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Topics - Doxa

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Cassonetto differenziato / Charles Bukowski
« il: Febbraio 22, 2016, 10:44:59 »
Lo scrittore e poeta statunitense di origine tedesca Henry Charles Bukowski (1920 – 1994) all’età di 13 - 14 anni bevve per la prima volta il vino su insistenza del suo amico William “Baldy” Mullinax, figlio di un chirurgo  alcolizzato. “Questo mi aiuterà per tanto tempo”, scrisse in seguito Bukowski descrivendo l'inizio della sua dipendenza dall’alcol:
 
“Se succede qualcosa di brutto / si beve per dimenticare;
se succede qualcosa di bello / si beve per festeggiare;
e se non succede niente / si beve per far succedere qualcosa”.



"Voglio una vita maleducata, di quelle vite fatte così. Voglio una vita che se ne frega, che se ne frega di tutto sì. Voglio una vita spericolata, di quelle che non dormi mai
". Se Bukowski, detto Hank, avesse ascoltato la nota canzone di Vasco Rossi,  forse ne avrebbe fatto un suo inno.

“Perché bevo ? Perché non riesco ad affrontare la vita quando sono sobrio”
: questa frase può essere condivisa da tanti alcolisti ma anche dalla maggior parte dei drogati, perché esprime la disperazione, la dipendenza, non esalta una sfida ma una sconfitta, non celebra una scelta ma la paura di vivere.

Questo autore anticonformista ed “eccessivo”, uno dei suoi libri lo titolò “Compagni di sbronze”.

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Cinema e Tv / "Perfetti sconosciuti"
« il: Febbraio 14, 2016, 07:33:04 »
Ieri ho visto un altro bel film: “Perfetti sconosciuti”.

“Nel corso di una cena, che riunisce un gruppo di amici, la padrona di casa Eva, ad un certo punto, si dice convinta che tante coppie si lascerebbero se ogni rispettivo partner controllasse il contenuto del cellulare dell'altro. Parte così una sorta di gioco per cui tutti dovranno mettere il proprio telefono sul tavolo e accettare di leggere sms/chat o ascoltare telefonate pubblicamente. Quello che all'inizio sembra un passatempo innocente diventerà man mano un gioco al massacro e si scoprirà che non sempre conosciamo le persone così bene come pensiamo”.

E’ un gioco che non accetterei di fare ! Anche tra amici ci deve essere la separazione tra vita pubblica e vita privata. Ognuno ha le proprie fragilità. Ci sono cose che devono rimanere nell’archivio della propria memoria mentale e non nelle sim telefoniche.

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Cassonetto differenziato / Invidia
« il: Febbraio 08, 2016, 19:08:57 »
Metastasio, pseudonimo di Pietro Trapassi,

Contro l’invidia” (aria XXIX)[/b]:

“Se a ciascun l’interno affanno

si leggesse in fronte scritto,

quanti mai, che invidia fanno,

ci farebbero pietà!

Si vedria che i lor nemici

hanno in seno; e si riduce

nel parere a noi

felici ogni lor felicità”.




Metastasio

Poeta, drammaturgo e sacerdote italiano Pietro Metastasio (1698-1782) scrisse oltre 1200 “arie”.  In campo musicale per aria si intende un brano, quasi sempre per voce solista, articolato in strofe o sezioni. Nella storia dell'opera essa si contrappone al recitativo.
Il genere melodrammatico esigeva che ogni scena dopo la parte recitata fosse conclusa da un'aria.
Le arie erano composte da poche frasi,  accompagnate dagli strumenti, spesso cantate, servivano per esprimere un’emozione, a dar voce ad uno stato d’animo, senza pretese di esaustività. Era importante il ritmo, la rima, la metrica: scopo delle “arie” era la rapida memorizzazione, il divertimento.

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Cassonetto differenziato / anno bisestile
« il: Febbraio 05, 2016, 00:26:14 »
Il 2016 è un anno di 366 giorni: anno bisestile. 
 


In epoca repubblicana gli antichi Romani usavano il cosiddetto calendario di Numa o numano, dal nome di Numa Pompilio, considerato nel periodo monarchico  il secondo re di Roma, dopo il fondatore Romolo. 

Il calendario numano era basato sui cicli lunari e l'anno era formato da 355 giorni suddivisi in 12 mesi. Ma la suddivisione non coincideva con il ciclo lunare, per cui ad annate alterne veniva aggiunto come ultimo mese il mercedonius, composto da 27 giorni, togliendo a febbraio 4 o 5 giorni; era il collegio dei pontefici a decidere queste compensazioni, alle volte anche sulla base di convenienze politiche, perciò soggetto ad abusi oltreché ad errori.

Per rimettere ordine Giulio Cesare  nel 46 a.C.incaricò l'astronomo Sosigene di progettare un nuovo calendario più funzionale, denominato giuliano (dal nome di quel dittatore),  in vigore dal 45 a.C.  Quello fu  un anno eccezionale: per riallineare i mesi alle stagioni tradizionali si dovettero inserire due mesi straordinari tra Novembre e Dicembre oltre ad un'ultima intercalazione del mese Mercedonius.

Sosigene stabilì l’anno di 365 giorni e 6 ore, alcuni minuti in  più  degli effettivi 5 ore, 48 minuti e 46 secondi., una differenza di 11 minuti e 14 secondi. 

Poiché per gli usi civili serviva un anno con un numero intero di giorni, Cesare decretò di eliminare quella frazione di 6 ore (il 1/4) e di recuperarla come giornata intera ogni 4 anni  inserendo la ripetizione del  23 febbraio, che cadeva sei giorni prima delle calende di marzo (“bis sextus die ante kalendas Martias”). L’anno con un giorno in più, di 366 giorni, ogni quattro anni,  fu detto bisestile.

Il giuliano è un calendario solare, basato sul ciclo delle stagioni e quegli 11 minuti e 14 secondi di differenza ogni anno fecero  perdere un giorno ogni 128 anni rispetto all’anno solare.  Per conseguenza la data d'inizio delle stagioni si spostava man mano all'indietro, fino ad arrivare alla perdita di 10 giorni nel XVI secolo.

Nel 1582 l'equinozio di primavera  "cadde" l'11 marzo,  con un anticipo di dieci giorni rispetto all'equinozio convenzionale del 21 marzo, stabilito dal Concilio di Nicea quale base per il calcolo della Pasqua. Papa Gregorio XIII si rese conto che la Pasqua, di quel passo, avrebbe finito per essere celebrata in estate. Nominò una commissione di esperti che elaborarono un nuovo calendario, detto Gregoriano dal nome del pontefice. Con la Bolla “Inter gravissimas”  del 24 febbraio 1582, papa Gregorio XIII decretò che il giorno successivo al giovedì 4 ottobre 1582 fosse il venerdì 15 ottobre, per recuperare i 10 giorni di differenza con l’anno solare., senza alterare i giorni della settimana. In tal modo riportò la data dell’equinozio di primavera al 21 marzo, ristabilendo quindi il ciclo delle stagioni in modo concorde sia nel calendario civile che in quello solare.

Con l’adozione del calendario gregoriano il giorno in più divenne il 29 febbraio.

Però anche il calendario gregoriano che stiamo utilizzando non è perfetto. Riduce l'errore a soli 26 secondi, che provoca la perdita di un giorno un giorno ogni 3.323 anni.

Per quanto riguarda la superstiziosa credulità collegata all’anno bisestile, dal quale deriva il detto “Anno bisesto, anno funesto”, c’è da dire  che tale diceria è molto antica. Nel calendario giuliano il mese di Febbraio era il "mensis feralis" ossia il mese dedicato al ricordo e ai riti per i defunti, perciò l’infausta nomea.

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Pensieri, riflessioni, saggi / 1 Febbraio: Giornata mondiale del velo
« il: Febbraio 01, 2016, 17:21:32 »
Oggi, 1 febbraio, si svolge  la quarta edizione del World Hijab Day (Giornata mondiale del velo)  una giornata in cui le donne di 116 paesi – musulmane e non – indossano il velo.  Nell’intenzione della fondatrice Nazma Khan, nata in Bangladesh e a undici anni emigrata a New York, l’obiettivo è dimostrare che il velo è una libera scelta, il simbolo di una tradizione e di un credo che chiede alle donne di essere modeste.

Bruno Nassim Aboudrar,
docente di filosofia estetica all’Università Paris 3-Sorbonne Nouvelle, nel suo saggio “Come il velo è diventato musulmano” evidenzia i malintesi che si sono sedimentati intorno alla millenaria usanza di nascondere il volto delle donne. Il velo non nasce musulmano ma lo diventa. Il Corano lo menziona appena. Ed aggiunge: il velo “per molte donne è uno strumento di coercizione quando diventa obbligatorio e il suo uso sorvegliato scrupolosamente da milizie maschili”. […] In ogni caso occorre fare una riflessione sul tipo di velo perché il foulard non è il burqa. Al tempo stesso, non dobbiamo però minimizzare la portata di un fenomeno che conduce a manifestare le proprie convinzioni religiose negli spazi pubblici regolati, com’è il caso in Europa, da norme contraddistinte dalla laicità”.

La giornalista, scrittrice e docente universitaria Farian Sabahi ha intervistato il professor Aboudrar ed ha scritto un articolo per il settimanale “Io Donna” del Corriere della Sera, del quale cito alcune parti: 

Sabahi:  “La casa di moda italiana Dolce e Gabbana sta promuovendo una collezione per le donne degli Emirati e dintorni…”

Aboudrar : “È nella natura del business cercare di fare profitti là dove c’è denaro. È quindi del tutto normale che Dolce e Gabbana vesta le ricche musulmane del Golfo. Resta da vedere quali saranno le reazioni delle militanti musulmane e dei leader religiosi che sostengono la causa del velo: sono loro ad avere tutto da perdere da una banalizzazione del velo musulmano a causa della moda e della frivolezza delle paillettes”.

Sabahi:” Lei che cosa pensa del velo?”

Aboudrar: “Nato a Parigi da madre francese e padre marocchino, non ho ricevuto un’educazione religiosa. Sono ateo e laico, mi diverte tutto ciò che può contribuire a togliere al velo le sue connotazioni bigotte”.

Sabahi: “Veniamo al suo libro Come il velo è diventato musulmano: che percorso ha fatto il velo prima di arrivare all’Islam?”

Aboudrar: “Dal punto di vista religioso, il velo è cristiano. A introdurlo è San Paolo: nella prima Lettera ai Corinzi egli afferma che per pregare le donne devono coprirsi con un velo, mentre gli uomini devono essere a capo scoperto e quindi con modalità opposte rispetto agli uomini ebrei che devono invece coprirsi il capo per pregare”.

Sabahi: Quale spiegazione dà San Paolo?

Aboudrar: "San Paolo offre una lettura gerarchica della Creazione: la donna dev’essere coperta perché l’uomo è il suo capo, il capo dell’uomo è Cristo e il capo di Cristo è Dio. Di conseguenza i Padri della Chiesa insistono sulla funzione simbolica del velo: indica la sottomissione della donna all’uomo, conformemente alla gerarchia voluta da Dio".

Sabahi: "Tra questi Padri della Chiesa c’è Tertulliano"…

Aboudrar: “Sì, Tertulliano consacra al velo un intero trattato definendolo il “giogo” della donna”.

Sabahi: “Fuori dal mondo cristiano che ruolo aveva, in origine, il velo?”

Aboudrar: “Prima dell’avvento dell’Islam le donne della penisola araba talvolta si velavano. Nel tempio di Bel a Palmira (Siria), che risaliva al II secolo ed è stato distrutto da Daesh, c’era un rilievo con tre donne velate dalla testa ai piedi, una sorta di burqa”.

Sabahi: “E nel Corano?”

Aboudrar: "È menzionato una sola volta e non è legato alla religione: è semplicemente il modo, per le spose dei credenti, per essere riconosciute e rispettate. Velate, le spose dei credenti sono diverse dalle schiave che non hanno il diritto di portare il velo”.

Sabahi: "Quand’è che il velo diventa strumento di sottomissione nell’Islam?"

Aboudrar: “Solo quando l’Islam instaura una cultura che discrimina le donne e le nasconde negli harem. In altri termini, in principio l’hijab non ha alcun significato simbolico religioso. Viene diffuso da quel sistema che discrimina le donne e le nasconde”.

Nel Corano il velo è citato non una ma due volte,  in due sure: nella 24/esima sura si raccomanda alle donne di coprirsi il seno e di non mostrare le caviglie se non davanti al marito, ai familiari e ai servi eunuchi. Nella 33/esima sura si parla delle mogli del profeta Maometto: a loro è opportuno parlare restando dietro a un velo (una tenda?), solo loro non si possono risposare, loro portano il velo per scoraggiare le avances e per farsi riconoscere come donne libere e di rango. Il Corano solo qui invita Maometto a dire alle donne della sua famiglia “e alle donne dei credenti” di velarsi “per distinguersi dalle altre e per evitare che subiscano offese”,  motivi di convivenza civile, senza cenni alla religione. La storia, però, ha deciso diversamente.

Nei paesi musulmani il velo da segno di distinzione è diventato strumento di sottomissione della donna all’uomo, obbligatorio per legge. Paradossalmente, poi, il Novecento ha assistito a due capovolgimenti: dapprima, i tentativi di occidentalizzazione delle colonie, che hanno portato ad abbandonare il velo in Turchia, Iran, Egitto. Poi, invece, la ribellione all’Occidente, il potere dei capi religiosi e la trasformazione del velo (come della barba per l’uomo) in una bandiera dell’ortodossia, della sottomissione, della distinzione dalle donne occidentali. Forse quest’ultimo è il motivo che porta le musulmane di oggi a “scegliere” il velo da ragazzine, come segno di appartenenza alla comunità, con tanta maggior forza se si vive in Europa o negli Stati Uniti. Un certo Islam, infatti, desidera distinguersi da tutte le altre religioni e civiltà, contemporanee o antiche, a qualunque costo.

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Cinema e Tv / "La corrispondenza"
« il: Gennaio 18, 2016, 09:30:59 »
Ieri ho visto il nuovo bel film diretto dal regista Giuseppe Tornatore, "La corrispondenza": emozionante, commovente, surreale.
Ed Phoerum, professore di astrofisica sessantenne, intrattiene una relazione extraconiugale con una sua ex studentessa fuori corso, Amy Ryan. Li lega una "corrispondenza" amorosa costellata di sms, chat, registrazioni video e chiacchierate tramite Skype. 

Amy vede proseguire questa corrispondenza virtuale attraverso le tante missive che lui le fa pervenire anche dopo un evento decisivo, con l'aiuto di "complici" e del piano di consegne scadenzato del servizio postale.

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Cassonetto differenziato / penna a biro
« il: Dicembre 06, 2015, 20:42:53 »
“Bambini, biglie e pozzanghere Così nacque la penna di Bìrò (e Bich)”

All' ungherese Làszlo Bíró, revisore di bozze e tipografo in un giornale di Budapest, l' idea era venuta osservando alcuni ragazzini che giocavano a biglie: una di queste, finita in una pozzanghera, aveva tracciato una riga sull' asfalto. A quell' epoca, nel periodo tra le due guerre, per scrivere si usava la stilografica, che richiedeva ricariche frequenti e macchiava, oppure il pennino con il calamaio, decisamente poco pratico. Sulla base di queste considerazioni, Bíró, con il fratello György, chimico e Imre Gellért, tecnico industriale, fabbricò il primo prototipo di penna a sfera, oggi nota come «Biro» impiegando una piccola sfera in una cannuccia riempita con l' inchiostro utilizzato per le rotative. Brevettò l' invenzione nel 1938 in Ungheria ma gli eventi bellici conclusero bruscamente i suoi esperimenti. Per proseguirli si rifugiò in Argentina, dove creò un laboratorio per produrre e vendere la sua invenzione. Un articolo di «Time», uscito nel 1941, lanciò la sua invenzione negli Usa, cui seguì un brevetto anche in quel Paese. Da allora, l'ungherese si dedicò al lancio della sua invenzione sui mercati mondiali. Ma il nuovo prodotto era costoso, quindi riservato a pochi fortunati. Chi ebbe fiducia nelle potenzialità della scoperta fu invece il barone Marcel Bich che, preso contatto con Bíró, nel 1949 mise a punto un primo prodotto: «Si tratta dell' invenzione della ruota - diceva il barone - o meglio, della sfera, applicata alla scrittura». Nel 1953 lanciò la Bic Cristal che, con piccolissime modifiche, viene prodotta ancora oggi: il corpo esagonale le impedisce di rotolare sul tavolo, il piccolo forellino a metà fusto serve ad agevolare la discesa dell' inchiostro grazie alla pressione atmosferica; la piccola sfera al carburo di tungsteno permette di scrivere per tre chilometri senza interruzioni. E un cappuccio con fermaglio permette di tenerla nel taschino. Ogni anno ne vengono venduti centinaia di milioni di pezzi in tutto il mondo. Con questa (e altre invenzioni) il barone Bich divenne ricchissimo. Bíró, invece, morì povero nel 1985.
(Vinelli Marco, Corriere della Sera, 24 marzo 2012) 

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Letteratura che passione / Chiesa e sessualità
« il: Novembre 25, 2015, 11:04:31 »
Sto rileggendo il libro titolato “Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia”, scritto da Margherita Pelaja e Lucetta Scaraffìa. In questo testo le autrici esaminano lo stereotipo, il pregiudizio della sessuofobia nel cristianesimo e poi nella Chiesa cattolica: per il cattolicesimo il piacere è colpa, il sesso è peccato. “Da praticare con parsimonia e disagio esclusivamente nel matrimonio, e principalmente per procreare. Alcuni enunciati si ripetono nel corso del tempo nella predicazione cattolica fino a rendere possibile una sintesi così brutale”.

Nel passato la Chiesa usò verso la sessualità repressione e clemenza per governare le “anime” dei fedeli.
 
La teologia cristiana considerava il rapporto sessuale tra un uomo ed una donna metafora del rapporto fra l’anima e Dio, anticipo del piacere d’amore che si vivrà in “paradiso”. Come tale,  il rapporto sessuale deve essere pervaso di significati spirituali, privato dell’aspetto ludico ed erotico che lo aveva contrassegnato nel mondo pagano.
 
Martin Lutero e la Riforma protestante denunciarono la corruzione ed il lassismo della Chiesa di Roma anche nella morale sessuale. Il Concilio di Trento e la cosiddetta “Controriforma” cattolica cercarono di disciplinare gli ambiti e le modalità entro cui poteva esprimersi la sessualità.  Tramite le norme canoniche e la confessione coercizzarono le coscienze dei fedeli,  cioè di tutti o quasi, fino alla prima metà del secolo scorso. I confessori ed i parroci mediavano l’intransigenza delle norme del catechismo con le necessità quotidiane e particolari della “carne e del desiderio”. Usavano flessibilità e pragmatismo nella condanna della masturbazione, della sodomia e della prostituzione, avendo cura di instillare e rafforzare nelle coscienze il senso del peccato e della colpa che garantiscono la perpetua soggezione delle anime. Tale sistema di controllo durò per secoli, ma la modernizzazione ne incrinò le basi con la contestazione alla Chiesa del monopolio della morale sessuale.

I mutamenti culturali indotti dall’Illuminismo e l’affermarsi dell’individuo come soggetto di diritti sottrassero progressivamente il sesso alla dimensione religiosa, riuscirono a togliere la sovranità esclusiva del diritto canonico sui comportamenti sessuali.

Il conflitto cominciò alla fine del 18/esimo secolo e proseguì nei secoli successivi quando la competenza sulla sessualità venne attribuita a medici, biologi, antropologi e poi psicoanalisti, che negavano alla Chiesa il diritto di imporre norme universali e ai teologi la capacità di definire il senso ed il valore dell’atto sessuale, depotenziato di ogni significato spirituale.

Anche il controllo delle nascite fu oggetto di contesa che divise società e Chiesa dal XIX secolo. L’ostinato rifiuto del controllo delle nascite la Chiesa lo sancì con due encicliche, la “Casti connubii” del 1930 e l’”Humanae vitae”! del 1968, che ribadiscono l’opposizione della Chiesa fra sessualità e riproduzione.

Alla stesura dell’enciclica  sociale “Humanae vitae” contribuì l’allora cardinale Karol Wojtyla. Tale “lettera” contiene i temi che sono ancora al centro della discussione “che divide la concezione della Chiesa da quella della società laica: la legge di natura, il valore del matrimonio, l’indivisione dei due aspetti dell’atto sessuale (corporale e spirituale), l’unione fra gli sposi e la procreazione, e la richiesta alla scienza di percorrere strade di ricerca rispettose della morale cattolica”. Temi questi che hanno aperto un solco profondo tra la Chiesa e le donne, nel passato considerate le “custodi” dei valori religiosi e le alleate della Chiesa. 

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Letteratura che passione / Servus
« il: Novembre 22, 2015, 00:07:00 »
“La condizione dei servi è miserabile perché è contro natura in quanto “la natura li ha generali liberi, ma la sorte li ha fatti servi. Il servo è costretto a patire e non si ammette che nessuno ne abbia compassione, lo si costringe a soffrire e non si permette a nessuno di soffrire con lui”.

Però, anche quella del padrone, in rapporto a quella dei servi, è una condizione umana miserabile: “se egli è crudele, i servi, depravati, come sono, lo rispettano e lo temono, se è clemente è disprezzato dai suoi sottoposti, che si fanno sfacciati. Il timore, perciò, affligge chi è severo, il disprezzo degrada il mansueto, infatti la crudeltà partorisce l'odio e la confidenza il disprezzo”.


Quanto sopra è nei capitoli 16 e 17  del primo libro nel volume titolato: “De contemptu mundi sive de miseria humane conditionis”, più noto in seguito con l’abbreviato titolo: “De contemptu mundi” (= “Il disprezzo del mondo”),  scritto  nel 1191 da  Lotario, della nobile famiglia Conti,  di Segni, un paese nella provincia di Roma. Egli visse dal  1161 – 1216. Fu eletto al soglio pontificio nel 1198 col nome di Innocenzo III, che indisse la IV  crociata in Oriente ed una crociata in Francia contro i Catari o Albigesi,  preludio della legittimazione dell’Inquisizione nel 1233: l’eresia doveva essere punita per il bene spirituale dell’individuo ma soprattutto per la conservazione della Chiesa cattolica. Nel 1199 emanò la bolla papale “Vergentis in senium” con la quale equiparava l’eresia al reato di lesa maestà. Nel novembre del 1215 convocò il IV concilio lateranense (il dodicesimo concilio ecumenico), che emanò settanta decreti di riforma. Tra questi venne definitivamente dichiarata la superiorità della Chiesa rispetto a qualunque altro potere secolare, quale unica depositaria della grazia divina ed esclusiva mediatrice tra Dio e gli uomini.

Lotario scrisse  varî trattati teologico-ascetici, tra cui, come suddetto,  il “De contemptu mundi” che redasse quand’era cardinale. In quest’opera letteraria che suscita angoscia e disperazione, attenuate dalla speranza nella salvezza eterna, ci sono citazioni bibliche che propongono riflessioni impietose sulla condizione umana.

Il testo è diviso  in tre tomi, secondo  l’evoluzione dell’età. 

Nel primo libro, titolato “De miserabili humane conditionis ingressu” ((= “Lo sventurato ingresso nella condizione umana”),  Lotario nei 31 capitoli descrive la miseria della condizione umana dal momento  della nascita alla morte.

Nel secondo libro: “De culpabili humane conditionis progressu”  (= “Il colpevole sviluppo della condizione umana”) in 43 capitoli espone con intento etico la classificazione dei sette vizi capitali. Lotario passa in rassegna i “beni”  ai quali di solito gli individui aspirano nella loro vita terrena (le  ricchezze che portano alla malvagità, il sapere che porta al  dolore, il potere e gli onori che portano alle vanità, i piaceri che portano alle indecenze) e mostra come la ricerca di questi beni terreni induca inevitabilmente ai vari peccati capitali di cui  l’uomo è l’unico artefice e colpevole.
 
Il terzo libro “De damnabili humane conditionis egressu” (=La condannabile uscita dalla condizione umana), in 17 capitoli descrive la fine del mondo (l’Apocalisse), il momento della morte e le pene  infernali.  “Dove andranno a finire vi sarà pianto e stridore di denti, gemiti e lamenti, ululati e tormenti, stridore e grida, timore e tremore, dolore e pena, ardore e fetore, oscurità ed ansia, durezza ed asprezza, sciagure e miseria, angoscia e mestizia, oblio e confusione, torcimenti e punture, amarezza e terrore, fame e sete, freddo e calura, zolfo e fuoco ardente nei secoli dei secoli”. (cap. 24) Ecco le fandonie che dicevano nel medioevo i preti e la gerarchia vaticana.  Le diverse sofferenze elencate sembrano resoconti da parte di clerici che erano stati nell’oltretomba ed erano tornati per raccontare. E’ roba da matti. Penso con compassione a quella povera gente intimorita. Perciò plaudo al tempo in cui viviamo, con la Chiesa emarginata per sua stessa colpa.   

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Pensieri, riflessioni, saggi / Competizione fra donne
« il: Novembre 21, 2015, 00:09:53 »
La competizione femminile si esplica in modo particolare per attrarre il possibile partner o nell’ambito lavorativo.

Quando due donne sono interessate allo stesso uomo diventano rivali, competono per “conquistarlo”. Spesso basta un complimento o un’attenzione in più data alla “rivale” per  partecipare alla “gara”.

Ci sono anche donne che fanno finta di essere amiche per “rubare” il fidanzato all’altra. Dopo essere riuscite nel loro intento lo lasciano, perché hanno soddisfatto la loro autostima.

Pure negli ambiti lavorativi le donne sperimentano la competizione, anche se di tipo professionale, con  colleghe ambiziose e furbe, con la voglia di apparire  come le più brave ed ammirate, proiettate alla “carriera”.  L’invidia aleggia nelle stanze  ed interferisce con le dinamiche lavorative e le proprie aspettative.

La competizione femminile emerge pure nel gruppo amicale, specie se c’è una “bella” che attira l'adulazione dei ragazzi. Ma la rivalità è velata, taciuta, oppure manifestata col pettegolezzo, la maldicenza, a volte con l’aggressività. Alcuni mesi fa alcune ragazze  quindicenni hanno malmenato una loro coetanea solo perché era carina e, differentemente da loro, riusciva a “sedurre” alcuni compagni di scuola, uno dei quali flirtava con una delle tipe aggressive.   

Comunque è possibile l'amicizia fra donne. Affettuose amicizie solidali nascono durante l’adolescenza, perché consentono di ricevere il necessario supporto emotivo nel periodo in cui comincia il distacco dalla famiglia, con l'insicurezza che ne consegue. Trovare una buona amicizia durante questo periodo della vita è fondamentale, perché permette a femmine e maschi di fare nuove esperienze: i primi flirt, le prime uscite senza genitori, la frequentazione di un gruppo, ecc.. 



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Anch'io ho scritto un aforisma / ipse dixit
« il: Novembre 16, 2015, 09:09:53 »
"Per un certo tempo riflettemmo se concederci una vacanza o avviare le pratiche di divorzio. Decidemmo che un viaggio alle Bermuda dopo due settimane è finito, mentre il divorzio è qualcosa che ti resta per sempre".Woody Allen, ipse dixit....




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Arte / Venus
« il: Novembre 13, 2015, 11:26:36 »

Francesco Hayez: "Venere che scherza con due colombe", 1830 (Trento, Cassa di risparmio di Trento e Rovereto)

Questo bel dipinto fu realizzato nel 1830 ed esposto all’Accademia di Belle arti di Brera, nella quale l’artista insegnava.

In consapevole contrasto con il classicismo di inizio Ottocento, Hayez sceglie nella pittura l’audace realismo anche nei dettagli, come il  filo rosso che lega le due colombe e il gioco dei colori bianchi: l'epidermide della donna ed il panno adagiato sulla balaustra.

Ad impersonare la dea fu la ballerina Carlotta Chabert, amante del conte Girolamo Malfatti, originario di Trento, committente del dipinto. La relazione tra i due fu oggetto di pettegolezzi nella ottocentesca Milano.

L'elaborato artistico suscitò scandalo nei benpensanti. Hayez fu accusato di aver realizzato l’immagine osé di una ballerina rappresentandola  con l’iconografia della dea della bellezza, Venere, riferendosi ad una famosa statua dell’antichità, la Venere Callipigia.


"Venere Callipigia", II sec. d.C., Museo archeologico nazionale di Napoli

"Callipigia" significa "belle natiche”,  "kalli” (= belle) + pygos” (= natiche). E’ una scultura marmorea di epoca romana, copia di un originale bronzeo di epoca ellenistica del III sec. a. C..

Oltre ad Hayez fu giudicato in modo negativo anche il nobiluomo per aver osato far ritrarre Carlotta in tal modo, avendo trovato nell’artista un “complice”, perché il soggetto era congeniale alla sua indole di “libertino”.

A chi gli diceva: “Quella Venere è volgare, ha il sedere grosso”. Hayez rispondeva: “Ho copiato le forme della ballerina Carlotta Chabert”.
I fianchi mulìebri, gli abbondanti glutei e le tornite cosce fomentarono veemente diatriba perché non rispettavano le auree proporzioni.

Gli estimatori di questo quadro affermano che la Chabert ha un bel corpo, anche  se  non perfetto se considerato con i “canoni” odierni.
E' voluttuoso, morbido e procace, sembra emanare un effluvio di indomita malizia. L’eburnea carnagione e lo sguardo sobillano pensieri impudichi, dicono.

Francesco Hayez, nelle  sue “Memorie” asserisce che se l’immagine della donna “per forma non aveva quella nobiltà voluta nella regina della bellezza (Venere), causa ne fu il modello, che quantunque non fosse propriamente difettoso, pure se io avessi cercato di migliorarlo avrei riescito a maggior mia soddisfazione; ma il rispetto che io ho del vero mi tolse l’ardire di migliorarlo dietro lo studio ch’io aveva preventivamente fatto delle cose greche: con tutto ciò non aveva pensato di meritarmi una critica così acerba che mi scagliò contro, qualificando la mia Venere come ‘la più schifosa del volgo’”.
Insomma, la colpa  era da attribuire all’opulenza delle forme di Carlotta, e non all’artista, che si era limitato ad una trasposizione del vero.

La figura ha delle affinità con la “Venere Italica” dello scultore Antonio Canova, che fu mèntore del giovane Hayez.


Antonio Canova, “Venere Italica”  (184 – 1811), Firenze, Galleria Palatina

Questa Venere fu celebrata da Ugo Foscolo come icastica incarnazione dell’amore fisico:
Io dunque – racconta il poeta in una lettera a Sigismondo Trechi – ho visitata, e rivisitata, e amoreggiata, e baciata e (ma che nessuno il risappia) ho anche una volta carezzata questa Venere”, creatura in cui convergono “quelle grazie che spirano un non so che di terreno, ma che muovono più facilmente il cuore”.




 





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Pensieri, riflessioni, saggi / "Coraggio, guardiamo"
« il: Novembre 08, 2015, 17:07:34 »
“Coraggio, guardiamo”, è l’ultimo verso della poesia titolata “Spiragli”, scritta da Vincenzo Cardarelli (1887 – 1959):

Che cosa mi colpisce oramai?
Un velo d’ombra di mare
sui monti lontani,
un lembo di nuvola tutelare.
Ma basta levare la testa.
Le cose non stanno che a ricordare.
Piano piano i minuti vissuti,
fedelmente li ritroveremo.
Coraggio, guardiamo.

Ma “coraggio, guardiamo” è anche il titolo di un  libro dello scrittore napoletano  Giuseppe Marotta (1902 – 1963).

In una pagina del predetto testo, pubblicato nel 1953, Marotta ironicamente afferma: “Ah, come si diventa preziosi, in Italia, dopo la morte !  Non vedo l’ora di estinguermi, per essere commemorato, descritto, lodato, eccetera: per sapere finalmente chi ero”.

L’encomio funebre o lode funebre (=laudatio funebris) è un genere letterario che spesso amplifica i meriti acquisiti in vita dal celebrato, fino all’impudente falsificazione.

“De mortuis nil nisi bene” (= Dei morti non si deve dire altro che bene)

Il discorso celebrativo, l’epinicio, alimentato dall’enfasi, esalta, glorifica, incensa. Se l’Ego di ogni individuo  potesse ascoltare, riceverebbe la “carezza” vivificante dalla (pur ora deprecata) futura celebrazione funebre.

La lode ricevuta, anche se ipocrita, genera orgoglio in chi la riceve, suscita la vanità, un difetto che ignora l’autoironia e cade nel ridicolo.

Il vanitoso è “come un gallo convinto che il sole sorge per ascoltarlo cantare”, scrisse  George Eliot, pseudonimo di Mary Anne (Marion) Evans (1819 – 1880), nel suo romanzo “Adam Bede”, pubblicato nel 1859, nell’epoca vittoriana, di cui fu una delle più importanti scrittrici.

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Arte / "Madonna del parto"
« il: Novembre 04, 2015, 00:11:58 »


Questo affresco, che rappresenta la  Madonna del parto, fu realizzato nel 1455 circa da Piero della Francesca, nella piccola chiesa di Santa Maria a Momentana, nel Comune di Monterchi, in provincia di Arezzo.

Non si sa chi fu il committente di questo affresco che raffigura la Madonna incinta. Forse fu ordinato al citato artista per sciogliere un voto od impetrare una grazia.

La madre di Gesù è in piedi a figura intera, leggermente ricurva dalla gravidanza. La postura evidenzia il suo stato. I suoi occhi guardano verso il basso; la fronte è alta, secondo la moda del tempo, che voleva le attaccature dei capelli rasate. La mano destra è poggiata sul grembo, mentre l’altra è sul fianco sinistro. La Madonna è raffigurata al centro di una tenda damascata simile ad un tabernacolo. Sulla damascatura sono disegnati dei melograni, presenti anche nella veste di re Salomone e nell'affresco della “Leggenda della Vera Croce”. I melograni simboleggiano la fertilità e la Passione di Cristo. L'interno è invece foderato con una trapunta.  I lembi laterali del tendaggio sono tenuti aperti da due angeli.  Nei loro abiti e nelle ali i colori sono alternati: manto verde, ali e calzari bruni per quello di sinistra, viceversa per quello di destra. Gli angeli guardano verso lo spettatore, richiamando la sua attenzione, come se stessero spalancando un sipario proprio per lui.


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Arte / Gesù - Dio "Pastore"
« il: Novembre 03, 2015, 00:17:10 »
Dal Nuovo Testamento si apprende che Gesù  predicava tramite parabole e similitudini, come usavano i rabbini del suo tempo.

Più volte Gesù parlò in modo allusivo ed enigmatico, lasciando all’ascoltatore la ricerca del significato delle sue parole.  Egli esortava dicendo: “Chi ha orecchie per intendere, intenda”, cioè chi è in grado di capire, cerchi di capire”.

Egli considerava adeguato il suo modo di esprimersi per farsi comprendere dai suoi ascoltatori senza o  con scarsa istruzione scolastica. Infatti la parabola è un racconto didascalico che serve per far capire  in modo semplice concetti complessi.

Il sostantivo  “parabola” deriva dal greco “parabolé” e significa comparazione,  confronto, paragone.

Nei suoi insegnamenti Gesù  diceva agli interlocutori : “ascoltate", ad imitazione al credo di Israele, che inizia con le parole "Ascolta Israele". Gesù elimina Israele e dice agli interlocutori: “ascoltate”.

Alcune delle parabole descritte nei  tre vangeli sinottici  fanno pensare ad un Cristo esperto  rurale: per esempio, parla del seminatore e delle semenze,  del granello di senape,  di vignaioli,  dell’albero di fico,  riferisce di nemici del gregge,  del “buon pastore” e della pecora smarrita. La parabola di quest’ultima è nel vangelo di Matteo (18, 12 – 14),  in quello di Luca (15, 3 – 7) e nel vangelo apocrifo di Giuda Tommaso che raccoglie i detti di Gesù (114).
 


Nel Vangelo di Luca c’è scritto: “Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? E quando la trova se la mette in spalla contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”. Questa è la prima delle tre parabole dette da Gesù in risposta ai farisei che lo accusavano di mangiare con i peccatori. Ciascuna delle tre parabole si riferisce alla perdita ed al ritrovamento di importanti entità: pecora, moneta e figlio.

Gesù fu inviato dal Padre per andare in cerca delle pecore smarrite (che rappresentano quanti si allontanano da Dio), per questo si intratteneva con i peccatori.

La metafora del pastore e del gregge è frequente nell’Antico Testamento per esprimere il legame che descrive il popolo di Israele come gregge di Dio condotto nel deserto e poi attraverso le vicissitudini della sua storia verso un atteso compimento (Is 49,95). Mosè, Giosuè, i Giudici e Davide sono chiamati “pastori”. In tempi posteriori i profeti risuonano di invettive contro i pastori infedeli (Ger 22,25; Ez 34).

Nel salmo 23 Dio viene descritto come “buon pastore”. Nel Libro di Ezechiele (contenuto nella Bibbia ebraica (Tanakh)  e cristiana)  troviamo lo stesso concetto: "Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e le farò riposare... Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all'ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata...". Dio allude all’amore totale per ogni singolo e la perdita di uno lo ferisce perché ognuno è parte di sé.  Non smette di cercare "finché non la trova".



L’arte paleocristiana, ispirata dall’Antico e Nuovo Testamento, nei primi tre secoli fu influenzata dalle mitologie, tipologie e decorazioni pagane, perché non aveva una propria tradizione, ma ai simboli pagani venivano attribuiti valori cristiani.

Tra le immagini ed i simboli della cultura greco-romana (che dava aspetto umano ai concetti astratti e alla natura) ci sono i temi pastorali. L'icona del pastore, poi denominato dai cristiani il "Buon Pastore", in riferimento all'omonima parabola di Gesù: "Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore" (Gv 10, 11), trae l'iconografia dal "crioforo" (= che porta l'agnello) uno degli attributi del dio greco Hermes, che in origine era una divinità pastorale e spesso veniva raffigurato con un agnello sulle spalle. I pagani consideravano l'immagine del crioforo come simbolo dell'humanitas, invece dai cristiani il "Buon pastore" veniva considerato segno della filantropia di Dio, il suo amore per l'umanità, rivelata in Cristo.


Roma, catacombe di Priscilla: affresco del “Buon Pastore”

Nel Vangelo di Giovanni c’è scritto: “Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore. Il mercenario invece, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde; egli è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore. E ho altre pecore che non sono di quest'ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore”. (10, 11 – 17)

Gesù vuole far capire che il “Buon pastore” ama tutte le sue pecore come Dio ama tutte le persone.

La parte centrale del brano può essere riassunta nella frase: “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore”. (Gv 10, 14 – 15)
Questa pericope da alcuni studiosi è considerata un’allegoria, oppure una metafora,  ma non una parabola.

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