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Post - solidea

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Pensieri, riflessioni, saggi / Chiediti cosa sia la normalità!
« il: Giugno 18, 2011, 15:18:06 »
Chiediti se sia giusto così. Chiediti cosa sia davvero giusto al mondo. Chiediti cosa sia sbagliato. Chiediti se quelle lacrime servano a qualcosa. Chiediti se il loro sapore sia di rabbia, di dolore, di sconfitta amara. Chiediti il perché di quelle lacrime. Chiediti perché non ridi, perché non parli, perché non mangi. Chiediti perché sei ritto anche quando è il mondo che è sbandato. Chiediti perché sei tu a sbandare su una strada, che è tutta un rettilineo. Chiediti come si faccia a cambiare. Chiediti come si faccia a perdonare. Chiediti di chi sia la colpa, chi abbia torto o ragione. Chiediti chi ancora ti voglia bene, chiediti perché. Chiediti perché la gente rida, senza un motivo logico. Chiediti perché pianga, chieditelo ancora. Chiediti perché grida, perché corre, perché cammina scalza sulla riva di un mare che travolge pensieri, che si allontana, poi ritorna, ma non torna mai indietro davvero. Chiediti perché tutto sia così bello e maledetto, perché questa vita piaccia a giorni alterni, chiediti perché il sole splende dove il buio acceca, chiediti perché non si riesca mai a vederlo appieno questo sole. Chiediti cosa vorrai essere, chiediti chi sei, cosa sei stato, chiediti che cosa lascia addosso un passato che ferisce. Chiediti se ci sarà futuro, chiediti perché il domani faccia così paura, chiediti perché il mondo faccia paura. Chiediti cosa sogni, cosa odi, chiediti cosa stai facendo, chiediti perché agisci, e perché altri agiscano senza che tu lo voglia.  Chiediti come si torni a galla, in questo pozzo che non ha fondo. Chiediti come si respiri, chiediti come si faccia  a vederla davvero questa luce che abbaglia e è solo un flebile alone lontano. Chiediti se questa corsa contro il tempo sia normale, chiediti se questa vita sia normale. Chiediti se questo posto, in sé, sia normale. Chiediti se tutto questo sia normale. Chiediti, cosa sia la normalità!!!

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Sentimentale / Scivola, vai via...
« il: Giugno 16, 2011, 15:35:34 »
Ogni volta che tornavo da un viaggio dovevo sempre metterti al corrente di ciò che avevo vissuto. Mi illudevo quasi che le parole dette a voce bassa o nella lontananza di un messaggio potessero trasmetterti la stanchezza che mi trascinavo addosso, e il caldo del treno rimasto sui capelli. Quella beatitudine placida di accasciarmi sulla poltrona delle carrozze dismesse si consumava nelle sillabe di un messaggio qualunque. E magari ti cercavo anche, seduto in quella stazione che vedevamo passando di sfuggita. Ti immaginavo lì, solo, perso nella tua musica con quel mondo in mano e una vita nello zaino sfatto. Poi ti vedevo alzarti di scatto, correre verso quel binario buio e senza umanità e salire su quel treno che ti restituiva la libertà di cui io ti privavo. Ma non ti trovavo mai. Così lasciavo scorrere le mie dita su quei tasti fastidiosi e minuti del vecchio cellulare, vinta un legame morboso e necessario che non riuscivo a disfare. E nella stanchezza che nel viaggio conservavo, ti regalavo qualche pensiero distratto, tra le risate che non parlavano né di te né di quel noi insolito che avevamo sventatamente creato. Poi mi abbandonavo ad un silenzio stanco che mi restituiva forza e fiducia. Appena le mie mani sporche sfioravano le lenzuola gelide del letto, dovevo sentire la tua voce, come un onere incombente, anche solo attraverso la schermata di un telefono, anche solo per renderti partecipe della mia nuova emancipazione. Bastava un messaggio, banali lettere stampate frutto di un bisogno spasmodico e mordace di qualcuno che condividesse le mie emozioni e che mi volesse bene, almeno un po’. Oggi non ho più cercato né le tue parole, né la tua voce, che un tempo si allontanava da me attimo dopo attimo, tra la sabbia di Rimini e le torri bolognesi. Eppure posso averti incrociato in quella stazione dove non mi sarei mai aspettata di trovarti. Renderti conto adesso di ciò che oggi abbia fatto, o visto, o detto sarebbe alquanto inutile. Renderti conto adesso di quanto io non riesca ancora a fare a meno di qual legame simbiotico, appiccicoso e folle che mi ero costruita addosso a te, sarebbe gesto insano ed indesiderato. Oggi strappo il biglietto del treno e scendo dal vagone con una consapevolezza nuova: quella di chi cambia con il vento e si costringe a fare a meno di chi abbia sempre fatto a meno di lei.

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Sentimentale / Tienimi per mano
« il: Maggio 03, 2011, 22:02:49 »
La prima volta che ti ho visto eri così piccolo. E mi guardavi dal basso del tuo inginocchiarti senza pietà, senza forza alcuna di sollevarti ancora. Eri a terra quando non mi ero ancora accorta della tua ombra distesa, eri a terra allora, e quella vana forza di salire almeno un po’ sei riuscito a trovarla da solo. Hai allungato una mano per afferrare un destino che credevi perfetto e utile, io, illusa, ho afferrato uno scoglio che si è rivelato spigoloso e futile, eppure ero troppo ingenua per sapere. E ho stretto la tua mano. In quelle cinque dita che diventavano dieci giorno dopo giorno ritrovavo il calore che dagli altri non ho mai avuto la possibilità di avere. Ritrovavo me stessa e le mie paure, ritrovavo te, pur non conoscendo altro della tua vita chiusa in un mistero. E mi sono fidata. Ho stretto quella presa sicura e avvolgente e ho lasciato che un calore autentico e nuovo mi percorresse il braccio, fino a penetrare i meandri bui di una mente lasciata troppo allo sbando. Ho gettato al mondo tutta la forza e la grinta che avevo in corpo perché tu potessi rialzarti e tornare a camminare. Tornare ad avvicinare il sole, riducendo le distanze, tornare ad amare il mondo dominandolo ancora. E giorno dopo giorno ti ho visto alzarti in piedi, accantonare anche solo per un vago istante asti e debolezze e riscoprire l’insano equilibrio delle tue stesse gambe. Senza lasciarti la mano. Aggrappandomi ad essa come ad un approdo sicuro. Lasciando che la mia stretta fosse per te uno stimolo a rinascere ancora. Eppure… Ho lottato, ho atteso che diventassi di nuovo alto e grande per iniziare a camminare, a perdermi in una corsa contro il tempo e contro ogni ipocrisia, ad abbandonarmi ad una stretta di mano ancora più salda che mi aiutasse a volare. E ti ho visto crescere giorno dopo giorno, sempre più forte, sempre più bello, sempre più coraggioso e sicuro di quella vita che stavi per buttare al ciglio di una strada senza fine. E intanto sorridevo, sorridevo sicura della mia utilità, sorridevo perché lo facevano i tuoi occhi, guardando i miei e specchiandosi nel sole. Quella mano, quella sicurezza cercata e ritrovata,  rappresentava per me l’unica ragione di questo cammino passeggero, l’unica motivazione valida a fare di me una persona competa, l’unica a fare di te una persona rinata. E abbiamo iniziato a camminare insieme, sicuri che quel passo spedito ci avrebbe condotti ad assaporare una nuova felicità perduta, una nuovo destino, un nuovo mondo. Insieme. Camminavo tendendoti per mano, stretto, sempre più vicino. E speravo. Speravo di poterti vedere di nuovo padrone di quella vita che stavi per buttare la ciglio di una strada. Speravo che quel tuo recitare e atteggiarti con aria stabile nascondesse in parte un lato di verità.
Poi… Poi ti sei sentito forte, forte, più forte, più forte di quella mano che ancora stringevi, più forte di me che ti vedevo fuggire. E hai iniziato a correre, senza rimorsi, né rancori, correre, senza meta, ma correre. Correre per scappare forse da una società malata, da un mondo ipocrita, dalle fantasie del sabato sera o dalla stanchezza della domenica. O semplicemente, scappare da quella mano scarna e indifesa che era diventata per te una trappola senza via d’uscita, dove l’aria mancava e non respiravi più. Ho sentito la tua presa sempre più flebile, il tuo passo così affannato ti aveva spinto ben oltre l’orizzonte spento del mio sguardo. Ho sperato che tornassi, rallentando il passo per aspettarmi là dove ancora io non credo di essere arrivata, eppure hai continuato imperterrito, lasciando solo un dito puntato al nulla, nella mia mano sottile. Di quella presa un tempo così calda e forte non rimaneva che un’unghia distaccata, la misera estensione di un’unghia che non bastava più a me come non serviva a te già da tempo. E ho provato a chiamarti, a stringere quel dito gelido con tutta la grinta e la persistenza che mi restasse in corpo, eppure tu eri già così lontano e inarrivabile. Riuscivi a sfiorare mani che non vedevo, riuscivi ad intessere storie in cui io non figuravo più; ti eri sollevato finalmente, camminavi da solo. E quella mano sicura che aveva dato tanto perché tu tornassi a sorridere, aveva perso per te ogni significato. Ho sentito un brivido di freddo, paura e forse morte quando le tue dita si sono allontanate da me per sempre, le ho viste sfuggire senza avere tempo di ricordarle un’ultima volta, nel tepore e nel profumo intenso che mi è rimasto tra le mani. E quell’amara consapevolezza di solitudine e apatia, è scivolata lungo tutto il braccio che ti aveva sollevato, accovacciandosi dietro a un pensiero e scivolando giù in una lacrima salata. Mi sono fermata, perché il dolore impedisce di ripartire subito e di tornare a rinascere nell’immediata condizione di perdita e abbandono. Accuso il colpo giorno dopo giorno, cercando quegli sprazzi di sicurezza perduta che di tanto in tanto sembrano tornare. In qualche momento mi sento forte, come prima, più di prima, e provo a sollevarmi, lentamente, senza la pretesa di tornare da subito a correre e a volare, senza aggrapparmi a mani aleatorie che non risolvano il mio male e la mia paura. Tu invece chissà quante mani starai stringendo ora. Ti vedo scivolare nella lontananza che ci divide, e ti scovo lì in preda all’euforia drogata di ricominciare di nuovo tutto e subito. Ti ho visto aggrapparti a lei, abbandonarla e cadere. Farlo di nuovo e scivolare ancora. Farlo altre cento volte, con cento mani diverse, e ogni volta ritrovarti a terra nel silenzio di una lacrima. Non sento più né il calore né l’amarezza di quella nostra stretta. Eppure non posso fare a meno di pensare a quanto volessi bene a quella mano calda che nonostante tutto mi ha aiutata a crescere e a muovere i primi veri passi della vita. Le ho voluto bene, perché mi ha fatto del bene.
Un giorno, forse ancora tanto distante, ci ritroveremo di nuovo vicini, seppure in carreggiate opposte, e le nostre mani si sfioreranno ancora. Non sarà con te che consumerò questo sorpasso ardito, non so quale mano stringerà la mia in quell’attimo di panico e gioia che sarà il mio tornare a camminare ancora. Ma sarà una carica di felicità pura e incolume a farmi andare avanti, non quella mera illusione di certezza che ti ha portato da me, e che ti ha fatto crollare di nuovo, più debole e più sofferente di prima.

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