Autore Topic: Penitenza  (Letto 945 volte)

Doxa

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Penitenza
« il: Marzo 13, 2021, 22:12:45 »
Dopo la risurrezione, Gesù la sera di Pasqua trasmise agli apostoli il potere di rimettere i peccati:

“La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: ‘Pace a voi!’. Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: ‘Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi’. Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: ‘Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi’ “ (Gv 20, 19 – 23). 

Gli apostoli esercitarono il potere di perdonare i peccati ma non si sa in che modo.

Gli storici del cristianesimo affermano l’esistenza del sacramento della penitenza fin dalle origini della Chiesa, che non negava il perdono e la riconciliazione ai cristiani peccatori veramente pentiti.

I precedenti sono nell’Antico Testamento, nell'alleanza  tra Dio al suo popolo, che ha fede in lui.

Nel libro dei Numeri (15, 22-31) si fa una distinzione tra i peccati.

Ci sono peccati commessi per superbia, per ribellione, che infrangono l'alleanza  dell’individuo con Dio e lo distaccano dal popolo; il colpevole non ha più diritto di essere nella comunità e  viene condannato, a prescindere dal giudizio di Dio. Se il colpevole si pente può ottenere il perdono divino.

Ci sono  anche “peccati minori”, che  possono essere perdonati  col rito dell’espiazione.
 

Nel Nuovo Testamento,  con Gesù si pone la nuova alleanza, c’è l’invito alla fede e alla conversione, attuata nel battesimo. 

Alcuni  antichi testi menzionano la prassi dell‘exomologesi, la confessione dei peccati da parte del penitente e la sua professione di fede.
 
La penitenza nella comunità cristiana del I secolo.

Paolo di Tarso (2 Tess 3,6-15)  afferma che bisogna tenersi lontani dai fratelli peccatori e oziosi; 

nella prima lettera ai Corinti (1 Cor 1-13) prescrive alla comunità  cristiana di scomunicare  chi  convive con la matrigna.

Ancora Paolo (2 Cor 2, 5- 11 e 1 Tim 5,20), accenna alla scomunica ecclesiale.

Come agiva la Chiesa nei confronti di coloro che  commettevano colpe dopo aver ricevuto il battesimo?  Aderiva al Vangelo di Matteo (18, 15 – 18) ? :“Se il tuo fratello commette una colpa, va' e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello;  se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all'assemblea; e se non ascolterà neanche l'assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano. In verità vi dico: tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo”.

Nel Nuovo Testamento i passi che riguardano le modalità della remissione dei peccati dopo il battesimo evidenziano:
il pentimento, la riconciliazione, la preghiera, la partecipazione all'eucarestia, che è memoriale dell’ultima cena di Gesù con gli apostoli durante la quale simbolicamente  il suo corpo e il suo sangue sono dati per la remissione dei peccati.

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« Ultima modifica: Marzo 13, 2021, 22:17:34 da Doxa »

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Re:Penitenza
« Risposta #1 il: Marzo 14, 2021, 14:34:50 »
Nel III secolo Tertulliano e Cipriano contribuirono all’elaborazione della dottrina penitenziale e del perdono nella Chiesa occidentale. 

Il filosofo e apologeta cristiano Tertulliano (155 circa – 230 circa) scrisse numerosi libri, fra i quali il “De paenitentia”, in cui dice che la penitenza è quella che si rivolge ai peccati, che possono essere materiali e spirituali, ed esorta il  credente a non ricadere nella colpa dopo il perdono.

Il vescovo di Cartagine, Cipriano (210 circa – 258) nella sua dottrina sulla penitenza  scrisse che  l’assoluzione impartita dal vescovo al peccatore non impedisce a Dio di perdonare l’individuo sinceramente pentito (Laps. 17; Ep. 55, 18, 1).

In quel tempo due furono gli eventi che  indussero a precisare le modalità  della penitenza: la controversia montanista, riguardante  la riconciliazione per i peccati di adulterio e di fornicazione, e  i problemi suscitati dai cristiani accusati di apostasia religiosa (l’abbandono della propria religione per seguirne un’altra), conseguente alle persecuzioni anticristiane volute dagli imperatori Decio nel 250 e da Valeriano nel 257.

Il “montanismo” fu un movimento religioso nato nel II secolo nella Frigia, regione dell’Anatolia (Turchia),  poi  si espanse rapidamente nell’impero romano e sopravvisse fino all’VIII secolo.

Il nome deriva da quello del suo fondatore, Montano, un teologo vissuto nel II secolo.

Secondo  san Girolamo prima di convertirsi al  cristianesimo Montano era un sacerdote del  culto alla dea  Cibele.

Dopo la sua conversione al cristianesimo,  Montano nel 156 circa  iniziò  la sua predicazione itinerante, accompagnato da due profetesse, Massimilla e Priscilla.

I tre sostenevano di parlare in nome dello Spirito Santo, di avere visioni profetiche, anche sul ritorno di Cristo.

Dovunque andassero i tre imbroglioni parlavano “posseduti da visioni  mistiche” ed esortavano i seguaci a pregare e digiunare. 

All’inizio l’ecclesia cristiana non si oppose a quel movimento religioso poi ci furono divergenze tra montanisti e cattolici e il montanismo venne condannato per eresia.

Per un periodo di tempo fu “montanista” anche il filosofo e apologista cartaginese Tertulliano.  Nel 193 aderì alla fede cristiana. Nel 197 circa dette inizio alla sua vasta produzione letteraria. Verso il 207 cominciò a simpatizzare per il montanismo. Nel 213 si distaccò dalla Chiesa istituzionale, successivamente si separò anche dai montanisti e fondò la sua setta, detta dei “tertullianisti”, che si estinse nel V secolo.

Nel “De pudicitia”, scritto nel suo periodo montanista,  polemizza con un vescovo cattolico che aveva proclamato la remissione dei peccati di adulterio e fornicazione commessi dopo il battesimo a chi si pentiva e si sottoponeva alla pubblica penitenza. Secondo Tertulliano il cristiano che aveva ricevuto il battesimo non doveva avere la possibilità di riconciliarsi con Dio nei casi di omicidio, adulterio, e apostasia.

Il battesimo veniva inficiato da qualsiasi peccato, ma quei tre  peccati erano considerati di particolare gravità e imperdonabili ed escludeva  l'individuo  dalla comunità cristiana, veniva considerato un pagano. Se voleva ritornare a far parte della comunità doveva ricominciare il lungo percorso iniziatico che veniva impartito a chi da adulto si convertiva al cristianesimo.

Con il passare dei secoli  la Chiesa ammise, per i soli laici, una seconda riconciliazione e successivamente in casi particolari, una terza, ma  il penitente veniva considerato come un pagano che chiedeva il battesimo per poi beneficiare della riconciliazione con Dio. Egli confessava il suo peccato al vescovo in privato, ma era tenuto a fare richiesta di penitenza pubblicamente.

Nel primo capitolo  del "De paenitentia” il  misogino Tertulliano  manifesta il suo livore nei confronti dei cattolici che disprezzano la pudicizia, permettono le seconde nozze e “favoriscono” i peccati di libidine”, la “fornicazione”, in lingua greca “pornéia”,   per significare  “immoralità sessuale”, adulterio, matrimonio illecito; in ebraico “zenût”, in riferimento  alla prostituzione o ai rapporti incestuosi.

Nel Vangelo di Matteo la pornéia indica il concubinato, le unioni illegittime , condannate già dal libro biblico del Levitico (18,8;20,11) e da Paolo di Tarso nella prima lettera ai Corinzi (1Corinzi 5,1).

Nel Vangelo di Matteo vedi 5, 32;  19, 3 – 7; 19, 9); nel Vangelo di Marco: 10, 9 – 12).

Dalla religione all’imperium.

Gli imperatori Decio e Valeriano emisero degli editti che ordinavano a tutti i cittadini dell’impero romano di offrire un sacrificio pubblico agli dei pagani. Questa formalità equivaleva alla testimonianza di lealtà all’imperatore e all’ordine costituito. Chi si rifiutava di obbedire all’editto imperiale veniva punito, a seconda dei casi, con la confisca dei beni, i lavori forzati, l’esilio,  l’arresto, la tortura, in alcuni casi la morte.

Ci furono cristiani battezzati  che non vollero  abiurare la loro religione e preferirono anche il martirio, altri, per salvarsi, abiurarono e compirono gli atti di adorazione verso gli dei pagani, ma per dispregio furono indicati dagli altri cristiani con l’epiteto di “lapsi” (= scivolati), usato nel III e IV secolo.

Passato il pericolo, molti chiesero di tornare a far parte della comunità cristiana, ma furono considerati scomunicati, perché non ebbero il coraggio di manifestare la loro fede.

Alcuni eventi possono essere ricostruiti  con le numerose fonti cristiane disponibili (Cipriano, Eusebio, Atti dei Martiri).

Decio (201 – 251) fu imperatore per due anni, dal 249 fino alla morte avvenuta in battaglia. Durante il suo  breve regno cercò di risollevare le sorti dell’impero affidandosi al ripristino della tradizione pagana.  Un elemento fondamentale della sua volontà di restaurazione fu la politica religiosa: con un decreto estese a tutte le province dell’impero l’obbligo per i cittadini  del sacrificio propiziatorio (“supplicatio”) agli dei dello Stato; in cambio i cittadini  avrebbero ricevuto un libellus, una sorta di certificato attestante l'espletamento del sacrificio ordinato.  L’editto era destinato a tutti, non esplicitamente ai cristiani, ma fu anticristiano nell’attuazione della legge.

Chi si rifiutava di sacrificare oppure esitava, poteva subìre  il carcere, la confisca dei beni, l’ esilio, i lavori forzati, la tortura, ed eventualmente la pena di morte, ma in pratica di tali sanzioni e pene quelle maggiormente applicate furono la confisca dei beni e  la prigione.

Nelle città come Alessandria d’Egitto, Cartagine, Smirne e Roma, molti cristiani apostati (ripudiarono il loro credo religioso cristiano) per salvare i propri beni e la vita furono qualificati come "lapsi": in  tanti offersero agli dei sacrifici  richiesti, altri invece, senza offrire sacrifici, seppero fare in modo, sia con l'astuzia, sia con la corruzione, di procurarsi dalle autorità il prescritto certificato di sacrificio compiuto ("libellus") con la conseguente registrazione nelle liste ufficiali.

Invece l’imperatore Valeriano (200 circa – 260), che regnò dal 253 al 260,  nel  257  promulgò un  editto che imponeva a vescovi, preti e diaconi di sacrificare agli dei, pena l'esilio, e proibì inoltre ai cristiani le assemblee di culto.

Un secondo editto nel 258 inasprì le pene per chi rifiutava il sacrificio  agli dei pagani e aggiunse la confisca dei beni per i senatori e cavalieri, con un provvedimento destinato soprattutto a rimpinguare le casse statali. 

Dopo la morte di Valeriano nel 260, fu nominato imperatore Gallieno, il quale  concesse a tutti di rientrare dall'esilio e restituì alle chiese i loro beni.

In Nord Africa  le persecuzioni della metà del  III secolo spezzarono l’unità delle comunità cristiane dell'area. I concili tenuti a  Cartagine  discussero fino a che punto le comunità dovevano accettare il ritorno dei fedeli che avevano  abiurato.
« Ultima modifica: Marzo 14, 2021, 17:30:22 da Doxa »

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Re:Penitenza
« Risposta #2 il: Marzo 14, 2021, 16:37:16 »
I  cristiani devono confessare i loro peccati, in primis quelli “mortali”, per avere il perdono divino tramite la mediazione del sacerdote-penitenziere, rappresentante della Chiesa cattolica, che è anche “agenzia etica”.

Noi conosciamo il confessionale come luogo tradizionale dove dal XVI secolo il sacerdote confessa e commina la penitenza “redentrice”, ma per questo sacramento  va bene qualsiasi posto.

Il confessionale è  nel contempo “tribunale” e luogo di consolazione, di speranza per il credente di ricevere la “misericordia di Dio”, il perdono dopo la penitenza, ma questa, nella storia millenaria della Chiesa è cambiata numerose volte.

Gli storici del cristianesimo confermano l’esistenza del sacramento della penitenza fin dalle origini della Chiesa, che non negava il perdono e la riconciliazione ai cristiani peccatori veramente pentiti, anche se colpevoli dei tre peccati capitali: omicidio, adulterio, apostasia della fede.

Nella Chiesa antica per i cristiani battezzati era importante la possibilità della penitenza per i peccati commessi, ma era connessa con modalità "risarcitorie" spesso disumane. 

Nel “De Paenitentia” Tertulliano  indica l‘esigenza della penitenza e il pericolo rappresentato dall‘atteggiamento che induce molti, per timore, a non confessarsi.

Secondo questo filosofo si deve avere pudore prima di esporsi al  peccato.
Dopo aver peccato non si deve avere vergogna di liberarsi dalla colpa tramite la confessione ed ottenere la riconciliazione con Dio.

Tertulliano nel suo trattato descrive  la procedura penitenziale nella Chiesa del suo tempo.

“Fare penitenza” significava convertirsi e non peccare più. Come il battesimo è unico anche la penitenza non poteva essere reiterata. Questo principio fu formulato definitivamente all’inizio del III secolo da Tertulliano come rimedio al peccato commesso.

Il principio della non reiterabilità condizionò il sistema penitenziale antico fino al VI secolo.

La confessione era privata, ascoltata soltanto dal vescovo (o da un sacerdote incaricato) ma il percorso penitenziale era pubblico. Cominciava nella comunità ecclesiale alla presenza dei fedeli, riuniti durante un rito liturgico presieduto dal vescovo, il quale non alludeva al peccato che in privato gli era stato in precedenza rivelato dal peccatore. Il vescovo comminava pubblicamente  la penitenza canonica e l’adeguata espiazione.

Il vescovo accoglieva il peccatore tra le schiere dei penitenti, imponendogli le mani sul capo (chirotonia) e gli dava il cilicio. Al termine della cerimonia il penitente veniva simbolicamente espulso dalla Chiesa per manifestare l’interdizione di accostarsi all’eucarestia fino al giorno della riconciliazione.

Penitenza canonica

Lo stato di penitente comportava l’umiliazione  di dover partecipare alla celebrazione eucaristica fuori dalla chiesa, oppure assistere alla Messa dall'ingresso nella chiesa, prima dell'entrata nella navata, se aveva il permesso di potersi sedere, gli spettava l'ultimo posto in fondo, che corrisponde all'inizio della navata entrando in chiesa.

Il peccatore escluso dalla comunione, doveva mantenere a lungo la posizione genuflessa; il suo aspetto esteriore doveva essere dimesso, non pulito, vestito con stoffa ruvida e grezza, il saio dei penitenti. Questo “sacco” veniva indossato in segno di contrizione; un cordone, detto cingolo, veniva usato al posto della cinta.

Le pene consistevano in mortificazioni corporali più o meno dure che solitamente coincidevano con il digiuno, inteso come rinuncia ad alcuni cibi. Il penitente si nutriva di pane ed acqua solo nei casi più gravi, mangiava legumi, formaggi, si  doveva astenere dal mangiare la carne e bere il vino.

La repressione penitenziale serviva per rendere il peccatore consapevole delle conseguenze del suo peccato e la necessità della conversione.

L’actio paenitentiae poteva  durare mesi o di anni, in base al giudizio del vescovo, che considerava la gravità delle colpe e dell’impegno del peccatore nel “cammino di conversione”.

Nel IV secolo vennero aggiunti altri obblighi penitenziali:  durante la Quaresima i penitenti dovevano ricevere l’imposizione delle mani dal presbitero; nei giorni festivi avevano l’obbligo di pregare in ginocchio; in occasione dei funerali dovevano trasferire i defunti in chiesa e poi dar loro sepoltura.

Furono introdotti anche gli interdetti che gravavano sul penitente non solo durante il tempo di espiazione, ma anche dopo la riconciliazione, condizionandone l’intera esistenza: gli veniva proibito il servizio militare, di avere cariche pubbliche, di svolgere attività commerciali, di adire ai tribunali civili, di ricevere gli ordini sacri. Al penitente sposato era vietata l’attività sessuale col coniuge; al penitente vedovo era impedito di contrarre un nuovo matrimonio; il penitente celibe non poteva sposarsi né prima né dopo la riconciliazione e il suo stato esigeva la castità totale.

Il paradosso: il peccatore voleva convertirsi ma la sua vita non poteva cambiare, perché egli restava per sempre penitente, anche dopo il perdono ricevuto. Ciò significava la “morte” civile e sociale per il peccatore e la rottura del matrimonio. Chi non ce la faceva e abbandonava la penitenza veniva considerato un apostata, come tale subiva la scomunica perpetua.

Quel violento, disumano regime di penitenza
non era usato dalle comunità cristiane in Gran Bretagna e in Irlanda. Esse elaborarono una modalità che prevedeva la penitenza privata ripetibile, anziché la penitenza possibile solo una volta nella vita dopo il battesimo; fu data ai penitenti l’opportunità di ricorrere al sacramento della penitenza quando la ritenevano necessaria dopo l’esame di coscienza.

In privato il peccatore poteva confessare le proprie colpe al sacerdote e non più al vescovo.

Quel diverso sistema penitenziale e è descritto nei  “Libri penitenziali” che servivano da guida all’azione dei penitenzieri. Sono testi che contengono la classificazione delle colpe cui corrispondono le penitenze da imporre, “le tariffe”, la “penitenza tariffata”, che si concretizzava con digiuni, preghiere, con offerte in denaro od altro.

Doxa

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Re:Penitenza
« Risposta #3 il: Marzo 14, 2021, 17:43:03 »
La Chiesa col passar del tempo ebbe la necessità di articolare meglio il peccato e la penitenza per maggior beneficio spirituale del peccatore. Inoltre, non in tutte le zone era in uso la penitenza canonica.

Dall'Irlanda, uno dei centri di maggior importanza del Cristianesimo, si propagò nel resto d'Europa la visione di un Dio più amorevole e un maggior discernimento nel valutare il peccato e le sue conseguenze.

La Chiesa divise i peccati in categorie, alle quali venivano assegnate penitenze specifiche. Questo nuovo tipo di penitenza venne detta "penitenza tariffata" poiché ogni peccato contraeva un debito verso Dio che andava pagato secondo un "prezzo" o "tariffa" penitenziale stabilito o quantomeno indicato a priori. La pratica mirava anche ad uniformare il trattamento per i fedeli evitando che per lo stesso peccato qualcuno espiasse di più e qualcuno di meno, nonché a educare i sacerdoti nella gestione delle anime.

Le "tariffe penitenziali" venivano raccolte, come già detto,  nei cosiddetti "Libri Penitenziali", che ebbero la massima diffusione dal VII al IX secolo.

Nei penitenziali  c’è la sanzione per qualsiasi peccato, spesso distinguendo la durata della pena non solo in base alla gravità della colpa, ma anche in rapporto allo stato di salute e socio-economico del peccatore, come attesta il “Paenitentiale” del monaco missionario ed evangelizzatore irlandese Colombano (540 circa - 615) che fondò numerosi monasteri e chiese in Europa, fra i quali il complesso monastico di Bobbio (prov. di Piacenza) nel quale morì.

Con il suo penitenziale introdusse l’uso della confessione privata in sostituzione del pubblico rituale per il sacramento della penitenza. Tra il VII e l’VIII secolo questo sistema venne diffuso in Europa, dando al regime penitenziale antico ciò che gli mancava: la ripetibilità della penitenza anziché l’unicità, la segretezza del procedimento penitenziale in sostituzione della dimensione pubblica, la liberazione dalle tasse penitenziali dopo averle pagate al posto della gravosità degli interdetti, che rimanevano attivi anche dopo la riconciliazione. Il peccatore confessava al sacerdote e non al vescovo, espiava in privato, e ri-espiava tante volte quante aveva peccato, così come è in uso ancora oggi.

Il dato costante che emerge dai testi è l’onerosità e la lunghezza dei digiuni, che venivano imposti per giorni, mesi o addirittura anni, tali da renderli insostenibili. Per paradosso, il nuovo sistema garantiva l’accessibilità della penitenza a tutti, ma era impraticabile.

I “penitenziali” contenevano liste di commutazioni per consentire al peccatore di “riscattare” il proprio digiuno, per esempio facendolo compiere ad un altro in cambio di denaro, donazioni di terre o celebrazioni di messe. Da questo paradosso scaturì l’inevitabile disparità di trattamento tra peccatori ricchi e peccatori poveri.

Ad ogni peccato corrispondeva una tassa precisa da pagare con digiuni e preghiere. Il confessore imponeva al penitente le “tariffe”; il peccatore eseguiva la penitenza che gli veniva comminata. Dopo l'esecuzione tornava dal confessore per avere l'assoluzione, il perdono.

Quest’uso si affermò dal IX secolo ma suscitò reazioni contrastanti. Anche il metodo dei penitenziali evidenziò problemi. L'autorità della Chiesa era frammentata nei luoghi distanti da Roma e i libri penitenziali avevano indicazioni spesso diverse tra loro e a volte arbitrarie. Già il Concilio di Reims e di Chalon-sur-Saône, nell'813 impose di bruciare i vecchi penitenziali e redigerne di nuovi, con maggior coerenza e maggior buonsenso.

Quei libri rendevano il pentimento un atto meccanico che incentivava più il senso di colpa che il senso di comunione con Dio, inoltre, non stimolavano le virtù e non insegnavano il discernimento sia nei sacerdoti sia nei fedeli.

Tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo il breve trattato titolato “De vera et falsa poenitentia” dà la prima formulazione teologica del valore del “sacramentum confessionis”.

Doxa

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Re:Penitenza
« Risposta #4 il: Marzo 14, 2021, 18:45:58 »
Tra le riforme attuate dalla Chiesa cattolica nell’XI secolo ci fu anche quella del sacramento della penitenza. Vennero aboliti i “libri penitenziali”, considerati continua fonte di errori e di contraddizioni. 

Esempio, se venivano sommati i peccati si sommavano le pene, e queste potevano superare gli anni di vita del “credente”.

I libri penitenziali vennero sostituiti con le “Summae confessorum” o “Summae de paenitentia”, che indicano come accogliere ed educare il penitente, quali virtù insegnargli per evitare il peccato, anziché dirgli quanti giorni digiunare.

Poiché la Chiesa aveva anche funzioni giuridiche che tutelavano la società civile, le "Summe" indicarono anche le conseguenze giuridiche di un peccato, che oltre ad offendere Dio e dannare l'anima, laceravano il tessuto sociale.

Il diritto germanico prevedeva il “guidrigildo”: la somma in denaro che stabiliva il valore teorico di un individuo. Veniva considerata una indennità congrua, idonea a risarcire il danneggiato e i suoi parenti. Era calcolata a seconda del valore sociale dell’offeso.

In Italia il guidrigildo fu introdotto nel 643 dai Longobardi con l’Editto di Rotari
, per conseguenza si diffuse l’uso della “compositio”, cioè il riscatto della penitenza con il versamento di una somma in denaro. Questa pratica permise abusi. Divenne abitudine elargire ai monasteri delle terre per pagare le espiazioni che il peccatore avrebbe dovuto fare per avvicinarsi a Dio. La Chiesa si arricchì e aumentò il suo potere.

Nel Medioevo il peccatore più che un soggetto era forse un “oggetto” dominato dal potere della Chiesa, avida di denaro, di lasciti fondiari, ecc….

Numerose voci si levarono a difesa del pentimento sincero e contro la pratica della compositio. Il problema fu dibattuto anche in alcuni Concili, senza riuscire ad estirpare la tendenza del concedere il perdono in cambio di denaro o altri beni.

Per aggirare il problema,  la pratica della compositio venne sostituita con quella scandalosa dell'indulgenza...poi ci fu Lutero, il Concilio di Trento dal 1545 al 1563, la Controriforma cattolica, ma questa è un’altra storia.

Nel nostro tempo la confessione con l’intermediazione del sacerdote  sta diventando desueta, molti cristiani si avvicinano con disagio al sacramento della penitenza. Preferiscono contrirsi e pentirsi senza l’aiuto del confessore,  anche a causa della pandemia.

Da un articolo di Gianni Cardinale pubblicato il 10 dicembre 2020 sul quotidiano “Avvenire”,  si apprende che il cardinale Mauro Piacenza, penitenziere maggiore, in occasione del Natale ha inviato una lettera ai confessori per ribadire che anche in tempi di pandemia la confessione “è e rimane indispensabile almeno una volta l’anno e comunque sempre in caso di peccato mortale” per ricevere la comunione.

Riguardo alla questione di come celebrare il sacramento della confessione in tempo di Covid,  in una intervista rilasciata al quotidiano “Osservatore Romano” il cardinale Piacenza ha  evidenziato “la probabile invalidità” dell’assoluzione impartita dal sacerdote al penitente tramite smartphone o altri mezzi di comunicazione sociale.

Il porporato ha anche detto che nel caso “i singoli fedeli si trovassero nella dolorosa impossibilità di ricevere l’assoluzione sacramentale”, essi devono deve tener presente che “la contrizione perfetta, proveniente dall’amore di Dio amato sopra ogni cosa, espressa da una sincera richiesta di perdono - quella che al momento il penitente è in grado di esprimere - e accompagnata dalla ferma risoluzione di ricorrere, appena possibile, alla confessione sacramentale, ottiene il perdono dei peccati, anche mortali, come afferma il Catechismo della Chiesa cattolica al numero 1452”.