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Letteratura che passione / "Aver cura di sé"
« il: Settembre 12, 2024, 17:27:30 »
Nella cura di sé c’è l’essenza dell’essere umano.



La vita, incompleta nella sua essenza, necessita di dare forma al proprio esserci. In questo consiste l’aver cura di sé.

La cura è il nostro esserci, il nostro modo di stare nel mondo con gli altri, dice Luigina Mortari, docente di  Epistemologia della ricerca qualitativa presso la Scuola di Medicina e Chirurgia dell’Università di Verona e Fenomenologia della cura presso il dipartimento di Scienze umane della stessa università.

La Mortari,  nel suo libro titolato: “Aver cura di sé” (Raffaello Cortina editore) riflette sull’arte di esistere, intesa come capacità di dare significato al tempo  e alla conoscenza della propria interiorità, che si può raggiungere solo mediante il confronto con il mondo esterno.

Tutti hanno bisogno di essere oggetto di cura e di avere cura. L'essere umano necessita di essere accudito fin dalla nascita, poi deve di avere cura di sé e  degli altri  per costruire il significato nella sua esistenza.

Nella filosofia greca ci fu una fioritura di interpretazioni della cura di sé: Epicuro,  Epitteto, Crisippo, Plutarco,  Seneca, l’imperatore Marco Aurelio, per citare i riferimenti più importanti. Essi elaborarono  delle indicazioni. Epitteto esplicita precisi canoni in in un manuale, l’Enchiridion (= “oggetto che si tiene in mano”): è un testo di filosofia ed etica stoica, scritto da Arriano, discepolo del filosofo greco, alle cui lezioni aveva assistito, perciò l’opera è attribuita ad Epitteto.

Spesso le pratiche spirituali vengono indicate in forma di sintetiche regole, canoni, con i quali la mente dovrebbe familiarizzare al fine di renderli “strumenti” facilmente attuabili nella vita quotidiana, con l’obiettivo di trasformare la qualità del modo di esserci.

Sono esercizi ispirati a una visione della vita guidata da princìpi essenziali e semplicità. Queste pratiche hanno una potenzialità trasformativa, ma formulate come regole.

Diverse, invece, sono le pratiche spirituali presenti nella filosofia socratica che assume come direzione la cura dell’anima. A Socrate è importante far riferimento perché ha una diversa enunciazione delle pratiche, meno regolativa e più poetica, ed anche perché la cura del sé interiore è concepita in connessione con la cura della vita politica.

Nel nostro tempo si reputa necessario elaborare una filosofia dell’esistenza che sappia orientare e cercare una sapienza del vivere, che riguarda non solo la vita interiore ma anche la vita relazionale.

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Pensieri, riflessioni, saggi / "Ebreo errante"
« il: Settembre 12, 2024, 10:26:23 »


L'ebreo errante è un personaggio della mitologia cristiana, protagonista di un racconto popolare che  ebbe numerose elaborazioni nelle letterature europee.

Tale racconto è basato su alcuni passi  evangelici, quello di Matteo (16, 28):  “In verità io vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non moriranno, prima di aver visto venire il Figlio dell'uomo con il suo regno".

E  quello di Giovanni (21, 23): “Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto.”[ …].

Nei secoli successivi numerose furono le interpretazioni in merito.

La cronaca anonima di un monaco cistercense dell’abbazia di Santa Maria della Ferraria, a Vairano Patenora, in provincia di Caserta, riferisce che nel 1223 giunsero nella badia dei pellegrini europei. Questi testimoniarono d'aver incontrato, in Armenia  “quendam Judaeum” un ebreo che vagava da secoli per l'Europa.
Durante la Passione sulla strada che conduce al Calvario, Gesù  gli avrebbe detto: “ego vado et tu expectabis me donec revertar” (=  io vado e tu mi aspetterai fino al mio ritorno).

Le caratteristiche dell'errabondo variano a seconda delle differenti versioni del racconto leggendario. 

Anche allo scrittore e drammaturgo tedesco Johann Wolfgang von Goethe (1749 – 1832) venne l’idea di elaborare epicamente la storia dell’ebreo errante, ma questo dramma rimase incompiuto.
Il racconto  è collegato ad  una lettera  scritta in gioventù da Paul di Eitzen, divenuto poi vescovo di Schleswig, e pubblicata nel 1602, ma lo scritto originario è del 1542.

Nel periodo romantico al leggendario Assuero furono attribuiti significati simbolici: rappresentante del suo popolo, tenace e perseguitato; negatore di Dio, con cui si riconcilia dopo una lunga espiazione; oppure simbolo dell’interminabile cammino dell’umanità, anelante alla pace e alla giustizia.

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Pensieri, riflessioni, saggi / Re:Teatro e dintorni
« il: Settembre 10, 2024, 18:14:01 »
Nessuna maschera antica indossata dagli attori è giunta fino a noi, causa la deperibilità dei materiali usati per realizzarle, ma abbiamo numerose riproduzioni in terracotta o gesso, possiamo vederle  anche negli antichi affreschi,  nei mosaici, nei vasi dipinti.


 
Nel teatro latino le maschere erano simili a quelle usate nel teatro greco.


Affresco con attori, Casa di Casca Longus o dei Quadretti teatrali,  Pompei.
L’attore sulla sinistra indossa una tunica corta: la indossavano gli schiavi, legata alla vita da una cintura.

Il complesso edilizio  dove sono questi affreschi parietali è formato dall'unione di due case adiacenti del II sec. a.C.. Di ottimo livello sono le pitture nell’atrio: sostituirono in età augustea le precedenti decorazioni con scene teatrali ispirate dalle commedie di Menandro.

Su un lato dell’impluvio c’è il tavolo sorretto da tre sostegni marmorei a zampa leonina che recano inciso il nome dell’originario proprietario, Publius Servilius Casca Long(us), uno dei congiurati che a Roma uccisero Giulio Cesare nel 44 a.C..




 
I costumi di scena. Gli attori romani indossavano, con minime variazioni, sempre gli stessi abiti, con colori distintivi della categoria (sociale, anagrafica) cui appartenevano i loro personaggi. Gli eventuali cambi d’abito nei camerini dietro la “scenae frons” avvenivano in modo rapido.












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Pensieri, riflessioni, saggi / Re:Teatro e dintorni
« il: Settembre 10, 2024, 08:39:35 »


“Tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori: essi hanno le loro uscite e le loro entrate; e una stessa persona, nella sua vita, rappresenta diverse parti” (dalla commedia di William Shakespeare: “Come vi piace”. La frase è detta da Jaques, innamorato di Aldrina, atto II, scena VII).

Le relazioni sociali spesso costringono l’individuo ad “apparire” più che essere, a mostrarsi per ciò che non si è o si vorrebbe essere, per farsi accettare, amare. L’apparire può indurre a mentire, ad indossare una virtuale maschera che copre il vero volto.



Nelle culture antiche la maschera aveva un significato simbolico e rituale, collegato a credenze religiose, perciò le maschere venivano utilizzate durante riti, cerimonie sacre e altre celebrazioni importanti.  Negli scavi archeologici  sono numerosi i rinvenimenti di maschere in terracotta o di piccole statuine teatrali anche nei corredi funerari.

Nell’antica Grecia la nascita del teatro coincise con l’ideazione e l’utilizzo delle prime maschere per caratterizzare il personaggio con l’espressione facciale.  Di solito venivano realizzate con tela di lino, legno, sughero, cuoio, cartapesta.

La maschera fungeva  anche da cassa di risonanza: la parte della bocca era fatta in modo tale da amplificare la voce ed essere ascoltata anche dagli spettatori più distanti dal palcoscenico,  in fondo alla platea.

Prosopon” (= volto) era la parola usata in ambito teatrale per alludere sia al viso sia alla maschera usata dagli attori. Da prosopon deriva nella lingua italiana la parola “prosopopea”.

Nella lingua latina la maschera teatrale era denominata “persona”, parola di probabile origine etrusca, da “Phersu”.  A Tarquinia (prov. di Viterbo) in alcune tombe etrusche ci sono fregi che rappresentano “Phersu”, personaggio mascherato.

Con la filosofia stoica la parola “persona”  venne ampliata di significato e cominciò ad indicare  l'essere umano. Poi Tertulliano  (155-230) usò  tale sostantivo per  descrivere la trinità: "una sostanza (una substantia), tre persone (tres personae).

Per i Greci il sostantivo “persona” indicava sia il volto, sia la maschera, sia il personaggio.

Dall’epoca del commediografo greco  Aristofane (450 a. C. circa – 385 a. C. circa) a quella del commediografo greco Menandro (342 a. C circa  - 291 a. C. circa) la maschera dell’attore comico (e forse anche di quello tragico) subì cambiamenti rispetto alle maschere realistiche con le fattezze  di personaggi della vita pubblica ateniese. Con la nuova commedia la tipizzazione dei ruoli comportò anche la fissità delle tipologie: ogni personaggio  indossava la propria.  All’entrata in scena dell’attore il pubblico capiva subito chi era: erano sufficienti la maschera e l’abbigliamento indossati.

Invece il teatro latino di epoca romana , erede della fase evolutiva nel processo di tipizzazione delle maschere,  mirò ad evidenziare ancora di più la corrispondenza  tra maschera e caratteristiche del ruolo interpretato.

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Pensieri, riflessioni, saggi / Re:Teatro e dintorni
« il: Settembre 07, 2024, 15:28:19 »

“Vaso di Pronomos”: come tipologia è un kratḕres (cratere), alto 73,5 cm, a figure rosse, di produzione ateniese, realizzato nel 400 a. C. circa.

Il dipinto evidenzia l’intento celebrativo al dio Dioniso, considerato patrono del teatro.

La scena, delimitata da due tripodi che simbolicamente segnano lo spazio sacro di un santuario, si articola su due registri.

Faccia A,  così detta, perché considerata la più rilevante, 

registro superiore: al centro ci sono le figure di Dioniso e la sua sposa Arianna distesi su una klìne (= letto conviviale) e abbracciati; sul suo  nudo torace cadono morbidi riccioli; l’himation (il mantello)  che gli copre le gambe è decorato  con motivo a palmette e sfingi; invece Arianna è rappresentata con la chioma raccolta da uno chignon e indossa il chitone.

Vicino ad Arianna siede la musa  Paidia; è voltata verso la coppia e regge nella mano sinistra una bianca maschera teatrale femminile; a lei il giovane alato Himeros, personificazione del desiderio, porge una corona; accanto a loro gli attori principali, ciascuno con la maschera corrispondente al personaggio interpretato: uno ha il ruolo di Eracle, un altro, con costume di lanugine bianca, interpreta  Papposileno; alle spalle di Dioniso un attore nel ruolo di un re orientale, affiancato da coreuti con gonnellino corto di pelle: il primo ha sulla testa una corona d’edera, poggia il braccio sulla spalla dell’altro e volge il capo per guardare la maschera da satiro che solleva con l’altro braccio.

Le caratteristiche dei costumi suggeriscono il possibile soggetto del dramma: l’episodio del salvataggio della principessa Esione, figlia del re di Troia Laomedonte, da parte di Eracle.

Registro inferiore, al centro c’è il personaggio che ha dato il nome al vaso, il flautista Pronomos, auleta tebano seduto su un klismos (sedia con seduta e spalliera ampie), che suona il doppio flauto; alle sue spalle un coreuta esegue un passo di danza (denominata sìkinnis) mentre il poeta Demetrios, l’autore del dramma, ha in mano il rotolo del testo teatrale.
La veduta sembra rappresentare un momento di riposo, gli attori parlano tra loro.

Faccia B


Rappresenta Dioniso e personaggi del suo corteo festante. Potrebbe alludere alla celebrazione di una vittoria teatrale.

Al centro, la fuga gioiosa di Dioniso e Arianna, circondati dai satiri e dalle menadi del thiasos: l’associazione religiosa che nell’antica Grecia celebrava  il culto del dio Dioniso con processioni, canti e danze.

Dioniso si è  liberato del mantello che nell’altra parte gli copriva le gambe e corre tenendo stretta Arianna con un braccio e reggendo nell’altra mano la lira.

Nel registro inferiore si vede  un maculato leopardo (o giaguaro ?).

Il “vaso di Pronomos” fu rinvenuto nel 1835 a Ruvo di Puglia in una tomba apula. Faceva parte di un ricco corredo funebre, insieme ad oggetti preziosi.

Il rinvenimento di questo vaso in Puglia non stupisce, perché la produzione vascolare ateniese fu oggetto di un’intensa esportazione, soprattutto verso le colonie della Magna Grecia e della Sicilia, ma raggiungeva anche l’Etruria.

Il cratere era usato per mescolare vino e acqua nel simposio greco. Veniva collocato su un tavolo al centro della stanza e riempito in parte con il vino e l’aggiunta di acqua per diluirlo e abbassare il contenuto alcolico.

Il kratḕres di Pronomos è temporaneamente esposto a Roma nella citata mostra, ma è custodito nel Museo Archeologico di Napoli.

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Pensieri, riflessioni, saggi / Re:Teatro e dintorni
« il: Settembre 06, 2024, 16:49:37 »
In quest’ora pomeridiana  vi offro una bevanda entro una kylix di produzione attica, risalente al 560 – 550 a. C.. E’ a figure nere. Rappresenta una phallophoria: la processione che accompagnava il simulacro del fallo, simbolo della fecondità.

La kylix è una coppa da vino, in ceramica con due anse. Questa  è temporaneamente in mostra a Roma nel Museo dell’Ara Pacis, dopo tornerà nel Museo Archeologico di Firenze.
 


In questa parte della coppa si vede una processione fallica. Uomini nudi trasportano un lungo palo con l'estremità verso l'alto a forma di fallo, inoltre, si vede un occhio inciso.
Poggiando i piedi sul supporto orizzontale e afferrando il fallo con le mani, un satiro (con barba e capelli fulvi, e il pelame del corpo tratteggiato) si piega quasi a cavalcioni del grande phallos , ma nel contempo è cavalcato da un giovane che suona un keras, il bianco corno musicale, e lo sprona con il kentron, il frustino usato per i cavalli da corsa.
Un dionisiaco tralcio d'edera dalle foglie rosse e nere si erge verso l'alto sulla sinistra  della scena.

La kylix veniva usata nei simposi fino al IV a. C., poi  nel tempo  fu sostituita dal kàntharos di ceramica, usato come coppa da vino nei rituali dionisiaci.

Un esempio di kántharos in ceramica per contenere il vino:



Anche all'interno il fondo era spesso decorato con figure o scene: queste, occultate dal vino contenuto,  diventavano gradualmente visibili solo durante le bevute.  I soggetti raffigurati erano spesso ideati in funzione di questo effetto.

Veniva usato nei simposi: pratica conviviale che faceva seguito al banchetto, durante la quale i commensali bevevano il vino dal kantharos,  intonavano canti e si dedicavano a intrattenimenti di vario genere.

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Pensieri, riflessioni, saggi / Re:Teatro e dintorni
« il: Settembre 06, 2024, 07:45:23 »
immaginaria e-mail inviata a mia nipote.

Attore / attrice: è un lavoro e nel contempo arte effimera: esiste “qui e ora” sul palco, ma  dopo la chiusura del sipario svanisce. 

Perché recitare ? Per curiosità, ambizione, per essere ammirati e applauditi ?

E’ importante capire in che modo si deve procedere per trasformare una generica e indistinta motivazione in un’attività da mettere a punto sera dopo sera, nella routine delle repliche, affrontando vari tipi di pubblico.

Per saper recitare è necessaria la tecnica, tramite un rigoroso percorso formativo.

Sono determinanti gli esercizi, le metodologie di apprendimento riguardo alla gestione del corpo e del movimento, del respiro e della voce, mettendo in luce quanto sia necessario avere consapevolezza dei propri continui cambiamenti di stato, emotivo e fisico, analizzandoli, assecondandoli e sfruttandoli, per giungere alla percezione nitida ed efficace del proprio stare in scena, perché in teatro non ci si esibisce, si comunica. L’attore ha come obiettivo di dare l’illusione agli spettatori di una plausibile realtà.

L’attore, regista teatrale  e teorico del teatro  Konstantin Sergeevič Stanislavskij (1863 – 1938), noto per essere l’ideatore del “metodo Stanislavski”, pretendeva dagli attori la loro  l’immedesimazione totale col personaggio rappresentato in scena. 

A teatro noi assistiamo allo svolgersi di esistenze in cui spesso troviamo frammenti che ci appartengono.

L’attività teatrale ha due aspetti: il linguaggio verbale e quello non verbale, aiuta a potenziare l’abilità comunicativa e a relazionarsi con gli altri, tramite l’uso consapevole del corpo, della voce e dello spazio.

Le tecniche teatrali aiutano  a conoscersi e gestire le posture i  gesti, la  voce, l’uso dello spazio scenico, la propria capacità di comunicazione e renderla più efficace.

"Fare teatro" significa imparare ad osservare l’altro e ascoltarlo, al fine di comprenderlo. Solo in questo modo è possibile interpretare il linguaggio non verbale dell’interlocutore e capire quando intervenire sia con il corpo che con la voce.

Per fare l’attore, l’attrice significa: esercizi, prove, simulazioni, studio del copione, creazione del personaggio. Questi esercizi facilitano la comunicazione e la comprensione reciproca, l’espressione dei sentimenti e delle emozioni.

L’attività teatrale aiuta a superare la timidezza,  il timore di parlare, insegna ad aprirsi agli altri senza timore di giudizio e di valutazione.

Fare teatro significa comunicare ed è importante rafforzare questo aspetto in quanto si riflette anche a livello scolastico.

Parlare agli altri in modo fluente e disinvolto può aiutare gli alunni anche nell’esposizione delle varie discipline scolastiche. Il fine è quello di sentirsi sicuri di fronte all’interlocutore ed esprimere al meglio storie, considerazioni, idee o la rappresentazione del proprio personaggio.

L’attività teatrale aiuta l’autostima e la sicurezza di sé.

p.s. (= post scriptum): quando vedi i film in televisione in alcuni momenti trascura le immagini ed ascolta le parole, fai attenzione alle pause, alle diverse tonalità della voce che usano gli attori o i doppiatori cinematografici.

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Anch'io Scrivo poesia! / Re:"Ad alcuni piace la poesia"
« il: Settembre 04, 2024, 22:08:10 »
Ciao Ninag, bentornata tra noi  :Ppp:

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Pensieri, riflessioni, saggi / Teatro e dintorni
« il: Settembre 04, 2024, 18:06:15 »


Si apra il sipario, comincia lo spettacolo !


Come state messi con l’attività teatrale ?  :happy:

Vi piacerebbe  salire sul palcoscenico e recitare ?  ???
A me piace !  :dsew:

Per un paio d’anni  all’università ho fatto parte della locale compagnia teatrale, anche per rimanere più tempo con una ragazza. 

Debbo dire che come piacevole passatempo l’attività teatrale  è un processo di formazione individuale, permette di fare esperienza  della propria interiorità:  le emozioni, i sentimenti.

Lo spazio teatrale è “un luogo dei possibili”, in cui fantasia e creatività possono esprimersi liberamente. E’ comunicazione e percorso individuale in un lavoro di gruppo. La pluralità di forme espressive impegnano integralmente la persona.

L’educazione alla teatralità dà la possibilità di esprimere la propria specificità mediante la voce e il corpo.

Ora basta col panegirico dedicato al teatro.

Passo alla cronaca per informarvi che a Roma, fino al 3 novembre, nel Museo dell’Ara Pacis c’è l’interessante mostra  dedicata al teatro nell’antichità, agli autori, attori e pubblico di quel tempo. Ma di questo argomenterò nel prossimo post, quando potrò.   :)

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Anch'io Scrivo poesia! / Re:"Ad alcuni piace la poesia"
« il: Settembre 03, 2024, 08:50:05 »
Poiesis: questo antico sostantivo deriva dal verbo greco ‘poieo’ che significa  ideare,  creare  comporre.

Fu lo storico e geografo Erodoto di Alicarnasso (vissuto tra il 484 e il 430 circa a. C.) ad usare per la prima volta la parola “poiesis”, di solito tradotta con il significato di “creazione poetica”,  la “poesia”.

La poiesis / poesia rimanda al “parlare in versi”, ma l’atto poietico è legato al generare, il “fare dal nulla” secondo l’antico filosofo Platone (Symposium).

Poiesis vuol dire creare, ma ogni parto è dolente.  Chi ha sperimentato l’ispirazione poetica, anche solo un verso, sa quanto gioioso possa essere l’atto creativo, specie  se ispirato da Calliope, la musa della poesia epica nella  mitologia greca. Figlia di Zeus e Mnemosine, è conosciuta come la Musa di Omero, l’ispiratrice dell’Iliade e dell’Odissea.


Auguste Alexandre Hirsch, Calliope  suona  la musica del giovane Orfeo, olio su tela, 1865, Museo d’arte e archeologia del Perigord, nel Comune di Périgueux, Francia.

Il poeta fiorentino Mario Luzi disse che la poesia è una necessità nel cammino della vita. Riordina le esperienze, dà significato al nostro essere e al nostro soffrire, a  ciò che pare non averne. E’ quel supplemento di verità di cui sentiamo bisogno.

Ma non bisogna confondere i “versificatori” con i poeti che dicono cose che vanno oltre il tempo.

Sono molti gli aspiranti poeti che si “autoleggono” ma non acquistano libri di poesia.

Si dice che ormai non c’è più posto per la poesia, ed è vero, ma la poesia non vive di mercato.

Negli scaffali delle librerie i testi di poesia ci sono in vendita, ma vengono acquistati soltanto dagli studenti obbligati a leggerli. E quando smettono di andare a scuola  non li acquistano più.

Il feeling tra poeti e lettori è inficiato dai tanti libri di cosiddetti poeti senza vocazione e senza “mestiere”, che fanno stampare le loro poesie a loro spese dalle tipografie o da piccoli editori. Sono opuscoli o libri fatalmente destinati alla lettura da parte di amici o al cestino dei recensori.

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Anch'io Scrivo poesia! / "Ad alcuni piace la poesia"
« il: Settembre 02, 2024, 21:14:24 »
La poetessa polacca Wislawa Szymborska (1923 – 2012), premiata con il Nobel per la letteratura nel 1996,  nella sua composizione in versi titolata “Ad alcuni piace la poesia” l’autrice s’interroga sul valore della poesia e sulla sua funzione.

Ecco il testo:

“Ad alcuni?
cioè non a tutti.
E neppure alla maggioranza, ma alla minoranza.
Senza contare le scuole, dov’è un obbligo,
e i poeti stessi,
ce ne saranno forse due su mille.

Piace?
ma piace anche la pasta in brodo,
piacciono i complimenti e il colore azzurro,
piace una vecchia sciarpa,
piace averla vinta,
piace accarezzare un cane.

La poesia?
ma cos’è mai la poesia?
Più d’una risposta incerta
è stata già data in proposito.

Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo
come all’àncora d’un corrimano”
.

Ironica e provocatoria la riflessione della Szymborska: l’autentico poetare è un dono raro. 

L’autrice pone nella conclusione la domanda fondamentale: “Ma cos’è mai la poesia ?” Ed esprime il suo dubbio, reso dalla ripetizione: “io non lo so, non lo so”.  Però Wislawa tramite una metafora ci dà una risposta certa: la poesia è come un corrimano: è sostegno, a cui aggrapparci nelle traversie della vita. Ha una funzione di conforto.

Dice che l’arte poetica non è per tutti, non appartiene alle masse ma all’intimo dell’individuo.

La si studia nelle scuole ma non è detto che piaccia agli studenti, e i veri poeti, afferma Szymborska, sono “due su mille”.



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Arte / Re:"The golden fish"
« il: Agosto 29, 2024, 17:37:42 »
Il tema del pesce nell' opera di Klee è presente varie volte e in diversi modi.


Paul Klee, Fish magic, olio e acquerello su tela applicata su tavola, 1925, Philadelphia Museum of Art

Questo bel dipinto di Klee è un collage surrealista.

In basso, sulla sinistra, è raffigurato un uomo col cappello conico.

Sono presenti anche due doppi coni: quello a sinistra è dominato dal sole nascente, quello sulla destra è usato come porta-vaso per i fiori. Vicino ad esso ma verso il centro, c’è la figura di una donna (un uomo ?) che saluta.
 
 Dei 6 pesci, 4 si dirigono verso il centro: lo spazio è occupato da una chiesa, in ombra, con la torre dell’orologio che segna le ore 9. In alto a destra la lunga linea diagonale raggiunge la cima del campanile.
 
 Tre cerchi sparsi sull'immagine evocano il sole e i pianeti.

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Arte / Re:"The golden fish"
« il: Agosto 29, 2024, 17:33:24 »
ci sono alcune versioni della fiaba “Il pesciolino d’oro”.

Le più conosciute sono quella scritta dai Fratelli Grimm, pubblicata nel 1812, e quella dello scrittore e poeta russo Aleksandr Sergeevič Puškin, pubblicata nel 1832.

Comincia così:

“Sul mare-oceano, sull’isola di Bujan, c’era una volta una piccola casetta, un’izba decrepita, nella quale vivevano due persone anziane e povere. Lui confezionava le reti da pesca e andava al mare per prendere i pesci. Ne prendeva solo quanto ne bastava per il vitto quotidiano.

Una volta l'uomo lanciò la rete, cominciò a tirare e si accorse che era molto pesante. Guardò: la rete era vuota; c’era solo un pesciolino, ma d’oro.

Il pesciolino con voce umana disse al vecchio: “Non prendermi. Se mi lasci tornare nell’azzurro mare ti sarò riconoscente: farò quello che vorrai”.


illustrazione del pittore russo Valentin Alexandrovich Serov, Il pesciolino d’oro.

Il vecchio ci pensò, poi disse al pesce: “Che bisogno ho di te? E lo lanciò in mare, poi tornò a casa e... ebbe problemi con la moglie

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Fotografia / Villa Pisani, Stra
« il: Agosto 28, 2024, 18:17:57 »
Villa Pisani


Villa Pisani, situata nella riviera del fiume Brenta, a circa 10 minuiti da Padova e 20 minuti da Venezia.

L’edificio ha 114 stanze. Fu la villa “estiva” della nobile famiglia Pisani, del patriziato veneziano.  Ospitò dogi, re e imperatori.

Questa residenza del Settecento oggi è un museo nazionale che conserva arredi e opere d'arte del Settecento e dell'Ottocento, tra cui il capolavoro di Gianbattista Tiepolo “Gloria della famiglia Pisani”, affrescato sul soffitto del maestoso salone da ballo.

Nel parco c’è lo scenografico labirinto di siepi, l’orangerie, le serre con piante tropicali.

In questa villa-museo fino al  27 ottobre c’è la mostra fotografica di Federico Garolla (Napoli, 1925 - Milano, 2012). 

Questo  bravo giornalista  e fotografo colse la vita culturale italiana in una serie di racconti fotografici che ritraggono pittori, scrittori, musicisti, attori e attrici di cinema e teatro, ma anche la gente comune, le tematiche a sfondo sociale; con empatia colse il realismo del dopoguerra: la quotidianità di tante persone che cercavano di sottrarsi alla miseria facendo lavori molto faticosi, adatti ai buoi o ai muli 

La seguente immagine è eloquente


nei pressi di Villa Pisani, Stra (prov. di Padova)

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Arte / "The golden fish"
« il: Agosto 26, 2024, 10:04:30 »

Paul Klee, "The golden fish" (il pesce d’oro),  olio e acquerello su carta, 1925,  Kunsthalle di Amburgo

In questo famoso dipinto il pesce d’oro sembra mettere in fuga gli altri pesci.

Nel mare blu ondeggiano piccole piante acquatiche. E’ evidente  il contrasto tra la centralità del lucente pesce d’oro e i colori tenui  degli altri pesci che si  dirigono verso  gli angoli del quadro.

Oltre  per l’uso del colore, "The Golden Fish" si distingue anche per le sue forme astratte e geometriche.

Un detto russo afferma: “Se si pesca il pesce d'oro e lo si lascia tornare in mare, ogni desiderio potrà essere esaudito”.

Invece il cantante Fabrizio De André nella canzone titolata “Le acciughe fanno il pallone”  dice:

[…] Bottiglia legata stretta
Come un'esca da trascinare
Sorso di vena dolce
Che liberi dal male.
Se prendo il pesce d'oro
Ve la farò vedere
Se prendo il pesce d'oro
Mi sposerò all'altare”.
[…]

Il pittore Ernst Paul Klee (1879 – 1940)  con i colori esprimeva le sue emozioni e gli stati d'animo.
Fu un esponente dell’astrattismo, il movimento artistico che esula dalla rappresentazione di oggetti reali. Usa un linguaggio visuale di forme, colori e linee per creare composizioni pittoriche e scultoree.

Per Klee l’arte non è riproduzione della realtà: “L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è.”  Egli descrive la sua arte come una delle sole forme capaci di riprodurre l’invisibile, distaccandosi dalla percezione sensibile.

Il pittore deve rendere visibili gli altri mondi possibili, andando oltre la realtà del visibile, così inquieta le coscienze, tende al mistero, rivela quella bellezza che si manifesta come un’epifania sempre nuova.  :)






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