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Post - Doxa

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Pensieri, riflessioni, saggi / Re:A Roma dimo così...
« il: Febbraio 23, 2024, 07:22:09 »
Buongiorno Nina,

clicca sul link e senti che dice

https://www.instagram.com/anima_di_roma/reel/C3DeilUtFza/


senti pure quest'artra  :)

https://www.instagram.com/anima_di_roma/reel/C20JlUhNCzl/

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Arte / Re:Le trecce di Faustina
« il: Febbraio 22, 2024, 16:56:15 »
La seconda sala ripercorre in sintesi la storia del ritratto femminile nell’arte greca e romana, mostrando la grande varietà delle acconciature scelte dalle donne antiche. E’ un excursus tra la ritrattistica di età classica e quella di età imperiale, consente di seguire la metamorfosi della capigliatura nell’antichità sino alle acconciature ai limiti dell’eccentricità delle imperatrici della dinastia Flavia che alle trecce preferirono un diadema di boccoli “a cavatappi”, come appare nella “Testa Fonseca” custodita a Roma nei Musei Capitolini.

La terza sala mostra la liberazione dei capelli delle donne, raggiunta nel XV secolo anche grazie al prestigio dei modelli classici. C’è il revival delle pettinature antiche nelle sculture del XV secolo: alternanza tra capelli raccolti e ciocche liberate sull’esempio della Venere di Botticelli.

La quarta sala propone un doveroso e inevitabile confronto con le acconciature maschili, che non meno di quelle femminili, furono nel Rinascimento il prodotto del recupero di modelli classici combinati con sensibilità più moderne.
Il dittico attribuito agli scultori rinascimentali Vincenzo e Gian Girolamo Grandi, affianca al profilo maschile con ricci, abbinato alla barba ispirato ai ritratti degli imperatori romani Adriano e Antonino Pio. Lunghi e indomabili invece sono portati con fiera spavalderia i capelli celebrati dal modello nel Ritratto di musico di Tiziano.

La quinta sala ripercorre l’interesse di Michelangelo Buonarroti per la raffigurazione dei capelli femminili, in particolare i disegni con le cosiddette “teste divine” e la ripresa dall’antico con i suoi studi sul mito di Leda, il virtuosismo con le trecce, come nel doppio ritratto di Cleopatra.

Anche Leonardo da Vinci ha ideato capigliature molto elaborate, in particolare nella raffigurazione di Leda.


La sesta sala: l’attenzione si sposta su alcune protagoniste della moda rinascimentale: Lucrezia Borgia, evocata dal ricciolo biondo da lei donato a Pietro Bembo, racchiuso come in un reliquiario in una teca della Biblioteca Ambrosiana, a Milano; la poetessa Vittoria Colonna, amica di Michelangelo, famosa per i suoi capelli sciolti; la marchesa di Mantova, Isabella d’Este; la duchessa di Firenze, Eleonora di Toledo, con i capelli trattenuti in voluminose acconciature.

L’espressività delle acconciature nella ritrattistica ufficiale, evidenzia come le stesse donne le abbiano utilizzate per proporre valori culturali e modelli di comportamento.

I sorprendenti ruoli delle acconciature nel Rinascimento. Lontane dall’essere solo preoccupazioni cosmetiche femminili o semplici curiosità da artista, le acconciature devono essere considerate i legami di una cultura, quella rinascimentale, dove le credenze morali, sociali, religiose e fisiologiche si intrecciarono, rafforzandosi a vicenda.

Dopo un salto di due secoli, che corrispondono all’epoca barocca e rococò, contraddistinta dalle parrucche, il ritorno alla naturalezza degli antichi.

La settima sala, dedicata all’attenzione mostrata dal cinema per le acconciature femminili, antiche e moderne.

L’ottava sala documenta come l’acconciatura di Faustina – filo rosso della mostra – abbia continuato a esercitare grande fascino anche nell’età neoclassica e, in particolare, nella ritrattistica di Antonio Canova. Nelle straordinarie acconciature, il famoso scultore, come documentano i suoi disegni di studio dall’antico, riannoda, con una nuova sensibilità moderna le trecce di Faustina.

In mostra ci sono due teste in gesso di Antonio Canova. Lo scultore aveva ideato una personale rielaborazione dell’acconciatura di Faustina, con trecce composte che lasciavano liberi alcuni riccioli sulla sommità del capo, in nome di una seduzione accennata.

C'è da dire, infine, che la mostra invita a un’interessante lettura sociologica diacronica sul ruolo dei capelli, come emblema della bellezza, virtù e potere.

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Arte / Re:Le trecce di Faustina
« il: Febbraio 22, 2024, 16:47:55 »
A Vicenza l’esposizione nel Palazzo Leoni Montanari attraversa otto sale.

Nella prima sala ci sono i due busti in marmo di Faustina Maggiore e di Faustina Minore.


A sinistra il retro del busto di Faustina Maggiore, notare la sua capigliatura; a destra l’acconciatura di Faustina Minore: il suo chignon raccoglie a ciocche morbide e ondulate tutta la capigliatura.

Ma fu l’acconciatura di Faustina Maggiore a diventare un modello di riferimento per le matrone romane. Il suo busto marmoreo divenne un celebrato modello artistico e numerose copie e rielaborazioni diedero grande visibilità all’eccentrica capigliatura che finì per essere adottata da molte donne. La sua acconciatura è formata da lunghe trecce annodate e raccolte sulla sommità del capo.

Era la moglie dell’imperatore romano Antonino Pio e zia dell’imperatore Marco Aurelio. Fu scelta come simbolo di concordia e amore coniugale. Morì prima del marito, che la aveva insignita del titolo di Augusta e che la fece divinizzare, perciò fu celebrata in tutto l’impero romano quando il suo culto venne associato a quello di Cerere, dea delle messi.

La particolare acconciatura dell'imperatrice Faustina Maggiore interessò vari artisti quattrocenteschi: Lorenzo Ghiberti, Filarete, Andrea Mantegna, Giovanni Bellini. Di quest’ultimo pittore è esposto il capolavoro la “Sacra conversazione".


La Madonna col Bambino tra le sante Caterina d’Alessandria (?) a sinistra, e Maria Maddalena, sulla destra. Il dipinto è titolato “Sacra conversazione Renier” (dal nome dell’ultimo proprietario privato, il conte Bernardino Renier), olio su tavola, 1490 circa, Gallerie dell’Accademia, Venezia.

La Sacra Conversazione tra la Vergine e il Bambino e le due sante si svolge in un ambiente indefinito, una stanza buia entro la quale la pelle diafana dei protagonisti sembra splendere di luce propria.

Nell’opera, destinata alla devozione privata, è possibile che Bellini raffigurasse due donne del patriziato veneziano, atteggiate e abbigliate come Santa Caterina d’Alessandria – dalla acconciatura regale a fili di perle ispirata ad un modello antico – e la Maddalena, giovane con i capelli ramati e sciolti sulle spalle.

In questo dipinto l’acconciatura di Santa Caterina d’Alessandria evoca quella di Faustina Maggiore, come appare nelle antiche medaglie e nei busti.


particolare

segue

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Arte / Le trecce di Faustina
« il: Febbraio 22, 2024, 16:35:07 »
A Vicenza, nel Palazzo Leoni Montanari, una delle sedi delle “Gallerie d’Italia” e delle collezioni d’arte di Banca Intesa, fino al 7 aprile c’è la mostra titolata: “Le trecce di Faustina. Acconciature, donne e potere nel Rinascimento”

Questa rassegna con approccio interdisciplinare, evidenzia come le acconciature femminili di moda in epoca romana abbiano influenzato l’evoluzione della moda femminile nel Rinascimento e la relativa rappresentazione nella pittura, scultura, grafica, miniatura e arte della medaglia.

Le opere esposte creano un confronto tra antico e moderno, tra stile e influenze, in una circolarità che restituisce la complessità della comunicazione sociale della moda e delle arti nei secoli.

Nel percorso espositivo, articolato in sezioni, fa da suggestiva ouverture un dipinto del Padovanino relativo al mito della chioma di Berenice trasformata in costellazione. Mito che evidenzia l’importanza conferita fin dall’antichità ai capelli identificati come emblema della bellezza e nel contempo oggetto del desiderio.



Alessandro Varotari, detto il Padovanino, La chioma di Berenice, olio su tela, 1649 circa, Collezione privata

Berenice dopo aver tagliato i suoi capelli li depone nel vassoio.

Ma chi era Berenice ? Visse nel III secolo a. C. ed era la figlia del re di Cirene, città dell’odierna Libia. Sposò Tolomeo III Evergete, sovrano dell’Egitto. Dopo la morte di Alessandro Magno l’Egitto fu governato dalla dinastia dei Tolomei.

Il mito narra che dopo le nozze Tolomeo III dovette partire con il suo esercito per combattere contro la Siria, e Berenice, la bella regina dai lunghi capelli, preoccupata per l’incolumità del suo amato, fece voto alla dea Afrodite Zefirite di offrirle la propria chioma se si fosse dimostrata benevola nel far tornare vivo e vittorioso Tolomeo.

Il re tornò trionfante in Egitto, e Berenice, mantenendo la promessa, si fece tagliare i capelli per portarli al tempio di Afrodite. Il giorno dopo il marito non vedendo sull’altare i capelli della moglie chiese spiegazioni plausibili, ma inutilmente. Intervenne Conone, astronomo di corte, che disse al sovrano: “ io so dov’è la bella chioma della regina”, e con la mano destra indicò il cielo. “A ovest di Bootes, sopra il Leone, vede quell’amabile luccichio? Sono i capelli della sovrana. Gli dèi li hanno trasformati in tre luminose stelle”, dette “Chioma di Berenice”.

Nel firmamento formano una V nei pressi del centro della coda del carro dell’Orsa Maggiore. Il nome della stella principale è Vega (Wega) della costellazione della Lyrae (Lira).


 


Mappa della “Chioma di Berenice".

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Cogito ergo Zam / Re:Tempo di Carnevale
« il: Febbraio 20, 2024, 09:44:45 »

persone che stanno uscendo dalla chiesa dopo la funzione religiosa; alcune si sono portate le sedie da casa e le stanno riportando; nel portico si vede il prete con il camice bianco. 

Vicino la locanda ci sono  rappresentazioni dell’antico teatro di strada, cosiddetto perché  allestito in luogo pubblico, all’aperto.  Gli attori, mimi o giocolieri che si esibiscono in questo genere teatrale sono detti “artisti di strada”.
 
La scena raffigura la  “Sposa sudicia”, tratta dall’ottava bucolica di Virgilio. La bella pastorella Nisa è amata da Damone, ma preferisce sposare Mopso.




altra scena


 nel  ciclo carolingio (letteratura epica-cavalleresca) rappresenta l’episodio di  Ursone e Valentino: due gemelli, figli di Belisante, sorella del re di Francia, Pipino.
I due neonati furono abbandonati   nella foresta dalla madre in fuga perché ripudiata dal marito.
Ursone fu allevato da un’orsa, perciò diventò un essere selvaggio; Valentino, invece, crebbe nella corte del  re di Francia, Pipino.

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Cogito ergo Zam / Re:Tempo di Carnevale
« il: Febbraio 19, 2024, 15:10:38 »
In questo dipinto c'è la folla brulicante nella piazza, persone intente nelle loro occupazioni e dall’artista organizzate con una dicotomia in cui le due parti sono in antitesi.

Sulla sinistra c'è il riferimento al Carnevale con individui che mangiano, bevono, ballano giocano; due botti per il vino sono vicino la porta d’entrata nella locanda, che ha l’insegna con la scritta   “Al naviglio blu", disegnata come una barca blu.

Bruegel  ha personificato il panciuto Carnevale con la camicia celeste ed i calzoni rossi. E’ seduto a cavalcioni sopra una botte, collocata  su un carrello a forma di barca che viene spinta da giovani mascherati. Quello che ha il mantello marrone ed  in testa un  conico cappello di colore rosso ha in mano un coltello.

Anche l’obeso Carnevale un grosso coltello da macellaio che gli pende sulla pancia appeso ad un laccio intorno al giro vita.

Sopra la sua testa c’è  un tegame col cibo cotto;  l’uomo ha il piede destro dentro un pentolone ed è “armato” con uno spiedo, nel quale sono infilzati diversi tipi carne. Un filo legato allo schidione sorregge a penzoloni una salsiccia. Ha il piede destro dentro una pentola.

In terra ci sono alcune carte da gioco, il guscio di un uovo e delle ossa.



Invece la Quaresima è  impersonata da un’anziana donna (somigliante ad un uomo), alta e magra, dal volto triste,
indossa un saio e dei sandali;  è seduta nella sedia, su un carrello  con ruote trainato da una suora e da un frate. 

Dietro al carrello ci sono persone che hanno sulla fronte il segno della croce fatto con la cenere e impresso dal sacerdote  durante la Messa nel "Mercoledì delle Ceneri".



La Quaresima combatte contro lo spiedo del Carnevale con una lignea pala con lungo manico (tipo quella usata dai fornai) sulla quale ci sono due pesci: sono aringhe, simboleggiano la penitenza e l’astensione dalla carne; sopra la testa avvolta da un bianco scialle fino alle spalle,  la donna ha un’arnia, rappresenta la Chiesa cattolica, promotrice della Quaresima, denominata “Tempo della Passione” dalle Chiese protestanti. Per queste, la Quaresima è legata ad una spiritualità che non appartiene a loro e  non impongono ai loro fedeli l’obbligo religioso di rinunce o penitenze.

Sulla pedana  dove è seduta la Quaresima ci sono dei brezel,  caratteristico pane a forma di anello con le due estremità annodate (ci sono anche con altre forme) che nel periodo quaresimale per i cattolici vengono prodotti senza latte, uova o strutto.

Un richiamo alla carità nel periodo di Quaresima è rappresentato dall’uomo con l’abito azzurro (nell’angolo in basso a destra) che dona alcune monete ad una povera donna seduta che chiede l'elemosina ed ha il suo bambino sdraiato su una sedia rovesciata sul ciglio della strada.



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Cogito ergo Zam / Re:Tempo di Carnevale
« il: Febbraio 19, 2024, 10:18:43 »

Pieter Bruegel il Vecchio: “Lotta tra Carnevale e Quaresima”, dipinto ad olio su tavola; 1559, Kunsthistorisches museum, Vienna

L’artista fiammingo si chiamava Pieter Brueghel, ma in questo quadro si firma col cognome Bruegel. E tale cognome usò dal 1559 per firmare i suoi dipinti.

Pieter Bruegel o Brueghel   è indicato come il Vecchio per distinguerlo dal figlio primogenito, Pieter Bruegel, detto “il Giovane”.

Il noto dipinto “Lotta tra Carnevale e Quaresima” esprime simbolicamente la contrapposizione tra la “festa” e la “penitenza”, la transizione tra i due periodi liturgici.

Per comprenderne la struttura narrativa si deve immaginarla divisa in due parti da una linea verticale, che dalla casa centrale in alto scende verso il basso e passa nel breve spazio antistante tra l’uomo panciuto sulla botte ed il carrello trainato da due religiosi.



dettaglio

Inoltre, Bruegel ha  collocato le persone, festaioli e penitenti,  intorno a un ideale centro, costituito dal pozzo, dove si vede una donna che con la carrucola ha tirato su il secchio






Bruegel per evidenziare  la ciclicità della vita,  alternata tra follia e ragione, povertà e ricchezza, abbondanza e penuria, disordine e ordine, ha disposto la folla non in modo casuale ma in forma circolare: chi oggi ride domani piangerà, che gioca, lavorerà, che fa bagordi farà penitenza.



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Cogito ergo Zam / Re:Tempo di Carnevale
« il: Febbraio 16, 2024, 11:20:16 »
Concludo  questo thread con due dipinti del pittore veneziano Pietro Longhi (1702 - 1785), custoditi a Venezia nella pinacoteca della Fondazione Querini-Stampalia,  nell’omonimo palazzo del XVI secolo.


Venezia: Palazzo Querini Stampalia



Palazzo Querini-Stampalia, una veduta d’interno



Pietro Longhi, Il Ridotto, olio su tela, 1750 circa, Pinacoteca Querini-Stampalia, Venezia

Questa composizione fu ispirata al Longhi  da un precedente dipinto realizzato da Francesco Guardi, custodito alla Ca’ Rezzonico (vedi precedente post).
La scena si svolge nel salone centrale del Ridotto di Palazzo Dandolo a San Moisé.
La scena del "Ridotto" occupò la fantasia del Longhi in numerose versioni. 



Pietro Longhi, il Ridotto di Ca' Giustinian, olio su tela, 1750 circa, pinacoteca Querini-Stampalia
Una copia è a Bergamo all'Accademia Carrara









 

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Cogito ergo Zam / Re:Tempo di Carnevale
« il: Febbraio 15, 2024, 09:53:42 »

Francesco Guardi, Il Ridotto, olio su tela, 1746 - 1750, Museo del Settecento Veneziano,  Ca’ Rezzonico, Venezia

(purtroppo l'immagine è parziale, cliccare sulla foto  per  averne il link e vederla intera)

Non sono riuscito a trovare un'altra foto con meno pixel.

[mister, come in altri forum ci sarebbe bisogno di far entrare tutta l'immagine anziché far "straripare" una parte. Grazie dell'attenzione]


In questo dipinto è raffigurata la sala grande del Ridotto. Si vedono anche altre sale più piccole con i giocatori.

Il “Ridotto” era la sala da gioco nel  Palazzo Dandolo a San Moisé. Era frequentato anche da Giacomo Casanova.
Veniva aperto in occasione del lungo periodo di Carnevale veneziano, che  nel ‘700 si dilungava dal 26 dicembre al mercoledì delle Ceneri. 

Poiché il gioco d’azzardo era per legge illegale, il Ridotto di San Moisè, aperto nel 1638, era l’unico ad essere considerato legittimo, ed era gestito dallo Stato: la Repubblica di Venezia.

I frequentatori erano obbligati ad indossare la maschera, di solito la baùta: bianca per gli uomini, nera per le donne. Erano esclusi dall’obbligo i nobili addetti ai banchi di gioco (i croupiers) che dovevano indossare la parrucca e la toga nera;  venivano stipendiati dal governo.  Erano nobili impoveriti,  appartenenti alle famiglie meno ricche;  venivano denominati  “Barnabotti”, nome che deriva dalla parrocchia di San Barnaba.

Questa casa da gioco  accoglieva  veneziani e stranieri, nobili e gente comune, ricchi e poveri.  Fu quindi quasi naturale che in tale ambiente iniziassero a diffondersi attività come la prostituzione e l’usura.  La presenza continua nelle sale di usurai e meretrici, il problema della dissipazione dei capitali con il gioco d’azzardo, gli oscuri rapporti d’affari tra gli usurai e i Barnabotti, motivarono la magistratura più temibile della Serenissima, il Consiglio dei X,  a decretare la chiusura  di questo Ridotto nel 1774.


Ed ora passiamo all’immagine.

E’ evidente la promiscuità degli strati sociali osservando i loro vestiti.

A destra,  c’è una donna che indossa un abito bianco  tiene in mano un fuso e una conocchia  (attributo distintivo delle prostitute) vicina ad un Barnabotto che sembra dare  ad un uomo una chiave, presa dal mazzo di chiavi: un fatto di facile interpretazione.

Sull’estrema sinistra  un altro Barnabotto è intento a prestare denari ad un nobiluomo mascherato.

Un bambino gioca con il cagnolino.

p. s. La sorella di Francesco Guardi,  Maria Cecilia, nel 1719 si unì in matrimonio col famoso pittore Giovan Battista Tiepolo.

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Cogito ergo Zam / Re:Tempo di Carnevale
« il: Febbraio 15, 2024, 09:35:05 »
Buongiorno Nina,  stamane  di Venezia ti offro la veduta della Ca’ Rezzonico.


 
L’edificio prospetta sul  Canal Grande. Fu progettato da Baldassarre Longhena su incarico della nobile famiglia Bon. Il cantiere venne aperto nel 1667 ma per difficoltà economiche dei committenti la costruzione venne  lasciata incompiuta.

Nel 1751 Giambattista Rezzonico l’acquistò e lo fece completare. Il cantiere chiuse nel 1758.

Lo so, la tua curiosità ti motiva a chiedermi chi erano i Rezzonico, ed io brevemente ti dico che un primo  Rezzonico documentato a  Venezia si chiamava Aurelio, ed era l'anno del Signore 1638. Era, originario della provincia di Como e dedito all’attività finanziaria e al commercio.  Era un discendete dei conti Della Torre di Rezzonico, da cui il cognome.


 
Castello di Rezzonico, costruito nel 1363 dal feudatario Della Torre, poi Della Torre-Rezzonico.
Il maniero è situato nella sponda nord-occidentale del Lago di Como.

Dal 1687 il ramo veneziano dei Rezzonico entrò a far  parte del patriziato della città lagunare. Di questa famiglia faceva parte Carlo Rezzonico (1693 – 1769), che il 6 luglio 1758 fu eletto al soglio pontificio col nome di  Clemente XIII.

Ora Nina virtualmente saliamo lo scalone d’onore per poi entrare in quel che fu il bel salone da ballo, ancor oggi ornato con gli affreschi e i lampadari di Murano.



Nei tre piani dell’edificio si dipana il Museo del Settecento Veneziano. Possiamo ammirare i mobili, le porcellane i lampadari, ecc., ma in particolare i capolavori di Giambattista e Giandomenico Tiepolo. Nella collezione di quadri ci sono i dipinti dedicati a Venezia da Guardi, Canaletto e Longhi.

Nel prossimo post  ti offro la foto di un dipinto di Francesco Guardi riguardante il Carnevale di Venezia.

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Pensieri, riflessioni, saggi / Re:A Roma dimo così...
« il: Febbraio 15, 2024, 09:20:31 »
Cara Nina la primavera è vicina e Roma ti attende per "rinovellare" i tuoi ricordi.


Roma, piazza Trilussa, monumento dedicato al poeta romanesco Carlo Alberto Salustri, detto “Trilussa”.

Piazza Trilussa è situata tra il Lungotevere della Farnesina ed il Lungotevere Raffaello Sanzio, di fronte a Ponte Sisto, fatto costruire dal pontefice Sisto IV in occasione del giubileo del 1475.

Sulla destra, guardando la foto, c’è l’epigrafe marmorea con incisa la sua ironica poesia titolata “All’ombra”



La traduzione: “Mentre mi leggo il solito giornale sdraiato all’ombra di un pagliaio vedo un porco e gli dico: – Addio, maiale! vedo un asinello e gli dico: – Addio, somaro! Forse queste bestie non mi capiranno ma provo almeno la soddisfazione di poter dire le cose come stanno senza paura di finire in prigione”.

Ed ora alcune parole quasi in disuso che incitano un individuo alla violenza verso un altro: sfonnalo, sdrumalo, gonfialo, spaccalo,  arompilo, sventralo, aricomponilo.

Parole dialettali ancora in uso:

a bizzeffe” = in gran quantità;

a bonbisogno” = all’occorrenza, se serve;

“a bracalone” = chi indossa pantaloni larghi;

“na caterva” = gran quantità;

“ a cecio”, oppure “a faciolo”
= al momento giusto;

“ te la fai a fette” = camminare a piedi;

“ a pedagna” =  camminare a piedi;

“ a sbafo”
= senza pagare”; per esempio: mangiare senza pagare;

“ a scrocco” = a spese di altri.  :happy:

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Cogito ergo Zam / Tempo di Carnevale
« il: Febbraio 13, 2024, 09:17:14 »
 :rose: :rose:Alcuni anni fa in altro topic ho discettato sul Carnevale. Non so dov'è quel thread, perciò comincio questo  :happy:

Oggi vi voglio raccontare un po’ di storia del Carnevale di Venezia. Il primo documento che lo cita come usanza è dell’anno 1094, firmato dal doge Vitale Falier. Ma fu un editto del 1296 del Senato della “Serenissima” ad istituirlo come festa pubblica autorizzata.

Dopo circa 700 anni, nel 1797, a seguito del “Trattato di Campoformio”, Venezia venne ceduta all’Austria, che bandì molte usanze, fra le quali il Carnevale. Questo fu ricominciato nel 1979 da alcune associazioni cittadine ed è ormai famoso in tutto il mondo.

Il travestimento tipico veneziano,  che risale al '700, veniva indossato sia dagli uomini che dalle donne: si compone di tre elementi: una particolare maschera bianca denominata  baùta (si pronuncia con l’accento sulla ù),  il tricorno di colore nero  (= cappello a tre punte), il mantello nero, detto anche tabarro o jabod.


La baùta,  di colore bianco, è la maschera  tradizionale del Carnevale veneziano.

La conformazione della maschera permette anche di bere e mangiare senza  doverla togliere e mantenere l’anonimato.

Nel passato il carnevale veneziano  attirava chiunque avesse denari da spendere e voglia di vivere situazioni fuori dall’ordinario. Non solo nelle feste dei palazzi ma anche nelle sale da gioco.  La più antica, gestita dallo Stato, era quella nel Palazzo Dandolo. Ricchi giocatori, non solo veneziani ma anche  stranieri,  spendevano molti soldi nei tavoli da gioco proprio perché si sentivano tutelati dall’anonimato della maschera, che era obbligatoria.

La baùta veniva indossata da ricchi e poveri, uomini e donne, aristocratici, borghesi e religiosi, che si confondevano celando la propria identità.

Immaginate  la scena: individui avvolti dal tabarro, il viso nascosto dalla maschera, sul capo il tricorno. Camminano tra le calli avvolte nella nebbia ed entrano in un palazzo illuminato dalle candele. Si levano il mantello svelando qualcosa di sé dagli abiti che indossano e dalla forma del corpo che si intuisce sotto i vestiti.

Si scrutano a vicenda attraverso le fessure della maschera cercando di indovinare la persona che si cela.
 
Solo il Carnevale consentiva di vivere situazioni come queste, irresistibili agli occhi dei visitatori stranieri. Il fascino della città sospesa tra terra e acqua unita alla trasgressione resa possibile dall’anonimato. 

Le donne come maschera per il viso anziché la bianca baùta usavano la “moreta” (o moretta) cosiddetta perché di colore nero.   

Ci sono numerosi  dipinti a Venezia che testimoniano l’utilizzo di questi indumenti. Appaiono, in particolare nelle opere pittoriche di Pietro Longhi e Francesco Guardi.  Ne posterò alcune.

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Pensieri, riflessioni, saggi / Re:A Roma dimo così...
« il: Febbraio 10, 2024, 17:47:34 »
Le tante parole che molti italiani usano, anche lontano da Roma, forse senza sospettarne l’origine capitolina:

bùfala
= notizia falsa;

caçiara = confusione;

fregnaccia e frescaccia = sciocchezza;

jella = sfortuna;

pènnica = sonnellino;

peracottaro = persona inattendibile e pasticciona;

scanzonato
= scherzoso, disinvolto, ironico;

sfottere = prendere in giro;

sturbo = svenimento;

zozzo = sporco;

cecagna = sonnolenza;

daje, eddàje = usato come segnale d’impazienza o di disappunto quando accade una cosa  spiacevole;

stacce = rassegnarsi;

ce pò sta = è possibile, è plausibile, è accettabile.

Per chi volesse saperne di più vi segnalo il recente “Vocabolario del romanesco contemporaneo”,  edit. da Newton Compton, pagg. 480, euro 14,90, elaborato da Paolo D’Achille e Claudio Giovanardi.

Il dialetto romanesco è come un cocktail: un terzo di origine meridionale, un terzo dal toscano (che risale agli sconvolgimenti demografici avvenuti nell’Urbe tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna), e un terzo dalle successive importazioni e innovazioni, che da Roma capitale si sono irradiate in tutta la penisola.

Il romanesco contemporaneo, quello che oggi si parla a Roma è un misto di dialetto e lingua “colta”, che produce un “italiano di (de) Roma”.

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Arte / Re:Carità romana
« il: Febbraio 09, 2024, 10:40:51 »
Furono  numerosi gli  artisti che raffigurarono la “Carità romana”. Scegliere tra loro non è facile, ed io col passar del tempo sto diventando un irrequieto. Mi annoiano i topic con numerosi post. Perciò il thread lo concludo con questo.

Cara Nina, stamane a Roma io e te andiamo virtualmente a visitare in modo fugace la chiesa dedicata a Sant’Isidoro degli Irlandesi, in via degli Artisti,  nei pressi di via Veneto.



La storia di questa chiesa con l'annesso convento francescano risale al 1622,  in occasione della canonizzazione di cinque santi, fra i quali lo spagnolo  Isidoro Agricola, il “santo contadino nato a Madrid nel 1080 e morto nella stessa città nel 1130.  Gli furono attribuiti eventi prodigiosi e considerato protettore dei campi e dei raccolti, come una divinità pagana.

In quell’anno alcuni francescani spagnoli vollero onorare quell'Isidoro  fondando un ospizio  per i loro connazionali pellegrini di passaggio  a Roma. 

Nel 1624 il complesso edilizio era  ancora incompiuto. E la sua storia ebbe un’altra trama con l’arrivo a Roma del teologo francescano  Luca Wadding,  di origine irlandese,  scelto dal re di Spagna per la delegazione inviata per incontrare  il pontefice Paolo V.

Wadding ricevette anche l’incarico di occuparsi di quel cantiere. Il frate, con l’aiuto dei benefattori,  fece concludere i lavori. La chiesa fu consacrata nel 1686 ma la facciata fu completata nel 1704.


L’interno della chiesa è a navata unica a croce latina e con volta a botte, e quattro cappelle laterali.   Nel soffitto è affrescata “Gloria di Sant’Isidoro”, realizzata da Charles-André Van Loo nel 1729.


Interno della chiesa di Sant’Isidoro degli Irlandesi.

Una delle quattro cappelle laterali  è la  barocca  Cappella de Sylva, realizzata tra il 1661 e il 1663  su progetto di Gian Lorenzo Bernini. Qui è possibile ammirare l’ovale pala d’altare che raffigura l’Immacolata Concezione, dipinta da Carlo Maratta nel 1663; alle pareti  ritratti funebri di appartenenti alla famiglia de Sylva e quattro allegoriche virtù disegnate dal Bernini.





sulla parete sinistra le virtù della Carità (in primo piano) e della Verità

I restauri eseguiti nel 2002 hanno  permesso di scoprire un  caso di censura sulle sculture di due Virtù,  la Verità e la Carità, in questo caso “romana”, ma senza la statua che raffigura  Micon mentre sugge il latte dal seno della figlia.

Bernini  aveva ideate  le due virtù con i seni  prosperosi. Nel 1860, i religiosi irlandesi ritennero  indecenti e provocanti le nudità e le posture delle due sculture, perciò  fecero  coprire quei seni con pudiche camicie  di bronzo, avvitate al marmo e dipinte in nero. Furono tolte nel 2002 durante i restauri. 


Personificazione della Carità: prima e dopo il restauro


Personificazione della Verità prima e dopo il restauro.

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Arte / Re:Carità romana
« il: Febbraio 08, 2024, 09:14:40 »
Dopo la pala d'altare di Caravaggio, che ho descritto nel precedente post,  numerosi pittori vollero esprimere il loro talento artistico dedicandolo anche  al tema di Pero e Cimone. La “moda” iniziò nel 1610-12 e durò circa due secoli.  Si diffuse in Italia, Francia, Paesi Bassi, parteciparono pure gli spagnoli Jusepe de Ribera e Bartolomé Esteban Murillo.
 
Oggi offro alla vostra visione la “Carità romana” immaginata da un pittore di origine tedesca ma risiedeva ad Anversa, in Belgio,  mi riferisco a  Pieter Paul Rubens, che dal 1600 al 1608 soggiornò in varie città italiane, in particolare a Venezia, Mantova e Roma. In queste località  affinò la sua arte ammirando le opere di noti  pittori italiani.

Il fiammingo Rubens è considerato un precursore dello stile barocco.


 Pieter Paul Rubens, Carità romana, olio su tela, 1612 circa, Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo.
 
Nel 1630 Rubens tornò su questo tema ma titolò la tela “Cimone e Pero”


Pieter Paul Rubens, Cimone e Pero, olio su tela, 1630, Rijksmuseum, Amsterdam.

In questa versione   padre e figlia sono  seduti su un baule.  Pero è una bionda donna pletorica, di carnagione chiara.  L’attenzione ai dettagli nel corpo dell’uomo e nei vestiti mostra la capacità dell'artista di creare una sensazione di realismo nel suo lavoro.



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