Visualizza post

Questa sezione ti permette di visualizzare tutti i post inviati da questo utente. N.B: puoi vedere solo i post relativi alle aree dove hai l'accesso.


Topics - Doxa

Pagine: 1 [2] 3 4 ... 35
16
Pensieri, riflessioni, saggi / Agape > Carità
« il: Dicembre 30, 2023, 09:41:00 »
Il sostantivo “carità” evoca il sostantivo  greco “àgape” = amore, di tipo  fraterno, ma allude anche al convito, al banchetto comunitario nei primi secoli dell’era cristiana  per commemorare l’ultima cena di Gesù con gli apostoli e la celebrazione eucaristica.

Il filosofo e apologeta cristiano Tertulliano nell’Apologetico (cap.  39) descrive il banchetto comunitario a lui noto nel III secolo. La modalità era simile a quella degli Ebrei la sera del venerdì: cominciava con la benedizione del pane da chi presiedeva la mensa, poi lo distribuiva ai commensali; seguivano altri cibi e si concludeva con un’altra benedizione e la bevuta del vino.

Invece nel banchetto conviviale cristiano il pane e il vino venivano ugualmente benedetti, ma consacrati  in memoria del corpo e del sangue di Gesù, la sua morte e resurrezione. Questa parte del rituale era detta “eucharistia”, seguita dalla preghiera di lode e di ringraziamento a Dio.   

Il lemma “àgape” è presente 320 volte nel Nuovo Testamento redatto in lingua greca antica nel IV secolo (Vulgata) e tradotto in latino con il sostantivo “caritas”, utilizzato dai filosofi neoplatonici cristiani come  amore spirituale, superamento dell’eros.

Eros e àgape: i due modi complementari di intendere l'amore:

eros, come desiderio di possesso, di inglobare l'altro nell'io;

àgape, come dono disinteressato, andando oltre sé stessi.

Dal latino càritas deriva il sostantivo “carità”, e di questa ci sono anche attinenti immagini.

segue

17
Pensieri, riflessioni, saggi / Pietās
« il: Dicembre 29, 2023, 10:13:57 »
Dalla parola latina pietās deriva nella lingua italiana il sostantivo pietà.

In epoca romana la “pietàs” alludeva alla devozione religiosa, al patriottismo, al rispetto verso la famiglia. 

Nell’Eneide di Virgilio l’episodio che inquadra la pietas romana è la fuga di Enea da Troia in fiamme. L’eroe troiano mette al sicuro le statuette dei Penati e rischia la vita per salvare il vecchio genitore Anchise, il piccolo figlio Ascanio e la moglie Creusa.

Enea era detto “il pio” (dal latino pius) non perché fosse buono e misericordioso, ma perché  era rispettoso, obbediva al volere  degli dei, come l’abbandono della regina Didone di Cartagine… Per lui la pietàs consisteva nel rispetto dei valori tradizionali quali la religione, la patria e la famiglia.

Marco Tullio Cicerone nelle “Partitiones oratoriae” (Divisione delle parti dell'eloquenza) scrisse: “In communione autem quae posita pars est, iustitia dicitur, eaque erga deos religio, erga parentes pietas, vulgo autem bonitas, creditis in rebus fides, in moderatione animadvertendi lenitas, amicitia in benevolentia nominatur”. =  Come virtù sociale, la temperanza è chiamata giustizia: la giustizia verso gli dei è la religione; verso i genitori, la pietà; la bontà, nel comune modo di dire; la buona fede, negli impegni; la dolcezza, nella moderazione a punire; l'amicizia, nei rapporti di benevolenza. (Cicerone, Rhetorica, De partitione oratoria, 78).

Per quanto riguarda la religione, gli antichi Romani  non amavano  le loro divinità (obbligo precipuo nel monoteismo abramitico), non pensavano ad adorare un dio  che domina con premi e punizioni, né s’illudevano che gli dei potessero amarli. Credevano nel “do ut des”:  dedicarono templi, sacrifici e doni alle divinità per ricevere in cambio la loro protezione o l’esaudimento delle loro richieste, come in effetti ancora fanno molti cosiddetti cristiani.

Nel periodo imperiale il sostantivo “pietàs  cominciò ad essere usato con riferimento alla clemenza dell’imperatore; poi,  in ambito cristiano, alla misericordia di Dio.

Dante Alighieri nel Canto XXXIII  del Paradiso fa dire a San Bernardo nella preghiera alla Vergine:

"Vergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura,
termine fisso d'etterno consiglio,

tu se' colei che l'umana natura
nobilitasti sì, che 'l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.

Nel ventre tuo si raccese l'amore,
per lo cui caldo ne l'etterna pace
così è germinato questo fiore.

Qui se' a noi meridïana face
di caritate, e giuso, intra ' mortali,
se' di speranza fontana vivace.

Donna, se' tanto grande e tanto vali, che qual vuol grazia e a te non ricorre,

sua disïanza vuol volar sanz' ali.

La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fïate
liberamente al dimandar precorre.

In te misericordia, in te pietate, in te magnificenza,
in te s'aduna
quantunque in creatura è di bontate.

[…]

Papa Francesco: “Tante volte nei Vangeli è riportato il grido spontaneo che persone malate, indemoniate, povere o afflitte rivolgevano a Gesù: ‘Abbi pietà’ . A tutti Gesù rispondeva con lo sguardo della misericordia e il conforto della sua presenza”.

Nel nostro tempo usiamo il lemma “pietà” per alludere alla compassione o alla misericordia cristiana. Abbiamo dimenticato il significato originario di pietàs come  devozione verso Dio, la patria e la famiglia.
 
Se con cattiveria o ironia diciamo che una persona “fa pietà”,  intendiamo disprezzo.

Eschilo, nell’Orestea, fa dire ad Agamennone: “E’ nella natura dell’uomo calpestare con più violenza chi è caduto”.   :blabla:

18
Pensieri, riflessioni, saggi / simbologia cristiana: il pellicano
« il: Dicembre 28, 2023, 18:07:42 »
Il “Physiologus” è un testo redatto ad Alessandria d’Egitto tra il II e il IV sec. d. C. da un autore ignoto.  Contiene  brevi capitoli con la descrizione anche simbolica di animali (veri e  immaginari), piante e alcuni tipi di pietre. Sono  allegoricamente presentati anche tramite citazioni bibliche e rimandano a significati metafisici inerenti la “corte celeste” o il comportamento umano.

Una delle leggende contenute nel testo citato  racconta la storia di  un pellicano, uccello acquatico con il becco allungato con grande sacco gulare  che viene utilizzato per catturare la preda e drenare l'acqua prima di ingerirla.
Si nutre soprattutto di pesci, ma anche di crostacei e vermi. 

La femmina depone 2-4 uova, che cova per circa 33-36 giorni. I piccoli vengono allevati da entrambi i genitori.

Per dar da mangiare alla progenie  il pellicano ritrae il becco verso il petto per favorire l’apertura del sacco gulare e far uscire il cibo da dare ai figli.

Nell’arte religiosa viene raffigurato eretto sopra il suo nido, con le ali spalancate e nell’atto di nutrire i suoi piccoli.
 
Spesso le sue piume sono rossastre a causa del sangue delle sue prede e questo ha fatto si che si diffondesse la credenza che pur di non far morire di fame i suoi figli si lacerasse il corpo.

Nel Medioevo quel colore  rosso sulle piume del petto del pellicano  fu interpretato dai cristiani come simbolo del sangue versato da Gesù sulla croce. 

Tommaso d’Aquino nel suo inno eucaristico  scritto nel 1264  titolato “Adoro te devote”, fra l’altro scrisse:  “Pie pellicáne, Jesu Dómine, / me immúndum munda tuo sánguine, / cujus una stilla salvum fácere, / totum mundum quit ab ómni scélere” (=  O pio pellicano Signore Gesù, / purifica me, peccatore, col tuo sangue, /  che, con una sola goccia, può rendere salvo / tutto il mondo da ogni peccato).

Dante Alighieri utilizzò la simbologia di questo animale in riferimento all'ultima cena in cui l’apostolo Giovanni reclinò il capo sul petto del Signore: “Questi è colui che giacque sopra ‘l petto / del nostro pellicano, e questi fue / di su la croce al grande officio eletto” (Paradiso, XXV, 112-114).
(= «Costui è quello (l’apostolo Giovanni) che mise la testa sul petto di Cristo, e fu scelto dalla croce all'alto compito (di sostituire Gesù come figlio di Maria).
Ecco quindi che Il pellicano diventa il simbolo dell’abnegazione con cui si amano i figli.


Pellicani bianchi

A me il pellicano che dà da mangiare ai suoi figli evoca l’immagine della Madonna del latte che nutre il figlio, della quale ho lungamente discettato in un altro topic. 

19
Enogastronomia / Cucina povera romanesca
« il: Dicembre 24, 2023, 13:36:10 »
Roma de na vorta (= Roma nel passato)

La cucina de Ginetta (dal web)




Finta trippa, a la romana.

Trita carota, sèllero e cipolla:

cala ne l' òjo, dentro a 'na padella, smucìna piano co 'na cucchiarella e abbada che ce sfrègoli e nun bolla.

Aggionta mezzo chilo de pelati e incopèrchia pe quìnnici minuti perché er calore impeperito ajuti li pommidori a fasse più assodati, poi facce piove sopra er pecorino, metà der cartoccetto ch' hai comprato e appresso, quanno l' hai scucchiarellato, trìtace sale e pepe...fino fino.

Mo è 'r momento de coce la frittata:mova sbattute, cotte a foco lento co 'n po' de sale, come acconnimento, fino a quanno s' è tutta arosolata.

Riggira piano e coci a quermifò, senza falla abbruscà, dentro ar tigame,
sinnò prenne er colore der catrame… (è inutile che dichi: ce lo so ).

Stajuzza la frittata a listarelle e azzùppale ner sugo conzumato, smulina er pecorino ch' è avanzato... appressappoco...un par de cascatelle, ma perché 'sta pietanza t' ariesca come vo' la ricetta origginale, doppo che l' hai pistata inner mortale, facce rimisticà la menta fresca !

note
1 -...sèllero: sedano.
2 -...cucchiarella: mestolino in legno.
3 -...impeperito: molto vivace.
4 -...scucchiarellato: rimescolato - da cucchiarella.
5 -...a quermifò: francesismo da “comme il faut” come si deve.
6 -...conzumato: raddensato.
7 -...smulina: fai piovere, roteando.
8 -...un par...: un paio di manciatine, come fossero piccole cascate.
9 -...facce rimisticà: fai rimescolare.

20
Arte / Virgo lactans
« il: Dicembre 02, 2023, 18:53:40 »
A Genova, nel Palazzo Ducale,  fino al prossimo 1 aprile c’è la mostra dedicata alla nota pittrice Artemisia Gentileschi (1593 – 1652).

Vi consiglio di leggere la biografia  di questa pittrice. Pure lei fu vittima di violenza da parte maschile.

Lei subì lo stupro, ma ebbe il coraggio di denunciarlo. Quel traumatico episodio  influenzò  la sue scelte nei temi pittorici, per esempio: “Giuditta e Abra con la testa di Oloferne”.

Nell’esposizione pittorica a Genova ci sono anche due suoi quadri che raffigurano la Madonna che allatta il Bambino. E’ una delle tipologie nelle varie posture mariane con il neonato.


Artemisia Gentileschi, Madonna col Bambino, olio su tela, 1610 – 1611, Galleria Spada, Roma

La Madonna è assisa sul suo mantello blu sopra la sedia. Sopra le tasta,  leggermente reclinata , c'è  l’aureola della santità. 
La donna è raffigurata  nel momento in cui la poppata ha avuto termine. E' leggermente assopita. La sua mano sinistra è “abbandonata” vicino al ginocchio della mano sinistra.

Il biondo Gesù Bambino guarda il viso della Madre e con la mano sinistra le carezza il collo, quasi a volerla svegliare.

In questo dipinto la Gentileschi illumina con una luce esterna le due figure nell’oscuro ambiente.

Bello il panneggio della veste color rosa che indossa la donna. Notare i suoi piedi scalzi.


Vi presento l’altro dipinto, attribuito ad Artemisia Gentileschi da alcuni storici dell’arte, ma non da altri.


dipinto ad olio su tela senza il nome dell’autore/trice. L’opera del 1618 circa è a Firenze, a Palazzo Pitti.

Come nel precedente dipinto, la Madre è assisa su una sedia ed è a piedi nudi.

E’ raffigurata nell’atto di allattare il biondo Bambino. Con la mano destra regge la mammella destra, parzialmente coperta dal velo che le scende dal capo aureolato.

Bello il panneggio color ciclamino dell’abito. Il braccio destro è coperto dalla manica della bianca camicia. Il mantello blu  le copre il braccio sinistro, e dalla spalla le scende dietro la schiena fino al fianco destro.
 
Il Bambino guarda il seno materno;  nella mano destra regge un rametto con due ciliegie: una simboleggia l’amore di Cristo, l'altra il suo sangue versato sulla croce. 

21
Pensieri, riflessioni, saggi / Gerusalemme e Atene
« il: Novembre 28, 2023, 09:14:57 »
Il 2 dicembre a Torino, al teatro Carignano, alle ore 10, ci sarà il dialogo su “Che cosa hanno in comune Gerusalemme e Atene ?”, con il cardinale Gianfranco Ravasi  e il latinista Ivano Dionigi.



 
Gerusalemme e Atene: contrapposizione e incontro tra  fede e filosofia, tra legge(Bibbia) e logos.

Il filosofo e apologeta cristiano Tertulliano si domandava: "Cosa hanno in comune Atene e Gerusalemme"?  Le due città, nell’antichità, possono essere  simbolicamente considerate le due radici della cultura occidentale, la greco-romana e l'ebraico-cristiana.

Nel libro collettivo titolato: “Gerusalemme e Atene” il filosofo tedesco naturalizzato statunitense Leo Strauss scrisse che per comprendere la cultura occidentale dobbiamo capire Gerusalemme e Atene. Sono in quelle due località le radici della nostra cultura:  nella prima, la radice religiosa, nella seconda  radice, la filosofico-letteraria. Dal loro incontro è nata la civiltà europea.

L'incontro tra la filosofia greca e la fede ebraica avvenne dopo la conquista della Palestina nel 332 a. C.  da parte delle truppe di  Alessandro Magno. Gli Ebrei nella Giudea vennero a contatto con la cultura ellenistica. Di questo c'è traccia nella Bibbia, ad esempio nel secondo Libro dei Maccabei dove si depreca la diffusione dell'ellenizzazione (2 Mac 4, 13) che si oppone al giudaismo (2 Mac 2, 21).

È significativo che due noti autori ebrei dell'antichità scrissero in greco (Filone di Alessandria  e Giuseppe Flavio).

Tra il III e il II sec. a. C. ad Alessandria d’Egitto  l’Antico Testamento fu tradotto in lingua greca (versione dei LXX) per la comunità ebraica della diaspora residente in quella città ellenizzata. Essi avevano obliterato la loro lingua e non riuscivano più a leggere in ebraico.

Nel I sec. d. C. Antiochia  di Siria aveva circa mezzo milione di abitanti: molti erano Greci, Siriani ed Ebrei. La località (la terza per grandezza nell’impero romano, dopo Roma e Alessandria d’Egitto) era un luogo d’incontro di culture e religioni. I discepoli cristiani di lingua greca avvicinavano pagani e giudei per convertirli.

L’apostolo Paolo, nato a Tarso,  in quella città aveva ricevuto l'educazione tipica di un centro abitato grecizzato. Aveva letto Euripide e Omero ed era stato formato secondo i principi della retorica del tempo, come è evidente  da alcuni suoi scritti. Da essi si desume la sua conoscenza della filosofia stoica. E proprio un trattato filosofico di origine aristotelica molto diffuso a quel tempo, ma oggi perduto, è alla base del discorso  di Paolo  ad un gruppo di filosofi ad Atene riuniti nell'areopago (significa “collina di Ares”, il bellicoso dio Ares), situato tra l’agorà e l’acropoli.

Dal discorso di Paolo:

“Allora Paolo, alzatosi in mezzo all'Areòpago, disse:

“Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli dei. Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un'ara con l'iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è signore del cielo e della terra, non dimora in templi costruiti dalle mani dell'uomo né dalle mani dell'uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa” (At 17, 22 – 25).

22
Pensieri, riflessioni, saggi / Come stai ?
« il: Novembre 27, 2023, 10:08:53 »
Voglio argomentare su alcuni modi di dire. Per esempio: “Come stai ?”, “Come ti va ?” “Novità ?”,  “Tutto bene ?” Ognuno di questi incipit di conversazione evoca il nostro essere (in salute o meno)  in relazione agli altri, fa riferimento al come stai tu fisicamente, mentalmente spiritualmente.

Di solito rispondiamo: “Tutto bene”. Se la risposta è negativa siamo più prudenti nell’esternazione.





A chi ci chiede come stiamo non interessa ascoltare la risposta.  E’ solo un modo per salutare. Allora le risposte possono essere anche ironiche.

Nel caso del biblico Giobbe, al “Come va ?” risponderebbe: “Bisogna avere pazienza”; Dante Alighieri: “Sono al settimo cielo”.

“Voci di corridoio” dicono che nei forum la maggior parte degli utenti  alla fatidica domanda risponde: “non c’è male”; alla banale domanda si risponde con  una banalità.


Tra un uomo e una donna  che non si conoscono il “come va ?” basta per iniziare l’approccio ? E’ necessario anche il linguaggio non verbale ? La gestualità ?

Gli sguardi ed i sorrisi sono i segnali-stimolo che favoriscono l’avvicinamento, permettono di entrare nello spazio altrui, nella bolla psicologica di lei/lui. Quei segnali convincono i due che può iniziare il dialogo per conoscersi e capire se continuare gli incontri.

La disponibilità all’approccio viene quasi sempre comunicata dalla donna in modo discreto attraverso il linguaggio del corpo.

L’uomo tende a non farsi avanti se non riceve  un cenno di incoraggiamento. Però ci sono uomini che prendono l’iniziativa anche in assenza di “invito” o quando questo è appena abbozzato. In quel caso l’uomo potrebbe mirare a cercare prima un’intesa con il linguaggio del corpo, tramite la “tecnica” abitualmente usata dalle donne per far trapelare l’interesse: la sincronizzazione simultanea  della postura del corpo, dei gesti. Di solito è lei che dà inizio, per esempio passandosi una mano tra i capelli, lui risponde con un altro gesto come toccarsi l’avanbraccio, ecc.. L’interazione non verbale diventa come un ballo: i movimenti di lei sono seguiti da precisi passi di lui.

Per le persone timide l’approccio è problematico, causa ansia, insicurezza,  specie negli adolescenti, perché temono di essere incapaci.

L’attesa accresce il desiderio ed amplifica l’aspettativa: la soddisfazione, se arriverà, sarà proporzionale al tempo dell’attendere, e la delusione, parallelamente si alimenterà di quell’indugiare sprecato.

Nell’approccio c’è chi preferisce il classico incontro imprevisto che si può avere frequentando feste, inaugurazioni, mostre e altre occasioni sociali. C’è chi si cautela cercando la mediazione di un conoscente comune, chi, più timidamente si avvale di Facebook, forum, sms.

Comunque nessuna strategia di approccio è efficace  o appropriata a tutti e in qualsiasi contesto.

23
Arte / Botero
« il: Novembre 22, 2023, 18:05:22 »
A Milano dallo scorso 23 novembre al 4 febbraio 2024 nel  Museo della Permanente (“Società per le belle arti ed esposizione permanente”), in via Filippo Turati 34, c’è l’esposizione dedicata al pittore, scultore e disegnatore colombiano Fernando  Botero, morto a Montecarlo lo scorso 15 settembre. Aveva 81 anni.

Disprezzato dai critici (come il britannico Jack Vettriano), all’età di 24 anni Botero dipinse una natura morta con mandolino aumentandone le dimensioni. 

Successivamente cominciò ad enfatizzare corpi umani  ed oggetti, creando il suo stile, divenuto un “marchio di fabbrica”.

Disse che non dipingeva figure umane grasse ma volumi.

La tematica religiosa è spesso presente nel lavoro di Botero.


Passione di Cristo: il bacio di Giuda. In basso a sinistra l'auto-raffigurazione di Botero


Gesù cade per la prima volta

Gesù incontra la madre piangente


la svestizione di Gesù


Crocifissione



Deposizione di Gesù dalla croce



Cristo morto


sepoltura di Gesù

Nel 1969, quaranta anni prima del ciclo presentato in mostra, l’artista colombiano aveva realizzato un trittico da titolo “Via Crucis” dove Cristo è rappresentato con gli occhi chiusi, in posizione eretta, sceso dalla croce e con le mani in posizione benedicente.

In mostra ci sono dipinti realizzati da questo artista negli anni 2010 e 2011.

Ne “Il bacio di Giuda” (realizzato nel 2010) si autoritrae, mentre in “Ecce Homo” dipinge la propria mano nell’atto di indicare Gesù.

Raffigurò la “Via Crucis” , in tre dipinti a olio di grandi dimensioni: “Gesù inchiodato alla croce”, “Crocifissione con soldato” e “Crocifissione”: quest’ultima presenta un inquietante e monumentale Gesù crocifisso al Central Park di New York, dove Boterò visse per più di 12 anni.

Altre opere le dedicò alla “Flagellazione” e alla “Discesa dalla croce”.
 
L’ironia, la sensualità e l’abbondanza delle forme sono state a lungo la sua unica chiave di lettura per le sue composizioni.

Botero scrisse: “Quello che dipingo è realtà inventata, descrivo una realtà irreale in modo realistico”: l’abbondanza tranquilla e suntuosa delle forme.

Per questo artista  “L’arte è una tregua spirituale e immateriale dalle difficoltà della vita”.

24
Pensieri, riflessioni, saggi / Sapienza
« il: Novembre 16, 2023, 16:49:49 »
"Sapienza": questo sostantivo deriva dal latino “sapientia”, in ebraico “Hohmàh”,  in greco “Sophìa”.

“Sapientia”  discende dal verbo “sàpere” che nell’antichità significava “avere sapore”,  saporito = “sapido”,  dal latino sapĭdus, anche questo aggettivo deriva dal verbo latino “sàpere”.

In ambito filosofico e religioso la sapienza allude al dono della saggezza.

Nella “Commedia”, cantica dell’Inferno, terzo canto, Dante e  Virgilio  sono nell’Antinferno, davanti la porta dell’Inferno. Incontrano il demonio Caronte, il traghettatore dei dannati nel fiume Acheronte,  e  gli ignavi. Tra essi è citato, indirettamente, papa Celestino V,  colui / che fece per viltade il gran rifiuto.

Nei versi 4 – 9 il poeta scrisse: “Giustizia mosse il mio fattore: / fecemi la divina potestate, / la somma sapienza e'l primo amore. / Dinanzi a me non fuor cose create se non etterne, e io etterno duro. / Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate".

Parafrasi: La giustizia ha fatto agire il mio alto Creatore (Dio): mi hanno costruito la potestà divina (Padre), la somma sapienza (Figlio) e il primo amore (Spirito Santo).
Prima di me non fu creato nulla, se non eterno, e io durerò eternamente. Lasciate ogne speranza, voi che entrate qui".



segue

25
Pensieri, riflessioni, saggi / A Roma dimo così...
« il: Novembre 04, 2023, 19:52:29 »
Roma, aristocratica e plebea

La celebre invettiva romanesca, “Li mortacci tua” , di solito viene detta con cattiveria quando si guida l’auto ed è  rivolta verso un altro conducente che non rispetta il Codice della strada o per motivi di viabilità.

L’improperio, però, viene anche espresso  con un sorriso per manifestare la propria sorpresa quando s’incontra un conoscente dopo tanto tempo: “Li mortacci tua !, come stai ?

Nel “Liber pontificalis” si può leggere che nell'anno 545 quell’insulto venne usato contro papa Vigilio (pontificò dal 29 marzo 537 alla sua morte, nel 555) da persone a lui contrarie perché  non aveva voluto accettare l’eresia monofisita.

Il monofisismo (dal greco “monos” (= unico) + “physis” (= natura) è  il termine usato dalla teologia cattolica per indicare la forma di cristologia elaborata nel V secolo dall’archimandrita greco Eutiche, secondo la quale la natura umana di Gesù era inclusa in quella divina, perciò in lui era presente solo la natura divina.

Secondo il Liber Pontificalis, il 22 novembre dell’anno 545  mentre il pontefice stava celebrando la Messa in occasione della festa di Santa Cecilia nell’omonima basilica nel rione Trastevere, il legato imperiale  Antimo, impose al pontefice di mettersi immediatamente in viaggio per Costantinopoli su ordine dell’imperatore bizantino Giustiniano.  Il papa fu condotto sull’imbarcazione nel fiume Tevere,  ormeggiata nel porto fluviale di Ripetta.

Le tante persone presenti alla scena, non sapendo il motivo  dell’urgente trasferimento papale, anziché reagire uniti per difenderlo si divisero per opinioni diverse, chi lo compiangeva e chi  lo malediceva, perché in quel periodo Roma era assediata dai Goti di Totila  e tutta la popolazione versava nella miseria.  Molti pensarono che quella di Vigilio fosse una fuga dalla difficile situazione in città.

Chi lo insultava  gli gridava: “Male fecisti Romanis, male invenias ubi vadis!” (= Hai fatto del male ai cittadini di Roma, che  tu possa trovare il male dove ora vai!). E aggiungeva: “Mortalitas tua tecum pro te” (Tutti i tuoi morti con te e per te!). Da questa frase deriva quella più concisa: “mortacci tua".

Papa Vigilio non rivide più Roma, Durante il viaggio di ritorno  da Costantinopoli morì a Siracusa il 7 giugno dell’anno 555.

A complemento dell’ingiuria c’è da aggiungere un’altra frase, ormai in disuso,  in dialetto romanesco o romano: “Mortacci tua, e de tu' nonno in carriola.[/B] . ., con riferimento agli anziani ricoverati  nelle corsie ospedaliere o nelle ali aggiunte durante le epidemie, quando non era possibile curare tutte le persone e non si poteva avere sempre un posto letto. Ma i malati non venivano collocati nelle carriole: erano sedie con ruote, sulle quali venivano adagiati i corpi di vivi o morti..


elemosiniera nella chiesa di Santa Maria Portae Paradisi, in via Ripetta, Roma
 
Gli anziani che non potevano essere assistiti dai loro familiari venivano portati negli “spedali”. Ricevevano cure palliative, un po’ di cibo, ma sostanzialmente erano parcheggiati in attesa di morire.


Da aggiungere che a Roma e in altre zone del Lazio quando tuona durante i temporali i bambini, specie nel passato, chiedono  “Mamma, cos’è questo rumore?”,  e la madre risponde: “Nonno in cariola!” (a Roma si pronuncia con una sola “r”).

26
Pensieri, riflessioni, saggi / 2 Novembre
« il: Novembre 02, 2023, 14:05:23 »
2 novembre: la Chiesa cattolica dedica questa giornata alla commemorazione dei defunti. I credenti pregano per le loro “anime”.  La festività religiosa è basata nella fede della resurrezione dei morti. 
La tradizione vuole la visita al cimitero per deporre fiori, in particolare i crisantemi, che fioriscono in questo periodo dell’anno.

“De mortuis nil nisi bonum dicendum est”: (= "dei morti nulla si dica se non il bene"), come segno di pietas nei confronti del “de cuius”. 

La poetessa Alda Merini nei versi finali di una sua lunga poesia scrisse: “Non scongiurare la morte / di lasciarlo qui sulla terra: / ha già sentito il profumo di Dio, / lascialo andare nei suoi giardini”.
 
Il distacco dalla persona amata è sempre lacerante e non incoraggia la giustificazione consolatrice della caducità della vita.  Le parole iniziali del Salmo 130 (129), che si recita nella liturgia per i defunti e in suffragio dei “trapassati a miglior vita”: “De profundis clamavi ad te, Domine; / Domine, exaudi vocem meam.” (= Dal profondo a te grido, o Signore; / Signore, ascolta la mia voce).Leggendo queste parole sembra che sia il defunto stesso a recitare la frase nel suo passaggio dalla vita terrena alla cosiddetta “vita eterna”.

Ma cosa ci accade quando perdiamo chi abbiamo profondamente amato? Quale vuoto si spalanca?  Lo psicoanalista Massimo Recalcati nel suo libro titolato “La luce delle stelle morte. Saggio su lutto e nostalgia”, evidenzia il rapporto della vita con l’esperienza traumatica della perdita di una persona (ma anche un animale o una cosa) che dava significato alla propria vita.  Di questo libro ho argomentato in un altro topic. 

Recalcati evidenzia che la vita di ognuno è segnata dalle perdite, non solo le morti delle persone care, ma anche da altri eventi: la separazione, l’abbandono, il tradimento, la perdita di ideali che si sono rivelati fallimentari. Ogni esperienza di sconfitta o di perdita, fa vacillare il significato del proprio mondo. 

Quale reazione emotiva ed elaborazione psicologica del lutto ci attende per ritornare a vivere? 

Secondo Recalcati si reagisce al lutto con due diverse modalità nostalgiche. 

La prima modalità è la nostalgia-rimpianto, che cronicizza il lutto, idealizza la perdita, inchioda al ricordo: “può essere un amore, può essere una persona cara scomparsa, può essere anche la nostra stessa giovinezza o la vigoria del nostro corpo che negli anni non è più la stessa”. Sono ricordi indelebili, parole indimenticabili, profumi inconfondibili, tempi di gioia e di dolore, ma anche gesti quotidiani che restano scolpiti nella nostra memoria. Questo tipo di atteggiamento nostalgico induce a pensare al passato ma blocca il divenire. “Il passato diventa una calamita che ci sequestra, che ci trattiene, e allora viene meno l’orizzonte dell’avvenire. La nostra vita è tutta all’indietro”.   Il lutto e la nostalgia sono due esempi di come possiamo restare vicini con il ricordo a ciò che abbiamo perduto senza però farci sopraffare dal dolore, ma devono diventare risorsa per avere la volontà di ricominciare. 

La seconda modalità è la nostalgia-gratitudine: necessita di tempo e dolore per la lenta separazione dall’oggetto perduto, che non è mai completa. Portiamo sempre con noi i nostri innumerevoli morti per quello che ci hanno dato: gli insegnamenti, le parole e i gesti che ci hanno lasciato.

27
Pensieri, riflessioni, saggi / Biblioteca del faraone Ramses II
« il: Ottobre 18, 2023, 17:28:58 »
Il faraone egizio Ramses II (1303 a. C. – 1213 a. C. circa), regnò dal 31 maggio 1279 a. C. al luglio o agosto del 1213 (o 1212) a. C..
 
Il suo regno durò quasi un settantennio. Se si considera la sua associazione al trono quando il padre era ancora in vita, giunse a 75 anni di governo effettivo dell’impero egiziano.

Questo faraone fece costruire numerose opere monumentali, fra le quali  il “Ramesseum”,  il suo  mausoleo.



Tebe, veduta aerea dei resti del Ramesseum, formato da numerose sale di rappresentanza, granai, laboratori, e costruzioni accessorie.

I lavori per la sua costruzione cominciarono all'inizio del suo regno e si conclusero in 20 anni.

La sua tomba fu costruita in collina, ma il tempio commemorativo era ai margini di un'area coltivata, irrigata da un canale collegato con il fiume Nilo.

segue

28
Pensieri, riflessioni, saggi / La lingua o le lingue parlate da Gesù
« il: Ottobre 11, 2023, 16:26:02 »
La lingua greca la conosceva anche Gesù di Nazaret ? Questo quesito può emergere quando nel Vangelo di Giovanni si narra che Jesus aveva incontrato un gruppo di greci nel tempio di Gerusalemme, forse nel cosiddetto “Cortile dei gentili”, dove potevano entrare anche i pagani.

“Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c'erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: ‘Signore, vogliamo vedere Gesù’. Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù.
Gesù rispose loro: ‘È venuta l'ora che il Figlio dell'uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l'anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest'ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest'ora! Padre, glorifica il tuo nome’. Venne allora una voce dal cielo: L'ho glorificato e lo glorificherò ancora!
”(Gv 12, 20 – 28).

Ed ancora, quando Gesù parlò col governatore Ponzio Pilato durante il processo, quale codice linguistico usarono per dialogare ?

“Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: ‘Sei tu il re dei Giudei?’. Gesù rispose: ‘Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?’. Pilato disse: ‘Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?’. Rispose Gesù: ‘Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù’. Allora Pilato gli disse: ‘Dunque tu sei re?’. Rispose Gesù: ‘Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce’. Gli dice Pilato: ‘Che cos'è la verità?’ " (Gv 18, 33 – 38).

segue

29
Pensieri, riflessioni, saggi / Biblioteca di Celso
« il: Ottobre 11, 2023, 11:26:24 »

Resti della facciata della Biblioteca di Celso.

La biblioteca di Celso, ad Efeso, fu realizzata in epoca traianea  in onore di  Tiberio Giulio Celso Polemeano, illustre personaggio,, noto semplicemente come Celso, che visse dal 45 al 120 circa.

Fu un politico forse nato ad Efeso. Divenne senatore ed ebbe anche la carica di proconsole d’Asia dal 105 al 107.

La biblioteca fu costruita per volere e con il denaro di Celso, ma realizzata dal figlio, Gaio Giulio Aquila Polemeano (console nel 110) dopo la morte del padre.

Completata nel 135,  nell’edificio fece fare la cripta per collocare il monumento sepolcrale di Celso.

La biblioteca poteva contenere 12.000 rotoli.

Dopo l'abbandono di Efeso nel VII secolo l'edificio crollò, ma venne restaurato da una fondazione archeologica austriaca nel 1970

segue

30
Pensieri, riflessioni, saggi / Labor
« il: Ottobre 07, 2023, 18:26:27 »

 

"E Dio vide ogni cosa che aveva fatto, ed ecco, era molto buona. E la sera e il mattino erano il sesto giorno" (Genesi 1, 31).
"Così i cieli e la terra erano finiti, e tutto l'esercito di loro. Allora Elohim  nel settimo giorno  terminò il lavoro che aveva compiuto e si riposò nel settimo giorno da ogni suo lavoro. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso  si era riposato da ogni lavoro che  aveva creato e fatto” (Genesi 2, 1 – 3).

Egli “creò” il cielo e la terra, ma subito dopo, non sapendo che farsene, “Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino dell’Eden perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gn 2, 15). Adesso mi è chiaro perché il Dominus creò l’homo faber: gli serviva la manodopera dedita all’agricoltura.

Non basta, “E il Signore Dio disse: ‘Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile’. Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile”. Adam come homo technicus impose il nome agli animali, in cambio il dominus creò Eva per dargli compagnia, soprattutto nel lavoro dei campi. (Gn 2, 18 – 20)

Si configurano, così, questioni come il linguaggio, la proprietà, il tempo, lo spazio, la morte, la deformazione del lavoro in fatica.

Per di più nel terzo capitolo della Genesi, quello del “peccato originale”, c’è la distorsione dell’ordine divino nell’Eden, descritto nel secondo capitolo.

“… maledetto sia il suolo per causa tua ! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai” (Gn 3 , 17 – 19)

Eppure Adam non gli aveva chiesto di nascere. Il Dominus (nella sua infinità bontà e amore ?) egoisticamente lo creò per farlo lavorare nella sua grande “tenuta agricola” denominata “Eden”. La sua ira funesta costrinse quel povero uomo e la sua compagna, Eva, a mangiare “spine, cardi ed erba campestre”.

Comunque, anche in questa dimensione di dura fatica, il lavoro ha un aspetto costruttivo: produttività, procreazione, cultura.

Due verbi ebraici classificano il lavoro: “abad” e “shamar” (= coltivare e custodire), di per sé sono i termini religiosi della pratica dell’alleanza tra Israele e Dio, col significato di “servire” (culto) e “osservare” (la legge divina).

Pagine: 1 [2] 3 4 ... 35