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Post - Doxa

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Pensieri, riflessioni, saggi / Re:A Roma dimo così...
« il: Febbraio 15, 2024, 09:20:31 »
Cara Nina la primavera è vicina e Roma ti attende per "rinovellare" i tuoi ricordi.


Roma, piazza Trilussa, monumento dedicato al poeta romanesco Carlo Alberto Salustri, detto “Trilussa”.

Piazza Trilussa è situata tra il Lungotevere della Farnesina ed il Lungotevere Raffaello Sanzio, di fronte a Ponte Sisto, fatto costruire dal pontefice Sisto IV in occasione del giubileo del 1475.

Sulla destra, guardando la foto, c’è l’epigrafe marmorea con incisa la sua ironica poesia titolata “All’ombra”



La traduzione: “Mentre mi leggo il solito giornale sdraiato all’ombra di un pagliaio vedo un porco e gli dico: – Addio, maiale! vedo un asinello e gli dico: – Addio, somaro! Forse queste bestie non mi capiranno ma provo almeno la soddisfazione di poter dire le cose come stanno senza paura di finire in prigione”.

Ed ora alcune parole quasi in disuso che incitano un individuo alla violenza verso un altro: sfonnalo, sdrumalo, gonfialo, spaccalo,  arompilo, sventralo, aricomponilo.

Parole dialettali ancora in uso:

a bizzeffe” = in gran quantità;

a bonbisogno” = all’occorrenza, se serve;

“a bracalone” = chi indossa pantaloni larghi;

“na caterva” = gran quantità;

“ a cecio”, oppure “a faciolo”
= al momento giusto;

“ te la fai a fette” = camminare a piedi;

“ a pedagna” =  camminare a piedi;

“ a sbafo”
= senza pagare”; per esempio: mangiare senza pagare;

“ a scrocco” = a spese di altri.  :happy:

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Cogito ergo Zam / Tempo di Carnevale
« il: Febbraio 13, 2024, 09:17:14 »
 :rose: :rose:Alcuni anni fa in altro topic ho discettato sul Carnevale. Non so dov'è quel thread, perciò comincio questo  :happy:

Oggi vi voglio raccontare un po’ di storia del Carnevale di Venezia. Il primo documento che lo cita come usanza è dell’anno 1094, firmato dal doge Vitale Falier. Ma fu un editto del 1296 del Senato della “Serenissima” ad istituirlo come festa pubblica autorizzata.

Dopo circa 700 anni, nel 1797, a seguito del “Trattato di Campoformio”, Venezia venne ceduta all’Austria, che bandì molte usanze, fra le quali il Carnevale. Questo fu ricominciato nel 1979 da alcune associazioni cittadine ed è ormai famoso in tutto il mondo.

Il travestimento tipico veneziano,  che risale al '700, veniva indossato sia dagli uomini che dalle donne: si compone di tre elementi: una particolare maschera bianca denominata  baùta (si pronuncia con l’accento sulla ù),  il tricorno di colore nero  (= cappello a tre punte), il mantello nero, detto anche tabarro o jabod.


La baùta,  di colore bianco, è la maschera  tradizionale del Carnevale veneziano.

La conformazione della maschera permette anche di bere e mangiare senza  doverla togliere e mantenere l’anonimato.

Nel passato il carnevale veneziano  attirava chiunque avesse denari da spendere e voglia di vivere situazioni fuori dall’ordinario. Non solo nelle feste dei palazzi ma anche nelle sale da gioco.  La più antica, gestita dallo Stato, era quella nel Palazzo Dandolo. Ricchi giocatori, non solo veneziani ma anche  stranieri,  spendevano molti soldi nei tavoli da gioco proprio perché si sentivano tutelati dall’anonimato della maschera, che era obbligatoria.

La baùta veniva indossata da ricchi e poveri, uomini e donne, aristocratici, borghesi e religiosi, che si confondevano celando la propria identità.

Immaginate  la scena: individui avvolti dal tabarro, il viso nascosto dalla maschera, sul capo il tricorno. Camminano tra le calli avvolte nella nebbia ed entrano in un palazzo illuminato dalle candele. Si levano il mantello svelando qualcosa di sé dagli abiti che indossano e dalla forma del corpo che si intuisce sotto i vestiti.

Si scrutano a vicenda attraverso le fessure della maschera cercando di indovinare la persona che si cela.
 
Solo il Carnevale consentiva di vivere situazioni come queste, irresistibili agli occhi dei visitatori stranieri. Il fascino della città sospesa tra terra e acqua unita alla trasgressione resa possibile dall’anonimato. 

Le donne come maschera per il viso anziché la bianca baùta usavano la “moreta” (o moretta) cosiddetta perché di colore nero.   

Ci sono numerosi  dipinti a Venezia che testimoniano l’utilizzo di questi indumenti. Appaiono, in particolare nelle opere pittoriche di Pietro Longhi e Francesco Guardi.  Ne posterò alcune.

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Pensieri, riflessioni, saggi / Re:A Roma dimo così...
« il: Febbraio 10, 2024, 17:47:34 »
Le tante parole che molti italiani usano, anche lontano da Roma, forse senza sospettarne l’origine capitolina:

bùfala
= notizia falsa;

caçiara = confusione;

fregnaccia e frescaccia = sciocchezza;

jella = sfortuna;

pènnica = sonnellino;

peracottaro = persona inattendibile e pasticciona;

scanzonato
= scherzoso, disinvolto, ironico;

sfottere = prendere in giro;

sturbo = svenimento;

zozzo = sporco;

cecagna = sonnolenza;

daje, eddàje = usato come segnale d’impazienza o di disappunto quando accade una cosa  spiacevole;

stacce = rassegnarsi;

ce pò sta = è possibile, è plausibile, è accettabile.

Per chi volesse saperne di più vi segnalo il recente “Vocabolario del romanesco contemporaneo”,  edit. da Newton Compton, pagg. 480, euro 14,90, elaborato da Paolo D’Achille e Claudio Giovanardi.

Il dialetto romanesco è come un cocktail: un terzo di origine meridionale, un terzo dal toscano (che risale agli sconvolgimenti demografici avvenuti nell’Urbe tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna), e un terzo dalle successive importazioni e innovazioni, che da Roma capitale si sono irradiate in tutta la penisola.

Il romanesco contemporaneo, quello che oggi si parla a Roma è un misto di dialetto e lingua “colta”, che produce un “italiano di (de) Roma”.

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Arte / Re:Carità romana
« il: Febbraio 09, 2024, 10:40:51 »
Furono  numerosi gli  artisti che raffigurarono la “Carità romana”. Scegliere tra loro non è facile, ed io col passar del tempo sto diventando un irrequieto. Mi annoiano i topic con numerosi post. Perciò il thread lo concludo con questo.

Cara Nina, stamane a Roma io e te andiamo virtualmente a visitare in modo fugace la chiesa dedicata a Sant’Isidoro degli Irlandesi, in via degli Artisti,  nei pressi di via Veneto.



La storia di questa chiesa con l'annesso convento francescano risale al 1622,  in occasione della canonizzazione di cinque santi, fra i quali lo spagnolo  Isidoro Agricola, il “santo contadino nato a Madrid nel 1080 e morto nella stessa città nel 1130.  Gli furono attribuiti eventi prodigiosi e considerato protettore dei campi e dei raccolti, come una divinità pagana.

In quell’anno alcuni francescani spagnoli vollero onorare quell'Isidoro  fondando un ospizio  per i loro connazionali pellegrini di passaggio  a Roma. 

Nel 1624 il complesso edilizio era  ancora incompiuto. E la sua storia ebbe un’altra trama con l’arrivo a Roma del teologo francescano  Luca Wadding,  di origine irlandese,  scelto dal re di Spagna per la delegazione inviata per incontrare  il pontefice Paolo V.

Wadding ricevette anche l’incarico di occuparsi di quel cantiere. Il frate, con l’aiuto dei benefattori,  fece concludere i lavori. La chiesa fu consacrata nel 1686 ma la facciata fu completata nel 1704.


L’interno della chiesa è a navata unica a croce latina e con volta a botte, e quattro cappelle laterali.   Nel soffitto è affrescata “Gloria di Sant’Isidoro”, realizzata da Charles-André Van Loo nel 1729.


Interno della chiesa di Sant’Isidoro degli Irlandesi.

Una delle quattro cappelle laterali  è la  barocca  Cappella de Sylva, realizzata tra il 1661 e il 1663  su progetto di Gian Lorenzo Bernini. Qui è possibile ammirare l’ovale pala d’altare che raffigura l’Immacolata Concezione, dipinta da Carlo Maratta nel 1663; alle pareti  ritratti funebri di appartenenti alla famiglia de Sylva e quattro allegoriche virtù disegnate dal Bernini.





sulla parete sinistra le virtù della Carità (in primo piano) e della Verità

I restauri eseguiti nel 2002 hanno  permesso di scoprire un  caso di censura sulle sculture di due Virtù,  la Verità e la Carità, in questo caso “romana”, ma senza la statua che raffigura  Micon mentre sugge il latte dal seno della figlia.

Bernini  aveva ideate  le due virtù con i seni  prosperosi. Nel 1860, i religiosi irlandesi ritennero  indecenti e provocanti le nudità e le posture delle due sculture, perciò  fecero  coprire quei seni con pudiche camicie  di bronzo, avvitate al marmo e dipinte in nero. Furono tolte nel 2002 durante i restauri. 


Personificazione della Carità: prima e dopo il restauro


Personificazione della Verità prima e dopo il restauro.

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Arte / Re:Carità romana
« il: Febbraio 08, 2024, 09:14:40 »
Dopo la pala d'altare di Caravaggio, che ho descritto nel precedente post,  numerosi pittori vollero esprimere il loro talento artistico dedicandolo anche  al tema di Pero e Cimone. La “moda” iniziò nel 1610-12 e durò circa due secoli.  Si diffuse in Italia, Francia, Paesi Bassi, parteciparono pure gli spagnoli Jusepe de Ribera e Bartolomé Esteban Murillo.
 
Oggi offro alla vostra visione la “Carità romana” immaginata da un pittore di origine tedesca ma risiedeva ad Anversa, in Belgio,  mi riferisco a  Pieter Paul Rubens, che dal 1600 al 1608 soggiornò in varie città italiane, in particolare a Venezia, Mantova e Roma. In queste località  affinò la sua arte ammirando le opere di noti  pittori italiani.

Il fiammingo Rubens è considerato un precursore dello stile barocco.


 Pieter Paul Rubens, Carità romana, olio su tela, 1612 circa, Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo.
 
Nel 1630 Rubens tornò su questo tema ma titolò la tela “Cimone e Pero”


Pieter Paul Rubens, Cimone e Pero, olio su tela, 1630, Rijksmuseum, Amsterdam.

In questa versione   padre e figlia sono  seduti su un baule.  Pero è una bionda donna pletorica, di carnagione chiara.  L’attenzione ai dettagli nel corpo dell’uomo e nei vestiti mostra la capacità dell'artista di creare una sensazione di realismo nel suo lavoro.



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Arte / Re:Carità romana
« il: Febbraio 06, 2024, 18:50:23 »
6 Visitare i carcerati:  quest’opera di misericordia viene raffigurata da Caravaggio con gli stessi personaggi  visti nella prima opera di carità:  “Dar da mangiare agli affamati”, con Pero che  allatta il padre rinchiuso nel carcere.


 

7 Seppellire i morti: c’è un uomo con la fiaccola che fa luce sul percorso,  un altro che trasporta la salma,  della quale si vedono i piedi sopra un lenzuolo bianco. 





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Arte / Re:Carità romana
« il: Febbraio 06, 2024, 18:44:46 »
4 Ospitare i pellegrini: quest’opera di carità è riassunta da due figure: 

l'uomo in piedi  sulla sinistra  indica un punto verso l'esterno della composizione,  come se volesse invitare il pellegrino, San Giacomo, raffigurato con il bordone e la conchiglia sul cappello (simboli del pellegrinaggio a Santiago de Compostela).  Vicino a lui  c’è un terzo personaggio,  forse un altro pellegrino.





5 Visitare gli infermi: allo stesso san Martino di Tours  è collegata la figura dello storpio in basso nell'angolo buio a sinistra della scena; è  disteso, è visibile un suo piede,   ha le mani congiunte in preghiera e chiede aiuto al cavaliere.



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Arte / Re:Carità romana
« il: Febbraio 06, 2024, 18:39:29 »
Le sette opere di misericordia  corporale: 1  Dar da mangiare agli affamati 2 - Dar da bere agli assetati 3 - Vestire gli ignudi 4 - Alloggiare i pellegrini 5 - Visitare gli infermi 6 - Visitare i carcerati 7 - Seppellire i morti.

1 Dar da mangiare agli affamati: rappresentato dall'episodio di  Cimone e Pero; notare la goccia di latte sulla barba dell’anziano uomo, che sta bevendo dal seno della figlia.
 


 

2 Dar da bere agli assetati: un uomo, in secondo piano  sulla sinistra,  beve da una mascella d'asino.  Questa raffigurazione è l'unica   che si discosta dalle altre, perché  non c’è  l'intervento di un individuo   che soccorre un altro, ma l’azione divina.


 


3 Vestire gli ignudi: in primo piano un giovane cavaliere, san Martino di Tours, dona il suo mantello  a un uomo visto di spalle e seduto in terra.  Dietro la testa del santo s'intravede l'orecchio di un altro personaggio.



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Arte / Re:Carità romana
« il: Febbraio 06, 2024, 18:28:24 »
Nel Medioevo, la vicenda di Pero e Cimon  è tramandata da Giovanni Boccaccio nel 65/esimo capitolo del “De mulieribus claris”  (= le donne famose), testo in lingua latina scritto  tra l’estate del 1361 e quella del 1362. 

L’opera descrive con finalità morali 106 donne dell’antichità e del Medioevo. Tramite le loro azioni, sia buone che malvagie, l’autore intendeva presentare esempi  e spronare alla virtù.

L’ispirazione per questo suo libro dedicato soltanto a donne famose gli era venuta dal “De viris illustribus” di Francesco Petrarca, che descrive biografie di uomini.

Nell’ambito della pittura, nel 1606/1607  a Napoli Caravaggio dipinse  una pala d’altare dedicata alle sette opere di misericordia corporale commissionata dalla  locale “Confraternita del Pio Monte della Misericordia”, istituzione che si occupava di aiutare i bisognosi.

Sei delle sette opere misericordiose sono narrate nel Vangelo di Matteo. La settima riguarda la sepoltura dei morti.

I personaggi raffigurati sono disposti a raggiera. Tramite loro l’artista raffigura diversi episodi in un unico dipinto.


Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, Sette opere di misericordia, olio su tela, 1606 – 1607, Pio Monte della Misericordia, Napoli

In un unico spazio sono uniti il divino e l’umano.

In alto la Madonna col Bambino,  accompagnati da due angeli con grandi ali piumate e in parte avvolti da panneggi,  osservano le vicende umane sulla Terra. 


particolare della Madonna col Bambino



particolare degli angeli

L’opera, con ombre e luci concentra in una visione d’insieme 14 personaggi che raffigurano le 7 opere di misericordia corporale  in un ipotetico, brulicante scenario cittadino partenopeo.

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Arte / Carità romana
« il: Febbraio 06, 2024, 14:00:41 »
Nell’antichità c’era la tendenza mito-poetica di personificare oggetti inanimati  o fenomeni naturali attribuendo loro tratti (anche psicologici e comportamentali) umani, un esempio è la caritas, raffigurata  nell’arte mentre elargisce pane ai poveri, oppure mentre allatta dei bambini. A quest’quest’ultima tipologia ho dedicato recentemente un topic.

Ma è stata pure  rappresentata come una donna che allatta un uomo anziano. Questa iconografia è conosciuta col nome di “Carità romana”, sia  per distinguerla dall'altra sia perché è collegata ad un racconto di epoca romana: una giovane donna, di nome Perus o Pero, allatta il vecchio padre, Cimon o Micon, che è in prigione, salvandolo dalla morte per inedia.

La leggenda è narrata dallo storico Valerius Maximus nel “Factorum et dictorum memorabilium libri IX”: una raccolta in 9 libri di fatti e detti memorabili,  desunti dalla storia romana e da quella greca.  Gli aneddoti  sono moraleggianti. La finalità dell'autore è quella di descrivere esempi  di comportamenti virtuosi.

Ecco la storia della “Carità romana”:  a Roma, in epoca repubblicana,  Perus, ottenne il permesso di poter andare ogni giorno nel carcere dal padre,  condannato a morire di fame.

La donna aveva partorito da poco e allattava il figlio. Durante le sue visite giornaliere al genitore,  in segreto lo nutriva con l’unico alimento a disposizione: il latte del suo seno. Tutto andò bene fino a quando le guardie cominciarono ad avere dei sospetti, infatti Cimon nonostante fosse  molto dimagrito era ancora in vita.

Un giorno un carceriere  scoprì l’azione della donna e lo comunicò ai suoi superiori,  che rimasero sorpresi e commossi, ma anziché punirla graziarono lei e il padre che tornò libero.

Questa vicenda, nei secoli ispirò numerosi artisti fin dall’epoca romana.

A Pompei, nel parco archeologico c’è la domus di Marcus Lucretius Fronto, sepolta durante l’eruzione del Vesuvio del 79 d. C.. Fu costruita nel II sec. a. C.,  successivamente ristrutturata  e ampliata.  Ha  decorazioni pittoriche di notevole qualità.



Pompei,  atrio della domus di epoca romana di Marcus Lucretius Fronto

A fianco del tablinum c’è   un cubicolo, affrescato dopo il terremoto del 62 d. C.. Ha la zoccolatura  di colore rosso scuro, decorata con la raffigurazione di piante. La zona mediana ha le pareti di colore giallo ocra, con al centro due scene contornate da raffigurazioni con ghirlande,  frutta e amorini in volo:  in un riquadro, il mito di Narciso, nel momento in cui ammira la sua immagine riflessa nell’acqua, nell’altro è rappresentata la giovane Pero che allatta in prigione il vecchio padre Micon salvandolo dalla morte a cui era stato condannato.

Completa la decorazione  due medaglioni con ritratti di fanciulli ai lati dell’ingresso. Forse era la camera da letto dei figli del proprietario a cui probabilmente erano rivolti i due esempi: la vanità e l’amore filiale verso i genitori. 

L'ambiente è illuminato  dalla luce esterna che attraversa una finestra.


Narciso si specchia nell’acqua, 50 – 79 d. C., Museo Archeologico, Napoli


Micon e Pero, affresco, 50 – 79 d. C., Museo Archeologico, Napoli

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Pensieri, riflessioni, saggi / Re:Alterità
« il: Febbraio 02, 2024, 07:56:13 »
Riguardo l’alterità ci sono numerosi libri. Ne indico un altro recente:  “Alterità sul confine fra l’Io e l’altro”, scritto da Pierpaolo Donati  e pubblicato dall’editrice “Città Nuova”.

L’autore afferma che nell’incontro con l’altro/a la domanda da porsi è: “Chi sono io per te e chi sei tu per me ?”.  Nella relazione interpersonale c’è un confine che ci divide: può generare incomprensioni oppure empatia.

Donati dice che l’alterità non è un’esperienza statica, non è la semplice presa d’atto: “io sono così e tu sei diverso”. E’ un’esperienza dinamica, che si pone a tre diversi livelli di realtà: mentale, situazionale, relazionale.

A livello mentale consideriamo l’alterità quando pensiamo l’Altro come uno che potrebbe crearci problemi, che è antipatico.

A livello situazionale valutiamo l’alterità in un contesto, in una situazione che può essere occasionale, come capita quando un individuo ci ferma nella strada e non sappiamo chi è, oppure può essere abituale, come avviene quando ci troviamo in un contesto familiare.

A livello relazionale è necessario chiederci che tipo di comunicazione vogliamo avere con l’altro. Significa configurare la relazione come un’adesione convergente per annullare il confine che separa ma definisce il Me e il Te.

Un esempio del confine che divide la relazione interpersonale è in un affresco di epoca romana, rinvenuto in una villa rustica pompeiana forse appartenuta a Publius Fannius Synistor.


Sulla destra l’anonimo pittore personificò due nazioni:  la  Macedonia e la Persia,  con allusione alle vicende connesse ad Alessandro Magno.  Lo scudo segna il confine tra le due figure, simboleggia la qualità enigmatica della relazione tra i due Stati e rappresenta l’alterità fra due entità che rimandano a popoli con culture e civiltà diverse. Così dice l’autore del libro!

Quando  i resti della villa rustica fu riportata alla luce fu dagli archeologi nel 1900,  68 sezioni di pitture murali  furono tolte,  recuperati gli oggetti di valore, poi i resti  del complesso edilizio  furono rinterrati, com’era prassi. I pannelli con i dipinti parietali, realizzati tra il 40 e il 30 a. C.,  furono distribuiti in  vari musei, come il Metropolitan Museum di New York,  il Museo archeologico nazionale di Napoli, il Louvre di Parigi e il Musée Royal di Mariemont,  a  Morlanwetz, in Belgio.


Affreschi del  40 – 30 a. C.: erano nella cosiddetta “sala M” della villa  rustica di Publio Fannio Sinistore, ricostruita nel Metropolitan Museum of Art, New York.

Forse questa stanza  era adibita a cubiculum,  la camera da letto del proprietario. L’edificio è  a circa due chilometri dal parco archeologico di Pompei, nell’area che in quel tempo era denominata   “Pagus Augustus Felix Suburbanus”, nell’attuale territorio del Comune di Boscoreale. In quel villaggio  c’erano  una trentina di ville rustiche, tra le quali quella  di  Publius Fannius Synistor,  così chiamata per la presenza di questo nome su un  vaso, ma forse era di proprietà di Lucius Herius Florus,  nome inciso su un sigillo.

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Pensieri, riflessioni, saggi / Alterità
« il: Febbraio 01, 2024, 10:01:59 »
Alterità: questo sostantivo deriva dal latino alterĭtas,  che “discende” da  “alter” (=  altro, diverso).

In questo topic per alterità  intendo la differenza tra due identità.

L’identità comprende le caratteristiche fisiche e psicologiche  di un individuo che lo fanno distinguere dagli altri, dalle altre entità: dal latino  “entitas” (= cosa esistente).

Ognuno di noi  è un'individualità, ma  comunicante con altre”. Nessun individuo è un’isola, completo in sé stesso, ma è una parte del tutto.

Il poeta e chierico londinese John Donne (1572 – 1631)  usa la metafora di un’isola in mezzo al mare, destinata a rimanere sola come una monade, scollegata dal resto del mondo. Nel contempo offre un’altra visione suggestiva: ogni individuo, seppur isola, fa parte di un continente, è una parte del tutto.

Celebre il suo sermone “Nessun uomo è un'isola” (meditazione XVII) del 1624. Il titolo deriva da un passo del “Devotions Upon Emergent Occasions”: “No man is an Iland, intire of it selfe; every man is a peece of the Continent, a part of the maine” [...], vuole significare che ogni uomo è una componente integrante dell'umanità. 

Ecco il testo:

“Nessun uomo è un’isola,
completo in sé stesso.

Ogni uomo è un pezzo del continente,
una parte del tutto.

Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare,
la Terra ne sarebbe diminuita,
come se un promontorio fosse stato al suo posto,
o una magione amica o la tua stessa casa.

Ogni morte d’uomo mi diminuisce,
perché io partecipo all’Umanità.

E così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana:
Essa suona per te”.


Il verso finale: “Per chi suona la campana”  fu usato  dallo scrittore statunitense Ernest Hemingway per titolare il suo romanzo, pubblicato nel 1940.

Invece lo scrittore statunitense e monaco trappista Thomas Merton titolò “Nessun uomo è un’isola” (No man is an island) il suo saggio pubblicato nel 1955.

Infatti una delle fasi fondamentali del ciclo della vita di un individuo può essere  la costituzione della coppia. Dal considerarsi come  “Io” al vedersi come un “Noi”, pur rimanendo due alterità, due entità.


Małgorzata Chodakowska:  la fontana “Liebespaar” (parola tedesca che significa coppia di amanti), gruppo scultoreo in bronzo, collocato  di fronte all’ufficio del registro di Radebeul, località  vicino a Dresda (Germania).

L’artista, di origine polacca, ha studiato la scultura a Varsavia e a Vienna, ma vive a Dresda, in Germania.

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Pensieri, riflessioni, saggi / Re:Eterno femminino
« il: Gennaio 18, 2024, 08:45:02 »
“(eterno) femminino”:  dal latino femininus = femminile, ciò che è caratteristico della donna, allude alla femminilità nella sua essenza "immutabile" (?).

“Sappiatelo chiaramente: l’Eterno femminino in questo giorno / verrà sulla Terra nel suo corpo immortale / nella luce inesauribile della nuova dea. / Il cielo si è versato nell’abisso dei mari. / Tutto ciò che fa bella l’Afrodite terrestre / gioia delle case, dei boschi e dei mari / tutto sarà riunito alla bellezza celeste / più pura, più forte, più viva e più intera”.  (Vladimir Sergeevič Solov'ëv (1853 – 1900), filosofo e poeta russo.

Gabriele D’Annunzio nel romanzo “Il piacere” fa dire da Andrea Sperelli ad Elena Muti:

"C'è più nobiltà di animo e di arte ad immaginare in una sola unica donna tutto l'Eterno feminino o pure un uomo di spirito sottili ed intensi, deve percorrere tutte le labbra che passano, come le note d'un clavicembalo ideale, finché trovi l'ut gaudioso?".

Buongiorno Nina,  gentile amica virtuale, con questo post concludo il topic, forse deludente per le tue aspettative, ma è ciò che posso offrire.
 
Per farmi perdonare offro  in visione  un bel gruppo scultoreo del famoso Auguste Rodin.


Auguste Rodin, “Eternal idol” (L’eterno idolo),  scultura in marmo, 1889, Museo Rodin, Parigi

Eternal Idol ha alcune iterazioni, tra le quali una scultura in bronzo realizzata da Rodin nel 1891 e una in marmo commissionata nel 1893 da Eugéne Carriére, un amico e collega pittore. Il Museé Rodin e il Maryhill Museum hanno versioni in gesso della scultura.

L’artista si distacca dall'idealismo greco e dalla bellezza decorativa barocca per interpretare, in questa come nelle altre sue opere, le emozioni dei soggetti attraverso i dettagli,  le superfici lavorate, i giochi d’ombra.

La  grezza roccia sulla quale sono poggiati i corpi  levigati dei due amanti è scalfita dallo scalpello;  tale lavorazione  evoca Michelangelo Buonarroti e la sua scelta del “non finito”.
 
Eternal Idol presenta una coppia nuda. Lei è un po' sollevata dalla roccia sulla quale  è inginocchiata. Ha le gambe  divaricate per fare spazio al corpo dell’amante, che ha le braccia congiunte dietro la schiena ed è in ginocchio davanti a lei intento a baciarla  sotto il seno. 


 
La donna ha gli occhi chiusi, sembra concentrata sul piacere corporeo;  con le dita della  mano destra si tocca le dita del piede destro, invece con le dita della mano sinistra tocca l’avanbraccio del partner.

L’ineffabile e mordace giornalista Roberto Gervaso scrisse questo aforisma: “Niente, con il passare degli anni, è più caduco dell’eterno femminino”.

:grin:

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Pensieri, riflessioni, saggi / Re:Eterno femminino
« il: Gennaio 17, 2024, 15:39:47 »





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Pensieri, riflessioni, saggi / Re:Eterno femminino
« il: Gennaio 17, 2024, 15:12:46 »
Archè e archetipo

Nel precedente post ho scritto che nell’ambito della psicologia l’eterno femminino è considerato un  archetipo.
 
Cos’è l’archetipo ? Questo sostantivo deriva dal latino archetypum, che a sua volta discende  dal greco antico archétypon: parola composta da “àrche” (= inizio, principio) + “-typon” (= modello).  Significa quindi “primo esemplare, modello originario.

I primi filosofi greci si dedicarono a cercare l’origine e la natura dell’universo: l’arché (= principio, origine):  è la forza primigenia che domina il mondo,  da cui tutto proviene e a cui tutto tornerà.

L’antico filosofo  presocratico Anassimandro (610 a. C. circa – 546 a. C. circa) considerò  l’arché  un principio astratto, indefinito,  l’apeiron: ciò che non ha definizione, che non ha forma o precisa determinazione. In altre parole, l’apeiron è la condizione primordiale, tutti gli elementi non sono ancora distinti e condividono uno stesso stato indefinito e imprecisato.

Nell’ambito della psicoanalisi,   per  Carl Gustav Jung  (1875 – 1961) e altri autori (James Hillman ed Erich Neumann)  gli archetipi sono schemi universali, presenti  in culture e tempi diversi. Compaiono nei miti, nelle religioni,  ma anche nei sogni; formano categorie simboliche che strutturano culture e mentalità,  sono innati e orientano gli individui.
 
Gli archetipi sono come i letti dei fiumi abbandonati dall'acqua, che però possono nuovamente accoglierla dopo un certo tempo. Un archetipo è simile a una gola di montagna in cui la corrente della vita si sia lungamente riversata: quanto più ha scavato questo letto, quanto più ha conservato questa direzione, tanto più è probabile che, presto o tardi, essa vi ritorni” (Carl Gustav Jung, “Aspetti del dramma contemporaneo”).

Jung credeva che gli individui avessero  sia l’inconscio personale (che Freud enfatizzò nella sua teoria psicoanalitica) sia l’inconscio collettivo, che ha un ruolo formativo nello sviluppo psicologico dell’individuo.

Mentre l'inconscio personale è composto da esperienze represse e dimenticate, uniche per ogni individuo, l'inconscio collettivo è universale e condiviso. Non si sviluppa individualmente ma viene ereditato, contenendo la saggezza e la memoria di tutte le esperienze umane nel corso del tempo.

(La teoria dell’inconscio collettivo non mi convince. Prima ci dicono che quando nasciamo psicologicamente siamo “tabula rasa” poi ci vogliono convincere che siamo portatori di ancestrali categorie simboliche).

E’ meglio che allieto il mio spirito con l’arte. Propongo alla vostra visione un'opera dello scultore francese Auguste Rodin


 
Auguste Rodin, Eterna primavera, marmo, 1884, Musee Rodin, Paris

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