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Scienza e relativismo
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Karl Raimund Popper (1902 –1994) fu un filosofo ed epistemologo nato in Austria ma vissuto in Inghilterra. Nell’ambito scientifico è noto per aver proposto la falsificabilità come criterio di demarcazione tra scienza e non scienza e per il rifiuto e la critica del metodo induttivo o induzione, dal latino “inductio” (verbo induco, presente di in-ducere) che significa indurre o trarre a sé.
Il metodo induttivo è un procedimento che da singoli casi cerca di stabilire una legge universale. Questo metodo è contrapposto al metodo deduttivo, che, al contrario, procede dall'universale al particolare.
Karl Popper scrisse: “Tutta la nostra conoscenza rimane fallibile, congetturale. Il vecchio ideale scientifico dell’episteme (della conoscenza assolutamente certa, dimostrabile) si è rivelato un idolo, L’esigenza dell’oggettività scientifica rende ineluttabile che ogni asserzione della scienza rimanga necessariamente e per sempre allo stato di tentativo. Non il possesso della conoscenza, della verità irrefutabile, fa l’uomo di scienza, ma la ricerca critica, persistente ed inquieta della verità”.
Il professor Dario Antiseri (filosofo ed epistemologo) dice che tutta la ricerca scientifica, in qualsiasi ambito essa venga praticata,, si risolve in tentativi di soluzione di problemi, tramite la proposta di ipotesi o teorie da sottoporre ai più severi controlli al fine di vedere se esse sono false, cioè sbagliate. Si cerca di dimostrare l’eventuale falsità delle congetture per sostituirle, se possibile, con teorie migliori, più ricche di contenuto esplicativo, nella consapevolezza che non è possibile dimostrare assolutamente vera nessuna teoria.
Se ci confrontiamo con problemi difficili è facile sbagliare, perciò razionale non è l’individuo che vuol avere comunque ragione, ma quello che vuole imparare dai propri errori e da quelli altrui.
Ancora Popper: l’errore commesso, individuato ed eliminato permette di essere meno ignorante. E nello sviluppo della ricerca scientifica, ma non solo, consente di evitare sia il dogmatismo sia l’arbitrio soggettivo, che hanno provocato scontri e guerre in nome di concezioni etiche legate a differenti prospettive religiose, politiche e filosofiche.
E’ ovviamente sbagliato sostenere che tutte le etiche sono uguali. “Ama il prossimo tuo come te stesso” è un principio diverso da “occhio per occhio, dente per dente” e da quello leninista: “la morale è soggetta agli interessi della lotta di classe del proletariato”.
Ci sono spiegazioni scientifiche e valutazioni etiche: non esistono spiegazioni etiche. Dalla scienza non si può estrarre la morale. I principi etici si fondano su scelte di coscienza e non sulla scienza. Il pluralismo di valori induce alla scelta, alla libertà di scegliere e al relativismo, inteso come esito della non fondabilità razionale di qualsiasi principio etico. Invece la presunzione di essere in possesso di “fundamenta” del proprio sistema etico può generare fondamentalisti inquisitori che pretendono di imporre agli altri il “Vero” e il “Bene” platoniani, magari a costo di lacrime e sangue a chi ha idee ed ideali diversi.
Si dice che sia la ragione a far stabilire ciò che è Bene e ciò che è Male. Ma la ragione di chi ?
Scrisse Blaise Pascal: Nulla in base alla ragione è di per sé giusto, tutto muta col tempo”. Con tale affermazione Pascal deve essere considerato un “fideista” perché disprezza la ragione o un razionalista consapevole dei limiti della ragione ?
Per il cristiano solo Dio è assoluto e tutto ciò che è umano è storico, contestabile, perfettibile, non assoluto. E la ragione è come una lanterna, da tenere sempre accesa, necessaria per la correzione dei nostri errori, indispensabile nelle scelte e per scrutare i limiti.
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ll relativismo nega l'esistenza di verità assolute. Se esistono, non sono conoscibili o relativamente conoscibili.
Il relativismo fu sviluppato dall’antica filosofia sofistica greca dalla seconda metà del V secolo a.C.; in seguito posizioni relativiste furono espresse dallo scetticismo antico e moderno, dal criticismo, dall'empirismo e dal pragmatismo.
I seguaci della Sofistica,venivano denominati sofisti. Al centro del loro interesse c’era l’individuo, considerato all’interno di una comunità, caratterizzata da valori etici, religiosi, culturali, ecc..
Di solito i sofisti usavano il loro sapere per insegnare ai figli degli aristocratici e venivano retribuiti.
Fra i sofisti del V sec. a.C. emersero Protagora e Gorgia.
Protagora svolse la sua attività di insegnante girovagando per le città, soggiornando più volte ad Atene.
Come relativista Protagora dice che non esiste una verità oggettiva, perché la conoscenza è condizionata dal soggetto che percepisce e pensa, e non esistono criteri universali che consentano di discriminare la verità e la falsità delle conoscenze soggettive.
Anche la conoscenza è limitata: l’individuo può conoscere solo le cose che diventano oggetto della sua esperienza.
Un altro filosofo considerato fra i maggiori sofisti fu Gorgia (485 a.C. – 375 a. C). Pure per lui la verità non esiste. Tutte le possibilità si equivalgono, perché non sono conoscibili, e con l’arte oratoria si può dimostrare che “tutto è il contrario di tutto”. Ciò che conta è la capacità di argomentare, ma il linguaggio è distaccato dalla verità.
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Nell’antica Grecia la filosofia fu usata anche per superare le spiegazioni mitologico-religiose del cosmo, slegandosi da quest'ultime e promuovendo per la prima volta un pensiero basato su un metodo razionale, poi in gran parte assimilato dalla teologia cristiana medioevale attraverso la filosofia Patristica (che è la filosofia cristiana dei primi secoli elaborata dai cosiddetti “Padri della Chiesa” e dagli scrittori ecclesiastici), in seguito accolta nella filosofia Scolastica, che rappresenta la filosofia della religione cristiana dal IX secolo all’inizio del Rinascimento.
Il termine “scolastica” deriva dal latino "scholasticus" ed indicava il docente che insegnava.
Il carattere fondamentale della filosofia scolastica è l'uso della ragione al servizio della verità di fede, per difenderla dai tentativi di negarla da parte del relativismo e dello scetticismo.
Il termine scetticismo deriva dalla parola greca “sképsis”, che vuol dire "ricerca", "dubbio"; nel verbo sképtesthai significa "esaminare".
Lo scetticismo filosofico venne elaborato e sviluppato in Grecia dal IV secolo a.C. al II secolo d.C..
Lo scettico nega la possibilità di conoscere la verità (=realtà), perché questa è contingente e mutevole, si basa sui sensi, che danno percezioni ingannevoli.
Nell'alto medioevo il primo tentativo di sintesi fra ragione e fede fu quello di Agostino d’Ippona e le sue riflessioni ebbero notevole influenza nell'Occidente cristianizzato, almeno fino al 13/esimo secolo, quando Tommaso d’Aquino giunse ad una più completa conciliazione tra fede e ragione.
Il filosofo e teologo Agostino (354 – 430) vescovo d’Ippona (Algeria), asseriva che chi sostiene l’impossibilità di ogni certezza si contraddice perché ha la certezza che non vi sono certezze. Chi dice di dubitare di tutto si contraddice perché è certo che può dubitare, e quindi che vive e pensa. Il dubbio conduce l’individuo sulla strada della verità, che consente di negare il relativismo, il “diritto d’errore”, che fu stigmatizzato da Agostino d’Ippona come la “peste dell’anima” e la “libertà di perdizione”.
La ricerca della verità è un anelito dell’essere umano, e cercarla suppone un esercizio di autentica libertà, perciò in questo momento penso al Vangelo di Giovanni (cap. 18, versi 37-38), quando Ponzio Pilato rientrò nel pretorio e fece chiamare Gesù per domandargli: “Dunque tu sei re ?” Rispose Gesù: “Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità. […] Gli dice Pilato: “Che cos'è la verità ? “[…]
Ponzio Pilato ironizzò sulla possibilità di poter conoscere la verità, proclamando l’incapacità dell’uomo di raggiungerla o negando che esista una verità per tutti.
"La fede consolida, integra ed illumina il patrimonio di verità che la ragione umana acquisisce”, disse il frate domenicano Tommaso d'Aquino (1225 – 1274) ed il relativismo è “un male morale, un vizio della volontà” che diventa progressivamente incapace di distinguere il vero dal falso e il giusto e dall'ingiusto.
Secondo Tommaso la filosofia consente di approdare ad alcune verità fondamentali, come la conoscenza razionale dell'esistenza di Dio.
Per tutto il periodo medioevale la filosofia venne sviluppata parallelamente con l’evoluzione del pensiero religioso, pur se alcuni autori, come Guglielmo di Ockham, evidenziarono l'esigenza di un'autonomia della filosofia dalla religione e chiesero la separazione della filosofia dalla teologia sottolineando l'impossibilità di comprendere con la ragione i misteri della fede.
Guglielmo di Ockham (1288 – 1349), teologo e filosofo francescano inglese, poi scomunicato, mise in rilievo il problema già sollevato dal filosofo Averroé che assegnava alla filosofia il riflettere e lo speculare e alla religione l'amore per Dio e l'agire di conseguenza, perché il ragionamento spesso non coincide con la fede.
Doxa:
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Il relativismo come concezione filosofica non ammette verità assolute nella conoscenza o principi immutabili nell’etica.
Il relativismo non è una minaccia per la società, al contrario lo è il dogmatismo assolutista, fondamentalista e intollerante.
Nella filosofia moderna il relativismo assunse caratteristiche particolari.
Nell’ambito teologico-metafisico il relativismo venne fatto dipendere dall'insanabile contrasto tra la limitatezza della mente umana e l'infinitezza della verità divina.
Il filosofo e teologo tedesco Nikolaus Krebs von Kues, conosciuto da noi come Nicola Cusano (nome e cognome italianizzati) oppure Niccolò Cusano o Niccolò da Cusa (1401 – 1464), constatò la differenza tra realtà divina e ratio naturalis e nel suo saggio titolato “De docta ignorantia” scrisse: "La verità non ha né gradi, né in più né in meno, e consiste in qualcosa di indivisibile. [...] Perciò l'intelletto, che non è la verità, non riesce mai a comprenderla in maniera tanto precisa da non poterla comprendere in modo più preciso, all'infinito.” (1, 2-10)
In un altro suo elaborato titolato “De conjecturis”, egli affermò il carattere “congetturale” della conoscenza umana. Non potendo conoscere la realtà divina i e l’essenza delle cose possiamo solo formulare delle congetture, delle supposizioni.
Un secolo e mezzo dopo, il filosofo ed ex frate domenicano Giordano Bruno (1548 – 1600) aveva capito che la novità concettuale dell’astronomia copernicana avrebbe coinvolto aree di riflessione apparentemente lontane dalla cosmologia, quali la teologia, 1'epistemologia, i valori morali. Per lui non c’era possibilità di convivenza tra fede e ragione. La strada della fede induce a rinunciare "a cogliere il frutto dell'albero della scienza."
Nella storiografia è interessante il relativismo espresso dallo storico e politico italiano Francesco Guicciardini (1483 – 1540). Ne “I ricordi politici e civili” pubblicato nel 1530 e nella “Storia d’Italia”, pubblicata postuma nel 1561, rifiuta il tentativo di Niccolò Machiavelli di sintetizzare la realtà tramite principi unici ed assoluti. Per Guicciardini è necessario considerare ogni singola situazione in funzione del contesto nel quale essa si determina. Perciò è necessario spostare l’attenzione dall’universale al cosiddetto “particolare”: Nei “Ricordi” ha scritto:“È grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola; perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione per la varietà delle circunstanze, le quali non si possono fermare con una medesima misura; e queste distinzione e eccezione non si truovano scritte in su' libri, ma bisogna le insegni la discrezione.”
Da un punto di vista psicologico il relativismo è considerato (Montaigne, Hume) una conseguenza della natura umana, incapace di andare oltre i propri limiti, le proprie inclinazioni e abitudini personali e sociali.
il filosofo e politico francese Michel Eyquem de Montaigne (1533 – 1592), considerato il precursore del relativismo antropologico, nel suo saggio titolato “Dei cannibali” (motivato dalla visita, nel 1563, al re di Francia Carlo IX di tre indigeni delle Antille appartenenti ad una tribù cannibale), evidenzia la relatività del concetto di “barbarie”, che è sempre in rapporto al proprio modo di vivere, considerato come parametro per giudizi . Montaigne dice che “Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi: "sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo.” “Civiltà” e “barbarie” sono quindi concetti relativi, che possono essere facilmente capovolti l’uno nell’altro.
Il filosofo e storico scozzese David Hume (1711 – 1776) si chiede a cosa serve pensare se l'oggettività non esiste. Sostenere che "ogni cosa che è potrebbe anche non essere", può esser valido quando si fanno delle ipotesi o quando si criticano aspetti ritenuti negativi. Nel mondo, osservò Hume, niente è uniforme, perciò non prevedibile. Le proposizioni descrittive che parlano di fatti si possono logicamente dedurre soltanto altre proposizioni descrittive e non mai proposizioni normative,
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Fra i fautori del moderno relativismo ci furono Friedrich Schiller, Ralp Waldo Emerson, Friedrich Nietzsche, Oswald Spengler e Ludwig Wittgeinstein.
Il filosofo e scrittore tedesco Johann Christoph Friedrich von Schiller (1759-1805), meglio conosciuto in Italia come Friedrich Schiller, nega ogni verità "assoluta" o "razionale": la verità è sempre relativa all'uomo, valida perché utile a lui.
Il filosofo statunitense Ralph Waldo Emerson (1803 – 1882) propose un’etica individuale basata su una singolare combinazione di relativismo e perfezionismo (che lo avvicina alla tradizione stoica e alle radici puritane della cultura americana). L'asse portante del suo pensiero fu la definizione di "Superanima", descritta come una forza superiore che vigila e interviene sulla realtà e sull’intelletto degli individui.
E’ del filosofo tedesco Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844 – 1900) la celebre frase relativista: "Non esistono fatti ma solo interpretazioni dei fatti” da parte degli individui.
Nietzsche con la sua affermazione si allontana dalla verità di tipo trascendente, e non poteva essere diversamente per questo filosofo che diceva “Dio è morto”. Abolita la trascendenza e l’orizzonte della metafisica, per lui la verità diventa una costruzione dell’Uomo.
E’ tedesco anche il filosofo e storico Oswald Spengler (1880 – 1936), il quale scrisse il noto libro “Il tramonto dell’Occidente”, nel quale afferma la relatività dei valori in rapporto alle epoche storiche. “Ogni cultura ha il suo proprio criterio, la cui validità comincia e finisce con esso. E per quanto riguarda l’etica egli crede che non ci sia alcuna morale universale.
Il filosofo austriaco Ludwig Josef Johann Wittgenstein (1889 – 1951) sosteneva che la realtà viene filtrata dalla percezione umana, limitata ed imperfetta, perciò ogni conoscenza è relativa.
Wittgenstein nel suo libro “Ricerche filosofiche” espone la sua tesi: ogni “universo linguistico”, quale è quello delle culture o delle civiltà, ha le proprie regole di costruzione, significazione e decisione. Il vero, il bello, il buono in una cultura sono tali secondo i criteri con cui li si definisce in quella cultura.
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