadente. Ma so, purtroppo, di diventare cattivo, anche mio malgrado: se mi rifiuti, mi trascuri ti arrivo addosso quando meno te lo aspetti e mi prendo tutto; ti lascio spaesata, attonita a contemplare macerie che tu stessa, col tuo rifiuto, avrai contribuito a generare.

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15 minuti per creare / Preludio e fuga
« il: Aprile 15, 2012, 14:54:35 »
Accetto di passare il nostro pomeriggio, quello che riusciamo a ritagliarci ogni quindici giorni, all'Ikea. Non  è il massimo, ma ogni cosa che faccio con lei è speciale, vale perchè sto con lei; anche attaccare un lampadario o fare la spesa al supermercato. Mi manca così tanto condividere le piccole cose quotidiane che riesco a gioire di ogni dettaglio.
Mi faccio trascinare in quel trambusto e iniziamo il giro con un enorme carrello che, ad ogni passo, si riempie sempre più. Piccoli attrezzi per la cucina, tovaglie, cuscini colorati, pile (quelle sì che sono convenienti), insalatiere per uno (odio condire l'insalata nei piatti che non riesci agirarla) e altri oggetti affascinanti quanto inutili. L'ultima volta avevo speso più di cento euro per un carrello così, questa volta, probabilmente, avrei replicato. Comunque, dopo un'ora abbondante di spesa, eravamo esaustici ma felici; avevamo soddisfatto il nostro bisogno di consumatori, avevamo desiderato e scelto, orientandoci sapientemente tra migliaia di offerte che occhieggiavano dagli scaffali: talvolta facendoci sedurre, altre reclinando con un augusto diniego. Eravamo stati bravi, avevamo detto molti no, e qualche sì che aumentava il peso verso l'uscita. Ci basta un occhiata per intenderci, un'altra occhiata per cercare telecamere nascoste, poi, parcheggiato il carrello in un angolo a far bella figura di sè, ci allontaniamo fingendo interesse per un altro acquisto per poi, mano nella mano, correre a pedifiato verso l'uscita, sperando che nessuno mai ci avrebbe chiesto conto e ragione di quell'oltraggio a regole non scritte.

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Altro / La lingua del Paradiso
« il: Aprile 15, 2012, 00:14:34 »
La lingua del Paradiso

(Sul ciglio di una strada affollata due barboni-clown, eccessivamente vestiti, con appresso le povere cose, si trascinano tra la gente. Sullo sfondo negozi e cartelloni pubblicitari)

ALCESTE: Che lingua si parla lì nel Paradiso?
ERIKA: La lingua delle idee. Quella per la quale il bianco è bianco e il nero è nero e il grigio grigio, e mai e poi mai puoi sbagliarti.
A: Non puoi sbagliarti? (incredulo). Allora io non credo di venire ammesso. Io mi sbaglio sempre. Intanto balbetto e poi, ho lenti grandi come fondi di bottiglia; credo di essere sbagliato strutturalmente. Però ci vedo benissimo, vedo dentro. Il tuo animo, non ha segreti per me: so benissimo perché lo fai e non mi stupisco affatto. Anzi, quasi me l’aspetto.
E: Io invece no. Io mi stupisco sempre. Mi faccio un’opinione appena in tempo per smentirla. Tutto è così contingente, che una certezza, al più, dura qualche minuto. Mi dicono ingenua, ma io sono solo senza malizia. Non riesco a immaginarla, per ciò, neanche negli altri. So che gli altri hanno i loro fini e che li perseguono; credo facciano bene. Vado per la mia strada anch’io ed evito di intralciare alcuno. Mai ci riesco, da qui lo stupore. Lo spazio è poco e noi molti. La libertà è un lusso che c’è precluso.
A: In questo siamo simili. In questa nostra attenzione agli altri. Io che non posso non vedere dietro le mie lenti spesse e tu che eserciti attenzione spasmodica, frustrata ad ogni angolo. Sì hai ragione, ci manca lo spazio per la libertà. Siamo condannati su questa strada, da qui non possiamo uscire. Sembra che qui non ci manchi niente, ogni necessità può essere soddisfatta. Ma il prezzo è troppo salato, siamo malati di iperstimolazione. E se facessimo come tutti?
E: Se imparassimo la lingua del Paradiso, dici? Non credo che sia adatta a noi. A me piace la lingua nostra: così arzigogolata che puoi stare ore a sbrogliarla e, alla fine, non sai mai se hai ragione o torto.
A: Non c’è una ragione e un torto. Non l’hai ancora capito? Ciascuno va per la sua strada, niente più. Dobbiamo mettere più attenzione per non urtarci. Hanno diritto tanto quanto noi.
E: E noi? Noi perché non ci urtiamo mai?
A: Perché vuoi discutere di noi? Noi non ci urtiamo perché stiamo attenti. Abbiamo piena coscienza uno dell’altra, si chiama rispetto. Ma non possiamo pretenderlo il rispetto; se mai darlo.
E: E ti sembra giusto? Dare senza pretendere.
A: Non è giusto – là in Paradiso non sarebbe possibile, infatti – ma qui da noi questa è la realtà. D'altronde se non facessimo così, non saremmo noi.
A e E: (in coro) E se non fossimo noi non ci saremmo incontrati.(e ridono)
E: Vuoi dire che eravamo predestinati?
A: Non so rispondere, dovresti chiedere di là, in Paradiso. Quello che posso dirti è che il simile riconosce il simile e con quello litiga.
E: Con quello litiga? (stupefatta)
A: Sì, litigheresti mai con uno che non stimi? Per quello basta la massima: “perdonalo, perché non sa quel che fa”.
E: Impunito quindi, tutti impuniti.
A: Sì, è triste, ma è così. Noi non possiamo punire i nostri pari, non possiamo emettere sentenze, non dovremmo nemmeno giudicare (anche se so che è difficile, se non impossibile). Dobbiamo solo fare il meglio che possiamo.
E: Qualcuno ci premierà, allora?
A: Scordatelo, nessun premio. Segui solo la tua natura perché solo così sei tu. La tua individualità nessuno potrà togliertela; solo tu, a fine giornata, potrai dire: ho fatto bene, non ho niente di cui rimproverarmi, e sarai in pace con te.
E: E potrai sempre dirlo? me lo garantisci?
A: No, non te lo garantisco. Ma ti garantisco che ti accorgi di aver sbagliato: ti prende un dolore grande, qui in mezzo al petto; un sintomo inequivocabile che ti auguro di non provare mai, perché non c’è rimedio. È il giudizio negativo di te su di te. E non puoi fuggire al tuo giudice.
E: Come si guarisce, allora?
A: Il tempo guarisce, almeno dicono; o, forse, non si guarisce. È per questo che non possiamo imparare la lingua del Paradiso: perché abbiamo sbagliato e sbaglieremo ancora, sicuramente e, soprattutto, abbiamo il dono di accorgercene.
Infine, perché non è vero che il bianco è bianco, il nero è nero e il grigio è grigio. Che ci sono i buoni e i cattivi, il giusto o lo sbagliato. Che si può giudicare con equanimità: se giudichi sei sempre di parte, anche se lo fai per mestiere, in nome del popolo sovrano.
Quelli cui piace giudicare non sono adatti a fare i giudici e andrebbero interdetti. È un mestiere che si deve fare con dolore, perché le sentenze sono scritte in questa lingua imperfetta, da esseri imperfetti, su esseri imperfetti.
Qualcuno deve farlo, lo so, ma vorrei ricordarglielo a costoro, che hanno scelto la strada della sofferenza; e i migliori tra loro quel dolore nel petto l’hanno sposato per tutta la vita.
E: (come per sbloccare l’imbarazzo) Come si dice “arrivederci” nella lingua del Paradiso?
A: Non si dice, non avrebbe senso.
E: Allora arrivederci.
A: Già, arrivederci.

                                                          FINE

15
Sento l'esigenza di fare un po' di autocoscienza.
Mi capita di inviare ad amici e conoscenti qualche cosa scritta da me, pechè, magari, era capitata in un discorso. Molto difficilmente mi ritornato, come qui, commenti e riflessioni, magari negative. Capita anche a voi? ci rimanete male?
Un'amica mi ha detto che legge volentieri ma trova difficoltà a rispondere, non credo perchè non sappia cosa dire. Voi come la vedete?
E qui sopra siamo noi strani forte che rispondiamo sempre (e con gentilezza)?
Brunello, mi sembra, pose qui il problema (cito a memoria) "rispondere non costa niente". Io aggiungo è bello scoprire che una cosa ti piace, tocca la tua sensibilità, ti fa sentire meno solo.
Ripeto, siamo strani noi? perchè fuori di qui non sembra naturale.
Anche nel mio lavoro, sono insegnante, dico sempre una parola positiva ad ogni studente, non credo in una pedagogia in negativo (i quattro aiutano a studiare), viceversa credo a quella in positivo; e lo faccio sinceramente, quando ci credo, non per posa.
Se si scrive è giusto desiderare di farsi leggere? E' giusto scrivere solo per sè? per me no.

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