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Doxa:
Peccato e colpa

C’è differenza tra peccato e colpa ? Si, c’è !

Peccato: è la trasgressione di un precetto religioso, di una regola; induce il peccatore a pentirsi e a “consegnare” il male da lui compiuto alla misericordia divina, recitando preghiere e  l’atto di dolore. Se il peccato è una mancanza contro Dio ed un individuo non crede in Dio, ovviamente  per lui non è peccato.

Colpa: deriva dall’azione contraria alle norme o leggi vigenti, dal comportamento negligente od imprudente che causa danni agli altri. In ogni società c'è consenso diffuso circa le azioni che rendono colpevoli. Per esempio è colpevole chi ruba.

Differenza tra “senso del peccato” e “senso di colpa”. 

Il “senso del peccato” è attinente con la religiosità, con la teologia, riguarda il rapporto tra l’individuo e Dio.

Il “senso di colpa” è connesso con la psicologia, con l’Io, la personalità.  Suscita un’emozione endogena e la cosiddetta coscienza segnala un disagio, rimprovera se s’infrange il codice morale, che è in continua formazione fin dalla prima infanzia, e  “perseguita” fino a quando non ci attiviamo per rimediare con un gesto riparatore.

Collegare il senso del peccato al senso di colpa  è fuorviante, perché induce a pensare che sia peccato solo ciò che fa sentire in colpa.

Comunque peccato e colpa causano malessere se il proprio comportamento non corrisponde a quello dovuto o desiderato (ideale dell’Io). Allora si ricorre all’aiuto del confessore o del psicoterapeuta per liberarsi dal rimorso di azioni compiute nel passato e riportate o mantenute nella coscienza. Sono azioni che generano auto-rimprovero, auto-accusa, rimorso. Se prevale l’ossessione l’individuo tende a fissarsi nel ricordo del misfatto e nei suoi particolari. Pensa  a come avrebbe dovuto agire per non sentirsi in colpa né peccatore.  Se le proprie colpe vengono ingigantite si possono subire patologie psichiche.

Doxa:
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Per la Chiesa cattolica il peccato è una trasgressione alla “Legge di Dio” e verso il prossimo. 

La Chiesa distingue i peccati secondo il loro oggetto e li valuta secondo la loro gravità, per esempio un omicidio è più grave di un furto.   

Il peccato lo considera mortale se l’individuo disobbedisce i “Dieci comandamenti”, lo reputa veniale se la persona trasgredisce la biblica legge morale, che distingue il bene dal male.

Dal punto di vista laico la  legge morale è una regola di comportamento emanata dall'autorità competente per il bene comune. Viene appresa dal’individuo attraverso l’educazione valoriale e normativa da parte dei genitori  e di altre agenzie sociali.

La legge morale interiorizzata diventa coscienza morale, la “voce interiore” che esorta ed incoraggia, rimprovera ed accusa, approva e loda.

La coscienza morale presuppone una legge morale assoluta, la “verità” espressa da Dio, dalla quale  il soggetto attinge il proprio giudizio morale, l’imperativo etico che lo  “illumina” nelle scelte.   
 
Dal punto di vista psicologico la coscienza è la consapevolezza di sé (ho coscienza di me stesso, delle mie emozioni, sentimenti, pensieri, ecc.). Viene considerata “morale” quando l’individuo ha “costruito” dentro di essa un sistema di valori e di norme di riferimento che gli permettono di avere la soddisfazione per il bene compiuto ed il rimorso  se fa del male.   Infatti si usa dire: “liberarsi la coscienza da un peso”,  “avere la coscienza a posto”, “agire secondo coscienza”, “avere scrupoli di coscienza”, “avere la coscienza sporca”.

Dalla coscienza morale scaturisce il “senso del peccato”, detto anche “sentimento del peccato”  ed il “senso di colpa” o “sentimento di colpa”.

Il senso di colpa: deriva dal conflitto tra una pulsione e le esigenze dell'istanza morale. Si sviluppa con gradualità ed è condizionato da diversi fattori.

E' normale il sentimento di colpa provato da una persona che si considera (in modo cosciente e libero) l'autore o il complice di un'azione riprovevole. E’ invece patologico se non corrisponde alla reale colpa,  che può essere per eccesso ( se il soggetto si sente più colpevole di quanto lo sia in realtà) o per difetto (se nel soggetto manca o è scarso il sentimento di colpa per un reato rilevante).  La distinzione tra “normale”  e “patologico” è riferita solo al senso di colpa e non alla colpevolezza o alla coscienza morale.

Il sentimento di colpa è simile a quello della paura: ha una funzione difensiva. Il disagio  induce l’individuo a liberarsi dal male interiore tramite la confessione dal sacerdote o dallo psicoterapeuta.

Doxa:
Solitudine

Il  giovane poeta britannico Rupert Brooke (1887 – 1915) raccontò che sulla nave in partenza dall’Inghilterra verso l’America  fu coinvolto  da uno stato d’animo di profonda solitudine e tristezza vedendo gli altri viaggiatori  accompagnati da parenti ed amici che li salutavano, li abbracciavano, li baciavano, lui invece era solo, non c’era nessuno a mostrargli  che avrebbe sofferto la sua assenza.
Lo scrittore dice che c’era gente che sorrideva e gente che piangeva, c’era chi sventolava un fazzoletto bianco e chi agitava il cappello di paglia.  Allora lui pur di avere un commiato personale  offrì  6 scellini ad un ragazzo che era sul molo. Questo  acconsenti con entusiasmo e mentre la nave lasciava il porto salutava Brooke sventolando la sua bandana rossa.

L’intensità della sofferenza causata dalla solitudine può indurre a cercare rimedi a volte paradossali pur di attenuare il dolore.

Madre Teresa di Calcutta, che dedicò la propria vita al servizio dei poveri e dei malati,  disse che il sentirsi “trascurati, non desiderati, abbandonati e soli” causa molta sofferenza, a volte più dolore di una grave malattia.

La psicologa sociale Maria Miceli nel suo libro “Sentirsi soli” afferma che l’esperienza della solitudine, in forme e misure variabili, è  molto diffusa.

Se la propria infanzia è stata povera di affetti e di rapporti significativi, lascia dentro un vuoto incolmabile, dà la sensazione di essere emarginati, fa sentire estranei all’ambiente sociale in cui si vive, diversi ed incompresi se si hanno interessi e valori che gli altri non condividono.

Se l’individuo è aggressivo e competitivo gli altri lo evitano; se è timido ha difficoltà a comunicare ed aprirsi all’amicizia e gli altri lo ignorano. Se pensa di essere poco attraente o interessante,cerca di evitare gli altri per timore del loro giudizio.
 
Le ricerche di psicologia sociale evidenziano che la solitudine  “colpisce” persone di ogni età e di ogni condizione sociale, anche se con modalità diverse.

Il portoghese José Saramago (1922 – 2010) nel suo libro “L’anno della morte di Ricardo Reis” scrisse che  “La solitudine non è vivere da soli, la solitudine è il non essere capaci di fare compagnia a qualcuno o a qualcosa che sta dentro di noi, la solitudine non è un albero in mezzo a una pianura dove ci sia solo lui, è la distanza tra la linfa profonda e la corteccia, tra la foglia e la radice.”

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Paolo Giordano nel suo romanzo titolato “La solitudine dei numeri primi” narra le vite parallele di Alice e Mattia attraverso le vicende spesso dolorose che segnano la loro infanzia, l'adolescenza e l'età adulta. Dal romanzo è stata tratta la sceneggiatura per l’omonimo film.  La trama fa riflettere sul problema  dell’isolamento e della solitudine.

L’isolamento può essere volontario ed involontario.

L’isolamento volontario di solito è di breve durata. Serve per riflettere, decidere, far maturare la propria creatività, per necessità psicofisica, ma poi si torna fra gli altri, agli affetti, alle amicizie. In questo caso isolamento non significa solitudine.

L’isolamento volontario, lo stare in disparte, può anche dipendere dalla scelta del soggetto per non essere deriso, schernito (si pensi all’omofobia tra gli adolescenti), per non soffrire evita il più possibile i contatti sociali.   E’ un ritiro per l’incapacità o l’impossibilità di rapportarsi, di confrontarsi con l'altro che parla, che giudica. E’ una solitudine che deriva dalla percezione degli altri come ostili o indifferenti ed il soggetto si rifugia nella propria individualità.

Invece l’isolamento involontario se prolungato nel tempo è disperante, specie in occasione delle festività o particolari ricorrenze. Questo tipo di isolamento corrisponde alla solitudine sociale, che viene subìta, fa patire l’assenza di amicizie, soddisfacenti rapporti interpersonali.

Il cardinale Gianfranco Ravasi  nel suo “Breviario” che viene pubblicato sul domenicale de “Il Sole 24 Ore (30 giugno 2013) ha scritto: "Quand'ero giovane prete, studente a Roma, mi recavo a visitare gli infermi di una parrocchia di Torpignattara. C'era un anziano che mi accoglieva con gioia, mi preparava il caffé, mi tratteneva il più possibile. Quando dovetti salutarlo per l'ultima volta perché ritornavo a Milano, mi disse: 'Lei non sa cosa vuol dire non attendere più nessuno.' "  E' questo un esempio di drammatica solitudine sociale.

Ma per solitudine non s’intende soltanto chi è privo di compagnia. Si può soffrire di solitudine, "sentirsi solo",  indipendentemente dalle circostanze esterne. E’ solitudine di tipo psicologico e si manifesta con diverse modalità.   Si può soffrire di solitudine nell’ambito lavorativo, in famiglia o nel rapporto di coppia.

Se la comunicazione  tra coniugi diventa esigua, se si dialoga solo per parlare del menage quotidiano, l'intimità lascia il posto all'incomprensione, alla delusione.

La solitudine può anche scaturire dalla paura di amare, si teme l’abbandono e subentra la riluttanza a rischiare.

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Sigmund Freud: "C’è una storia dietro ogni persona. C’è una ragione per cui loro sono quel che sono. Loro non sono così solo perché lo vogliono. Qualcosa nel passato li ha resi tali e alcune volte è impossibile cambiarli."

La  solitudine esistenziale o psicologica consente di avere coscienza della propria personalità, mette l’anima di fronte a se stessa dice la  poetessa statunitense Emily Elizabeth Dickinson (1830 – 1886) nella sua poesia titolata “Solitudine”:

Ha una solitudine lo spazio

solitudine il mare

solitudine la morte, ma tutte queste

saranno moltitudine

a paragone di quel più profondo luogo

quella polare intimità

di un’anima di fronte a se stessa,

finita infinità.

La Dickinson si auto-infliggeva l’isolamento, come il nick Francesco, che in un forum di psicologia ha scritto di sentirsi solo e triste “perchè ho allontanato tutti, ho paura degli altri,  temo i rapporti interpersonali.”

Il nick Maria gli domanda: “Cosa ti spaventa di un rapporto interpersonale ?”

Francesco le dice “il bambino che c'è in me è ferito ed ho paura di farlo sapere agli altri, temo che  gli altri se ne approfittino; mi spaventa far vedere le mie debolezze.”

Maria gli risponde: “E' una situazione che comprendo.Ma non  tutte le persone approfitterebbero di quelle che definisci debolezze. Aprendoti agli altri potresti invece  incontrare chi le comprende e/o potrebbe darti un sollievo psicologico.
Farci vedere per ciò che siamo veramente è un rischio ma non si può rimanere sempre nel proprio   guscio sicuro, finisce per svuotarci l'anima.  Agli altri può sembrare una scelta l'isolamento, mentre invece  si desidera molto avere qualcuno con cui condividere parte di noi stessi.

Ma che cosa potrebbe accadere di così terribile se ci esponessimo? S’immaginano conseguenze catastrofiche, invece, a volte,  potremmo riceverne un beneficio. 
 
Purtroppo viviamo in una società in cui  è necessaria la prudenza nei rapporti interpersonali  e a volte si teme di raccontare i  propri problemi come se fossero qualcosa che ci sminuisce, che ci  fa dipendere dagli altri (che devono tenersi alla larga). E' difficile pertanto trovare qualcuno disposto all'ascolto, al dialogo, alla comprensione, soprattutto se si ha così paura di esporsi.

Di solito chi per vari motivi soffre di solitudine od è un solitario ha scarse possibilità di fare esperienze e si affeziona molto alla prima persona con la quale instaura un legame di amicizia.”

Chi è solo si sente inutile, invisibile.

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