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Post - Steven Joseph

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Sentimentale / Piramo e Tisbe (Parte 2)
« il: Luglio 29, 2014, 11:29:54 »
Una volta a casa mi distesi sul divano e accesi la televisione. Niente di nuovo dal mondo. Il telegiornale parlava delle solite manovre del governo, degli incidenti del sabato sera e di una bambina scomparsa. A volte, osservando quelle immagini capivo come il mondo mi facesse profondamente orrore. Capivo che l’umanità non aveva mai imparato a rispettare la vita umana e a volersi bene. Pensai a quella bambina e a tutto quello che poteva esserle successo. Pensai ai suoi genitori, a come questi non riuscissero a rassegnarsi all’idea di non vederla più scorrazzare in casa urlando di felicità. Vedevo la foto che continuava ad apparire sullo schermo di lei al mare e me la immaginai proprio quel giorno quando, spensierata, giocava sulla sabbia. Chi avrebbe mai immaginato che la foto che per scherzo i genitori le avevano scattato, sarebbe diventata tristemente famosa. Ripensai a tutti i sogni di quella ragazzina: voglio diventare una principessa o che altro. E poi il nulla. Solo allora, alla fine dei miei pensieri pensai a lui: quella “persona” che aveva fatto questo. Non si sa perchè l’avesse fatto , perché avesse rovinato la felice vita di una famiglia che forse non conosceva neppure. Non volli soffermarmi oltre su di lui. Non meritava importanza. Tornai a fissare la televisione e vidi che, mentre ero perso nei miei pensieri, avevano già cambiato argomento. Era così per tutti quelli che morivano. Qualche minuto al telegiornale e poi nessuno ci pensava più. Decisi di spegnere quell’apparecchio infernale e rimasi sul divano. Chiusi gli occhi e poi avvertì un rumore dall’appartamento accanto al mio. Era lei. Per tutto il giorno quella donna era rimasta al centro dei miei pensieri. L’avevo inseguita per strada, l’avevo pensata al lavoro, l’avevo percepita al supermercato e adesso se avevo fortuna potevo persino sentirla cantare di nuovo. Non ero sicuro che lo facesse ma sperai fin quasi a stare male di udire una nota al pianoforte. Una sola e quella sarebbe stata la conferma che al mondo esiste il bene. Non sapevo chi fosse stato ad accogliere le mie preghiere, fatto sta che il pianoforte iniziò a suonare. Era una canzone che non conoscevo, ma non mi importava. L’importante era che io conoscessi quella voce. Quel timbro e quelle sfumature erano impresse dentro di me come sul marmo. Quella sera, però, notai che c’era qualcosa di diverso. Mentre la voce che avevo udito la sera prima era piena di malinconia, la voce che quella sera prese ad abbracciare il mio cuore era più vitale, più carica di energia e di speranza. Qualcosa era cambiato in lei. Qualcosa l’aveva trasformata.
Decisi improvvisamente di fare una cosa che mai il giorno prima mi aveva sfiorato la mente. Ripresi a lavorare al mio dipinto. Volevo che quella musica facesse da sottofondo al mio lavoro e pensai che non poteva esserci musica migliore che alimentasse la mia ispirazione creativa. Mentre le sue dita premevano sul pianoforte le mie guidavano il pennello sulla tela. Ormai eravamo diventati una cosa sola. L’arte si incarnava in noi. Le nostre menti producevano la bellezza e le nostre anime si univano senza saperlo in quei pochi attimi. Nessuna esperienza mai fatta prima di allora in vita mia poteva raggiungere questa a livello di trasposto emozionale, inoltre non mi ero mai sentito così ispirato mentre dipingevo. Forse soltanto quando avevo iniziato a dipingere da giovane e avevo la testa piena di idee che fremevano per diventare sostanza. Questo, però, era diverso. Era amore.
Da quella sera la mia vita cambiò radicalmente. Quella voce era il rimedio contro la mia solitudine e l’unico rifugio che mi poteva offrire protezione quando ne avessi avuto più bisogno. Ogni giorno, per tutto il giorno la mia attenzione era su di lei. Tutti i miei pensieri si perdevano nella sua voce e niente riuscì mai ad interessarmi di più. Per tutto il giorno aspettavo circa le sei e poi lei incominciava. Non aspettavo altro che lei. Io vivevo per la sua voce.
Da quella sera in avanti, il suo canto divenne una specie di routine per me. Ogni giorno più meno alla stessa ora lei si sedeva al pianoforte e io iniziavo a sognare. Mi mettevo davanti alla tela, dipingevo e lasciavo che la musica guidasse i miei pensieri. Adoravo quella voce, forse in maniera esagerata, ma da quando la conobbi, non seppi più farne a meno.
Una di quelle sere, una come tante in verità, stavo ascoltando come sempre la sua esibizione quando un’illuminazione mi folgorò. Ricordai il perché avessi messo il mobiletto di legno con sopra la televisione proprio in quel punto. Mi ero accorto anni fa che lì, proprio in quel punto, c’era una crepa nel muro. Esattamente nel muro che ci divideva. Decisi, così, di spostare tutto e la ritrovai. In fondo a cosa mi serviva la televisione? Con quell’angelo che cantava tutte le sere non potevo volere altro. La crepa non era molto grande per cui non riuscii a vedere quasi niente. In compenso, però, si ascoltavano benissimo anche i suoi respiri. Non volli interromperla, per cui lasciai che finisse. Era un segno. Dio aveva capito che non avevo il coraggio per conoscerla di persona, così decise di darmi una possibilità e ci mise in contatto. Da allora decisi che le avrei parlato. Volevo con tutto me stesso conoscere il nome di quella creatura benedetta che mi faceva sognare senza volerlo. Sentii la ragazza alzarsi e allontanarsi.
- A chi era dedicata quella canzone?-
Lei si bloccò. –Chi c’è?- fece spaventata.
- Sono il tuo vicino. E’ da molto tempo ormai che ti sento cantare e devo dire che…- mi interruppi quando la sentii avvicinarsi. – devo dire che mi fai sognare ogni volta-
La ragazza non parlò e si accostò alla crepa. – Oh mio Dio, tu...tu sei… Non immaginavo che abitassi…- sembrava confusa e balbettava qualcosa di incomprensibile.
- Come dici?-
-Niente. Sono…sono felice di conoscerti. Ti chiami?-
-Piramo- feci io. – Piramo Rossetti. Sono italiano. Tu?-
- Davvero? Beh, io invece sono nata nel Mayne. Dimmi, com’è l’Italia?-
- Meravigliosa. Mi manca molto, sai.-
- Immagino. Ho sempre sognato di visitarla. Io sono Tisbe Rutherford. Scusami se ti ho disturbato, ma quando canto non mi accorgo di niente. Mi dimentico persino di abitare in un condominio e che magari posso disturbare.-
-Ma che, nessun disturbo. Anzi, adoro la tua voce. Sembri un angelo, lo sai. Ho cercato molte volte di trovare il coraggio di bussare alla tua porta e di conoscerti, ma non l’ho trovato, così ti stavo ad ascoltare tutte le sere e le tue canzoni mi facevano dimenticare la gabbia nel quale il mondo mi ha rinchiuso. Sentendoti cantare mi sembrava di poter volare via. Via da questo schifo di città, via da tutto e da tutti. Non sai quanto sei stata importante per me in questi giorni.-
La sentii singhiozzare come una bambina. – Che ti prende, Tisbe?-
-Io… nessuno mi aveva mai parlato così. Non sapevo che fossi tutto questo per te.-
Io cercai di sbirciare dalla crepa ma non la vidi, capii che era appoggiata al muro, a fianco della crepa. Feci altrettanto e così ci trovammo schiena contro schiena se non fosse stato per quello strato di cemento che divideva i nostri due appartamenti.
Aspettai che si riprendesse e poi ripresi a parlare.  «Ogni sera, quando cantavi, io riuscivo a trovare la giusta ispirazione e così dipingevo senza fermarmi. In anni e anni di pittura non mi era mai capitato di essere così preso nel mio lavoro e questo è merito della tua musica»   
- Davvero? – la sentii nuovamente immergersi in un pianto che avrei voluto fermare a tutti i costi, se non fosse stato per quella parete.
- Ti piace davvero così tanto la mia voce? – chiese con la voce rotta dalle lacrime.
- Scherzi? -
Lei non rispose. – Adoro la passione che metti nella tua voce. -
La sua voce si fece seria, anche se l’eco del pianto si avvertiva ancora. - E’ frutto del male che il mondo mi ha voluto –
Rimasi paralizzato dalla freddezza delle sue parole, sia per il significato che per come le aveva pronunciate. Non volli interromperla e aspettai che continuasse da sola il racconto, se lo desiderava.
- Avrei tanto voluto calcare qualche palco importante, portare la mia musica in giro per il mondo e guadagnarmi da vivere facendo la cosa che adoro, però… beh ho capito che non funziona così. La vita mi ha costretto a lavoretti insignificanti per cercare di sopravvivere. I miei credevano molto in me, ma siccome la vita o Dio o chiunque ci sia lassù mi odia profondamente, mi sono stati rubati in una sera di febbraio. Da allora il baratro si è fatto sempre più profondo e, seppure mi illudessi che non potessi precipitare per tutta la vita, non riuscivo a non piangere - si interruppe. Forse ragionava su ciò che poteva o non poteva dirmi. – Quando tu mi hai detto che la mia musica è così importante per te, io…io ho visto la luce alla fine del tunnel. Ti ringrazio, Piramo. Grazie -
Sentivo che quelle parole provenivano direttamente dal suo cuore, senza censure o segreti. Sentivo nella sua voce tremante che non si aspettava quella mia reazione. – Adesso basta parlare di me, dimmi chi sei -  Le raccontai che anch’io come lei non avevo avuto molto dalla vita. Si sa, mentre il canto o la musica in generale sono molto richiesti, l’arte è… beh diciamo solo che non sono in molti a preferirla. Continuavo a sbarcare il lunario senza progetti per il futuro e senza che la vita mi offrisse mai un’ occasione per sorridere. Fino ad allora. Da quando per la prima volta la sua voce mi penetrò nell’anima tutto cambiò. Una scintilla di speranza accese in me la felicità, come un fuoco inestinguibile. Passammo l’intera notte a raccontarci, schiena a schiena, cuore a cuore. Sapevo che lei era la ragazza perfetta. Sapevo come era fatta, dentro. Il fuori non mi interessava. Era fragile, dolce. Aveva solo bisogno che la gente la apprezzasse. Forse da quando i suoi genitori se ne andarono lei non aveva più ricevuto un complimento. Mai. Magari riconoscevano la sua bravura, ma l’invidia e la presunzione tappava loro la bocca. Quando mi sentì le parve di udire i suoi genitori, le parve che loro fossero in me, discesi per dirle che ero quello giusto. Sentivo che niente poteva dividerci, neppure quello stupido muro. Ad un certo punto ebbi l’istinto di oltrepassarlo e andare da lei. In fondo bastava solo uscire dalla mia porta ed entrare nella sua. Le proposi se l’indomani ci saremmo potuti vedere. Avevo voglia di vederla nella sua fisicità. Volevo che Tisbe diventasse sostanza e non più solo una voce nella mia testa o al di là di un muro.
- Io… io… perché? Non ce n’è alcun bisogno. Perché dobbiamo?-
- Io voglio vederti, Tisbe. Voglio toccarti e capire come sei fatta - pensavo che queste avances fossero troppo fraintendibili, quindi decisi di tacere e sperai che non avesse colto.
- Io non voglio essere una delusione. La nostra storia è perfetta. Perché rovinarla? Chi mi dice che poi tu non voglia finirla con me perché non ti piaccio. Piramo, non riuscirei mai a sopportare una delusione così grande -
Cercai di tranquillizzarla e di dirle che il suo aspetto non avrebbe cambiato le cose, ma lei insistette. Non voleva che io la vedessi. Provai e riprovai a convincerla, ma lei rifiutò. - Non per adesso – mi disse. Capii quindi di avere una speranza. D’un tratto il mio occhio ricadde su una tela bianca messa in disparte e ancora da utilizzare. Ci pensai un attimo e poi mi rivolsi a lei. - Tisbe, ascolta. Ho in mente di iniziare un quadro. Voglio provare ad immaginarti e ad immortalarti sulla tela. Voglio provare a dipingerti-
- Ma tu non mi vedi, come farai?-
- Non serve che io ti veda, ma che ti senta dentro. Canta, parla e la tua voce guiderà la mia mano. Dipingerò quello che sei per me, come sei dentro e poi, una volta ultimato, ti inviterò a vederlo. Ci stai?- Lei aspettò qualche secondo prima di rispondermi. La sua risposta fu affermativa. In realtà non sapevo bene come avrei fatto ma sapevo che l’avrei finito in fretta perché quello era ciò che dovevo fare per raggiungerla. 
Dal giorno seguente la mia mente fu totalmente impegnata nella realizzazione del quadro. Così come Dio l’aveva immaginata e creata ispirandosi alla propria idea di bellezza e perfezione, così io avrei seguito la traccia che la sua voce mi forniva, creando la bellezza. Tornato dal lavoro lei cantava, io le parlavo, immerso nel mio lavoro, e lei mi rispondeva. Furono ore, giorni e settimane incredibili. Dipingevo utilizzando solo tonalità chiare. Sapevo che c’erano delle tenebre in lei ma io non le avvertivo. Per me lei era pura luce. Innanzitutto dipinsi lo sfondo. Sapevo che, se lo avessi tenuto per ultimo, probabilmente lo avrei realizzato con fretta e senza attenzione perché finire l’opera era un qualcosa che bramavo più del cibo. Decisi che la sua immagine, il vero soggetto del quadro, sarebbe stata realizzata dopo che tutto il superfluo fosse stato creato. Inizialmente avevo deciso di ritrarla nel mio appartamento, davanti a me. Quest’idea aveva un fondamento: speravo prima o poi di vederla con me, ma pensai subito di abbandonarla. Questa ragazza non poteva essere ingabbiata in un buio appartamento. Lei aveva bisogno di essere libera, per cui la circondai di natura. La immaginai in alto, più in alto del mondo. Dall’alto di una montagna lei si stagliava contro il magnifico cielo e una folta foresta si intravedeva sotto di lei. In lontananza un puntino grigio e confuso: la città. Niente era più importante di lei. Niente meritava di toglierle spazio. Lei era al centro del mio quadro e al centro di tutto. Dopo due settimane iniziai a realizzare lei. Per il tempo che lo sfondo aveva richiesto ero io che le davo da parlare. Parlavo e parlavo perché ciò che rappresentavo non aveva niente di speciale. Avevo dipinto così tante volte un cielo o un bosco, ma mai la perfezione. Da quando iniziai ad interessarmi alla sua figura parlai pochissimo, quasi sussurrando. Anche lei si accorse di questo e intuii che ero troppo concentrato per parlare. Sebbene parlassi meno della metà, ascoltavo il doppio. Le mie orecchie captavano la sua voce e il mio cervello rielaborava, trasformando l’emozione in immagine. Non era facile, per niente. Avevo lasciato una sagoma nello sfondo e adesso iniziai a riempirla. Era uno strano modo di dipingere, lo so, ma da sempre avevo fatto così e l’abitudine, si sa, è la migliore maestra. Non sapevo neanche io come riuscissi a prendere perfettamente le misure in cui inserire le mie figure, ma era una cosa che mi veniva naturale. Iniziai a dipingerla dal basso verso l’alto. Il viso sarebbe stata l’ultima e la più impegnativa parte.

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Sentimentale / Piramo e Tisbe (Parte 1)
« il: Luglio 29, 2014, 11:27:59 »
Piramo e Tisbe
Rieccomi lì. Stavo osservando il mondo dalla finestra del mio appartamento come sempre. Da lassù potevo ammirare l’enorme strada, quasi un fiume, dove macchine e persone incrociavano le loro vite per qualche secondo e per poi non vedersi più. Passavano a bordo delle loro macchine, osservavano la finestra di una casa e vi si infilavano per qualche secondo, giusto il tempo perché il semaforo ritorni verde. Osservavano la strigliata di una madre ai figli, un regalo inaspettato per il compleanno di papà oppure qualsiasi altro particolare della vita di sconosciuti che dopo pochi istanti avrebbe dimenticato. Altri, invece erano a piedi. Correvano di qua e di là, senza fermarsi mai. Ognuno preso nei suoi impegni e  nei suoi vari tentativi di vivere meglio, anche solo un tantino. Chi comprava regali ai piccoli solo per vederli contenti e non sentirli più piangere, chi andava a comprare le sigarette per sentirsi meglio e per non sentire la moglie piangere. E io ero lassù. Non sentivo che suoni confusi e non vedevo che puntini insignificanti. Visto da una certa altezza niente aveva più importanza di una formica. Nemmeno i loro problemi e le loro vite potevano essere percepite da qualcuno che stava a debita distanza dal mondo. In realtà, però, la mia attenzione si era posata su quel confuso groviglio di vite solo per un secondo perché il mio sguardo era altrove. Osservavo il cielo che era diventato più timido del solito, guardavo le sue guance arrossate. Guardavo il tramonto.
Quei piccoli granelli di sabbia non riuscivano a vederlo. Erano troppo ingarbugliati nelle loro cose per potersi dedicare per qualche minuto ad uno spettacolo che la Natura ci offre ogni giorno gratuitamente. Niente biglietto, niente abbonamenti, niente di niente. Il dolce vento della sera carico di smog cittadino mi accarezzò il viso, ma io non lo avvertii. Nelle orecchie una vecchia canzone di Celine Dion accompagnava la visione del sole che abbandonava Manhattan solo per poche ore. Si sarebbe riposato e avrebbe ripreso servizio puntualissimo. Quello era il suo lavoro: illuminarci la giornata e renderci la vita meno amara. Dopo essere volato più in alto del sole ed aver osservato il mondo sotto di me sulle note della canzone che amavo più di tutte, ritornai nel mio appartamento.
Spensi l’I-Pod, ma notai con mia grande sorpresa che la mia canzone era ricominciata. Non avevo fatto niente eppure il piano aveva ricominciato a scandirne le prime note. Solo dopo qualche secondo realizzai che non era il mio i-pod a riprodurre quella canzone. Il suono veniva dall’esterno. Precisamente dall’appartamento affianco al mio. Pensai che fosse merito mio: forse avevo tenuto il volume così alto che chi c’era dall’altra parte aveva sentito e aveva iniziato a suonare. Però avevo le cuffie! Scrollai la testa e capii che non mi importava solo quando iniziò a cantare. Era una donna. La sua voce era vellutata e giovane. Non conoscevo la mia nuova vicina. Sapevo solo che si era trasferita appena due o tre giorni prima. Suonava il pianoforte, o forse una tastiera (non sono molto pratico di musica, io), con una maestria che rendeva la canzone quasi uguale all’originale. Nell’aria continuava a diffondersi quella voce d’angelo senza che io potessi sapere chi fosse a emettere quel suono. Mi avvicinai per ascoltare meglio e mi sedetti proprio in corrispondenza del muro che ci separava. Chiusi gli occhi e capii che stavo volando su quelle note. Erano come una grande aquila che mi ospitava sul suo dorso e con le sue grandi ali mi permetteva di volare oltre le distese di verde più grandi del mondo.     
La ragazza finì la canzone e smise di cantare. Con tutto me stesso desideravo che ricominciasse, che cantasse qualcos’altro, ma non lo fece. Era stata la voce più magica che avessi mai udito. Sapevo che un giorno lei avrebbe ricantato e io l’avrei aspettata, anche fosse stato tra cent’anni, anche se non l’avrebbe più fatto. Attesi a lungo, ma la ragazza non cantò.
Finita la cena mi misi a letto. Mentre fissavo il soffitto giallastro della stanza, non riuscivo a dimenticare quella voce così piena di amore e allo stesso tempo di delusione. Forse perché era una ninna nanna perfetta che dava pace al cuore o forse perché io stesso non volevo allontanarla per poi dimenticarla. Mentre quella ragazza sconosciuta mi cullava ancora tra le sue braccia con l’eco della sua voce, mi sembrava che la vita non potesse più farmi male. Avevo trovato la bellezza pura, la perfezione nella creazione di Dio e questo era il mio biglietto per un’eterna felicità in questa vita.
Non capii perché proprio io avessi trovato lei. Non riuscivo proprio a comprendere che cosa potessi mai avere io più degli altri. Perché Dio aveva scelto me? Perché aveva fatto discendere l’angelo più bello e l’aveva fatto venire ad abitare proprio nell’appartamento accanto al mio? Non seppi dare una risposta a quelle domande né allora e né mai ci riuscii dopo. Per questo motivo, con il senno di poi, capii che a volte, non è necessario arrovellarsi per cercare di capire il come e il perché degli eventi che ci capitano, se li meritiamo o no, oppure se questo scombussolerà i nostri piani. Perso tra queste domande e le infinite possibili risposte che potevo dare, sorrisi perché compresi, nonostante non riuscissi a trovare un senso a ciò che mi stava accadendo, che ero felice e basta. Solo questo. D’improvviso mi addormentai e la notte portò via con sé ogni pensiero e ogni domanda.
Il giorno arrivò e la sua luce mi svegliò. Feci colazione e prima di uscire di casa udii un colpo di tosse provenire dall’appartamento accanto al mio. Volsi lo sguardo al muro che ci divideva e in quel momento mi ritornò in mente tutto. La sua voce, i miei brividi e le mille domande. Fui tentato di andare a presentarmi e di conoscere quella donna, ma non volevo che pensasse male di me. Chiusi la porta e scesi le scale. Ero già arrivato al piano terra quando un impulso incontrollabile si fece spazio in me, con l’impetuosità del leone più feroce. Mi voltai e tornai indietro, su per le scale correndo. Non sapevo se fosse la scelta migliore ma non pensai più. Avevo passato tutta la vita a pensare e basta. Quella volta dalla buona riuscita di quell’azione sarebbe dipeso tutto. Arrivai al mio pianerottolo senza più fiato. Mi portai davanti alla porta accanto alla mia ed esitai per alcuni secondi. Pensai e ripensai alle mille possibili reazioni di quella ragazza. Pensai e ripensai. Infine, senza ragionare più, bussai. Aspettai pochi secondi e ribussai. Niente. Corsi immediatamente giù dalle scale, capendo che, mentre risalivo, doveva aver usato l’ascensore. Non potevo perdermi d’animo così corsi come non avevo mai fatto, rischiando ad un certo punto persino di inciampare. Arrivai al piano terra e notai che una donna stava uscendo dal portone. Corsi per raggiungerla, ma quando varcai la soglia del portone lei era sparita. La cercai con lo sguardo e la scorsi mentre girava in una traversa. Trafelato come un maratoneta le andai incontro alla mia massima velocità. Svoltai dove anche lei aveva svoltato ma non la vidi più. Era scomparsa. Mi piegai in avanti e mi appoggiai alle ginocchia per recuperare fiato. Ero stato così contento di intravedere le spalle di una donna sconosciuta che non prestai neanche attenzione al suo aspetto. Per assurdo, poteva anche non essere lei ma, preso dalla foga, non ebbi neppure un istante per riflettervi. Notai solo dei lunghi capelli che le arrivavano fin sotto le spalle. La luce del sole, la fatica e i mille accidenti che si frapponevano tra noi mi impedirono persino di scorgerne la tonalità. Nonostante questo, però, sapevo di aver fatto la scelta giusta per una volta. La più istintiva, la più stramba, la meno ragionata che mai, ma la più efficace. Mi ero fatto una bella corsetta su e giù per il palazzo cercando una ragazza di cui non conoscevo che la voce. Strano, ma vero. La scelta più sensata di tutta la mia vita.
Mi recai al lavoro con la camicia zuppa di sudore e sperai che nessuno se ne accorgesse. Dove lavoravo? In un’agenzia di viaggi. Era strano come io mi dessi da fare per organizzare i viaggi e i divertimenti delle altre persone, senza poter essere anch’io come loro. Il mio magro stipendio mi permetteva a fatica di pagare l’affitto, le bollette e da mangiare. Ogni tanto i mia madre mi spediva dei soldi per posta e io li accettavo ben volentieri. Niente di più. E poi c’era l’amore. Chissà poi che cosa avessi fatto ad ogni ragazza della Terra. Nessuna sembrava interessarsi a me e questo mi rattristava moltissimo Insomma quella era la mia vita: fare felici gli altri mentre io ero infelice della monotonia e delle difficoltà della mia vita.
- Ciao, Craig- feci io rivolgendomi al mio collega. Lui, un bell’uomo sulla quarantina con moglie e due figli, mi alzò la mano distrattamente. Non eravamo mai andati molto d’accordo. Sarà perché non condivido il suo modo di vedere il mondo oppure perché sono invidioso della sua vita perfetta. Una moglie che gli porta sempre il pranzo al lavoro e che la sera lo porta a cena fuori, quando a suo dire “Ha scaricato i marmocchi alla suocera”. Non che lo odiassi per questo, ma il disprezzo che aveva per la sua vita mi disgustava.
Lasciando stare Craig, posso solo dire che la giornata lavorativa fu una come le altre. Niente clienti troppo esigenti o maleducati. Tutto normale. Come sempre. Arrivarono le sei del pomeriggio e decisi che prima di tornare a casa sarei passato dal supermercato per provvedere a riempire il frigo. Appena entrai presi subito quello che mi serviva e mi diressi alla cassa. D’improvviso mi ricordai di aver dimenticato il tonno in scatola, così mi voltai per andare a prenderlo quando il mio cuore si aprì. Per magia udì un colpo di tosse. Era lo stesso che avevo sentito quella mattina. L’avrei saputo riconoscere tra mille. Era lei. Era lì. Poteva essere chiunque. In coda alla cassa oppure una cassiera. Cercai di ricordare quel poco che avevo visto della ragazza. I capelli lunghi. Non era molto utile come indizio anche perché di ragazze giovani e con i capelli di quella lunghezza ne individuai circa dieci. Avrei potuto chiedere a ognuna dove abitasse ma non mi sembrò il caso. Pensai che se l’avessi sentita parlare l’avrei riconosciuta, così attesi. Passarono i minuti e ancora non ero riuscito a scoprirla. Rassegnato mi avvicinai alla cassa e vidi una ragazzina poco curata con gli occhiali che probabilmente lavorava lì solo perché non aveva trovato di meglio. Era nuova. Vidi che era costretta in quella sua piccola postazione contro la sua voglia. Capii che la vita l’aveva costretta lì. Capii che magari quella ragazzina aspirava a diventare qualcosa di più, magari una cantante come la mia vicina oppure le piaceva dipingere. Qualunque fosse, il suo sogno non era di lavorare lì. Ma chiudeva gli occhi e ingoiava un’altra giornata di lavoro, sperando che il retrogusto di quella sua condizione sarebbe stato migliore. Io le sorrisi. Non seppi perché: compassione, forse, oppure simpatia. Non la feci neppure parlare (non che ne avesse molta voglia), dicendo che sapevo già quanto le dovevo. Quella di quel giorno era la mia solita spesa e, siccome i prezzi erano sempre quelli, mi portavo da casa i soldi giusti fino all’ultimo centesimo. Quando me ne andai le sorrisi e la salutai. Notai che il suo viso era arrossato e aveva preso a sorridere anch’esso. Ecco perché le sorrisi: perché sapevo che per quella piccola e fragile ragazzina un sorriso avrebbe significato che qualcuno le era vicino e la vedeva come una sorella. Grazie a quel sorriso aveva capito di non essere sola a questo mondo. Aveva capito che non tutti le avrebbero voltato la faccia, non tutti. Molti, forse, ma non tutti. Uscii soddisfatto di aver visto quel viso tanto triste, trasformarsi completamente per tornare a sorridere. 

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Fantastico / Amore e Psiche (Terza Parte)
« il: Maggio 22, 2014, 17:58:41 »
Il giorno seguente la mia mente fu impegnata in tutto e per tutto nella riuscita della fuga che la quella sera avrei messo in atto ad ogni costo. Quella mattina, mentre eravamo riuniti per la colazione, non rivolsi la parola a mia nonna nemmeno per dirle “Buongiorno” e lei perseverava nella sua espressione demoniaca. Ogni mezzo minuto Jacob e George scoppiavano in una risatina che la nonna zittiva con uno sguardo. Il giorno trascorse veloce e la tattica di evasione fu presto pronta.
Quella sera mi misi a letto e aspettai. Aspettai più del solito e ad un certo punto mia nonna entrò per controllare che fossi a letto. Io finsi di dormire profondamente ma poi lei mi scoprì dal lenzuolo che mi copriva il corpo. Osservò che indossassi effettivamente il pigiama e uscì dalla stanza, chiudendola a doppia mandata. (Non potevo crederci! L’aveva fatto davvero!) Aspettai due ore piena di terrore e poi decisi che l’avrei fatto. Presi più lenzuola e le legai assieme come avevo visto fare nei film d’amore. Legai un’estremità ad una gamba del letto e gettai l’altra dalla finestra. Senza esitare un attimo mi tenni forte alle lenzuola e presi a scendere lungo le pareti della casa come un fuggiasco dei film polizieschi. Appena toccai terra mi meravigliai di quanto fossi stata coraggiosa. Capii allora cosa voleva dire “Fare tutto per amore”.
Corsi, quindi, più forte che potei verso il lago, consapevole dell’enorme ritardo a cui mia nonna mi aveva costretto. Arrivata a metà strada mi sentii intrappolata in due braccia possenti che arrestarono la mia corsa disperata. Era lui. – Mia nonna ha scoperto le mie fughe notturne e io…io- Lui mi interruppe ponendomi un dito davanti alla bocca. – Non dire una parola. Vieni con me.- mi disse. Mi trascinò per un braccio e camminammo a lungo senza rivolgerci la parola l’un l’altra. Dopo qualche minuto arrivammo di fronte ad un piccolo edificio. Sembrava una casa abbandonata, ma non osai chiedergli particolari. Osservai come Amore abbatté la porta a spallate e, senza proferir parola, mi lasciò la mano.
-Sei pronta?-
- Per cosa?- feci io fingendo di non aver capito. Sapevo ciò che mi aspettava ed ero fuori di me dalla gioia, ma volevo una conferma. – Come per cosa? Per una notte d’amore- fece lui.
- Certamente – Detto questo lo sentì avvicinarsi. Prese a sfilarmi la maglietta delicatamente e poi…   Beh, lasciatemi un po’ di privacy!  Non mi va di raccontarvi i particolari! Vi dico solo che fu una notte indimenticabile.
Appena mi risvegliai su quella specie di letto sgangherato che ci aveva ospitato, me lo ritrovai accanto. Era completamente nudo e dormiva profondamente. Scesi dal letto, decisa a congedarlo con un bacio e a tornare dalla nonna prima che scoprisse la mia fuga. Il mio piede scalzo, però, schiacciò una specie di scatoletta che si trovava in terra. La presi in mano e mi accorsi che erano fiammiferi. Immediatamente mi voltai a guardare Amore. Presi un fiammifero e lo accesi sfregandolo contro il retro della scatoletta. La tentazione era troppa. Avrei potuto far luce sul suo volto e osservarlo per un solo istante. Ero sicura che non se ne sarebbe accorto. Per un momento esitai, ricordando la promessa fattagli. Ero decisa a spegnerlo, ma poi udii il suo respiro leggero e questo mi stimolò a proseguire. In fondo non lo avrebbe mai saputo. Mi avvicinai quindi con quel fiammifero in mano e la sua flebile luce gli illuminò il viso. Era la più splendida visione che i miei occhi fossero mai stati in grado di osservare. I lineamenti erano perfetti e delicati. I capelli biondi e mossi sembravano far brillare quel suo volto. E i suoi occhi… i suoi occhi… improvvisamente si aprirono. Quelle iridi azzurre come l’oceano mi fissarono incredule, smarrite. Era come se avesse visto un fantasma. Il Dio indietreggiò quasi fosse spaventato. –Psiche! Perché?- Notai che una lacrima scese furtiva dal suo occhio destro. –Perché?- ripeté incredulo. Cercai di borbottare qualcosa che potesse giustificarmi ma la voce non uscì. Amore si sollevò in volo con le sue stupende ali che, ora riuscivano ad illuminarlo completamente e solo in quel momento vidi la perfezione nella sua completezza. Io mi avvinghiai al suo piede supplicandolo di perdonarmi e di restare. La mano, però, scivolò come sull’olio e Amore ruppe il tetto ligneo della baracca, scomparendo nel cielo. Caddi in ginocchio, devastata dalla vergogna. Le lacrime e i singhiozzi sembravano automatici ormai e, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a fermarli. Ripensavo a cosa sarebbe successo se non avessi trovato quei fiammiferi o se avessi ceduto a quella prima esitazione, ma riconobbi che non fu così e che non avrei più ascoltato la sua voce, né sentito la sua fragranza meravigliosa entrarmi in circolo e rinvigorirmi. In fondo era solo colpa mia. Solo mia. Avevo promesso e poi lo avevo tradito. Meritavo tutta questa amarezza, la meritavo tutta e queste lacrime facevano bene a voler fuggire da me. 
Passai il giorno seguente immersa in uno stato di trance totale. Non uscii dalla mia stanza neppure un istante e non volli parlare con nessuno. Neppure con me stessa. La mia stupida curiosità mi aveva portato via tutto, lasciandomi in ginocchio.
Quella sera e le sere seguenti, le passai al lago, dove tutto era cominciato. Invocavo il suo nome e chiedevo di perdonarmi. Sapevo che sarebbe stato inutile ma ormai non avevo altro per cui vivere. Avevo ricevuto quanto una donna può solo sognare, mi è stata data una fiducia che non meritavo e io mi sono rivelata per l’inetta che sono.
Una sera di fine agosto, però, la speranza bussò di nuovo alla mia porta. Invocai come ogni sera il nome di Amore e gli chiesi di perdonarmi come facevo sempre. D’improvviso le lacrime e la disperazione ebbero la meglio su di me e persi i sensi. Non ricordo molto di quello che provai in quei momenti ma ricordo chiaramente che delle labbra si posarono dolcemente su di me. Aprii gli occhi e me lo trovai davanti. Era lui. Il suo volto mi apparve illuminato della luce più fulgida e lo abbracciai piangendo e chiedendogli scusa disperatamente. Lui non disse una parola e si alzò in volo tenendomi stretta. Stavo volando. Ci dirigemmo verso il cielo ad una velocità incredibilmente elevata. Avvertii una pressione troppo forte su di me e strinsi più forte il mio angelo. Amore se ne accorse e mi lanciò uno sguardo distratto che subito tornò a rivolgere davanti a sé. Rallentammo gradualmente, fino a fermarci. Quando sollevai il capo mi accorsi che eravamo atterrati in un posto nuovo ai miei occhi. Era un giardino lussureggiante che si estendeva a perdita d’occhio e che ancora oggi faccio fatica a descrivere. Specie di piante e animali mai viste popolavano ogni angolo di quella terra. Non sapevo dove mi trovassi, né perché Amore mi ci avesse portato.
- Cupido! Come mai l’hai portata qui?- mi voltai di scatto e mi accorsi che la voce proveniva da una donna stupenda sotto ogni aspetto.  – Ti avevo vietato di avere rapporti con lei dopo quanto è successo- Amore non rispose e quella donna, ma chinò il capo in segno di vergogna. Lei lo chiamò al suo fianco e per qualche minuto parlarono tra loro a bassa voce, infine lei si rivolse a me.
- Hai tradito la fiducia di mio figlio e per questo sarai punita. Per un mortale infrangere la parola data ad una divinità è una cosa gravissima. Per quanto mi riguarda tu dovresti essere giustiziata, ma Cupido mi ha chiesto che questo non avvenga. La tua pena, sarà, per cui quella di separarti per sempre da lui- sussultai alla dichiarazione della Dea, ma in fondo era giusto così. Dovevo ringraziare Amore se non ero stata uccisa, probabilmente aveva compreso il mio errore, ma non era in suo potere perdonarmi.
-Bene, ora riportala dove l’hai trovata e che non si parli mai più di lei -
-Sì, madre- fece Amore.
D’un tratto la madre lo fermò. –Dalle ciò di cui abbiamo parlato - Lui annuì e mi toccò la schiena con entrambe le mani. Subito avvertii un formicolio nel punto in cui fui toccata ma non seppi con esattezza cosa potesse essere. – Visto che ti piace il cielo, so che apprezzerai questo regalo. Con queste potrai addirittura toccarlo - Amore mi baciò e mi disse addio. Dopodiché incominciai a precipitare giù da quel paradiso. Vidi i volti delle due divinità guardarmi dall’alto al basso, per poi sparire tra le nuvole. Improvvisamente mi risvegliai in riva al lago e la sorpresa fu immensa quando capii quale fosse il regalo che Amore mi aveva fatto. Mi alzai in piedi e mi concentrai. D’un tratto due ali grandi e luminose come quelle di Amore si formarono sulla mia schiena e si aprirono maestose. Il cielo non sarebbe più stato così lontano né la notte così buia. Da quel momento Amore sarebbe stato per sempre con me. Mi avrebbe difeso da lassù. Richiusi le ali e mi sedetti sulla riva del lago a guardare il cielo. Tra le infinite stelle che lo adornavano ne riconobbi una luminosa e bella. Era lui. – Grazie Amore - dissi guardandola felice.

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Fantastico / Amore e Psiche (Seconda Parte)
« il: Maggio 02, 2014, 22:25:01 »
Arrivò di nuovo la tanto agognata sera. Aspettai una mezz’oretta dopo che tutti si furono rintanati nelle loro stanze e mi avviai verso l’uscita. Mi incamminai in direzione del lago con una celerità carica di eccitazione, ma anche di ansia. Proprio in quel momento, infatti, un dubbio si introdusse in me sinuosamente. Il timore che quella notte il mio misterioso amico non si presentasse prese a divorarmi con la ferocia di un leone. Appesantita da questo dubbio, mi sedetti sulla riva e aspettai. Il tempo passava infinito e, seppure avessi l’orologio al polso, non mi fidai di ciò che mi diceva e continuai a sostenere che non potessero essere passati soltanto dieci minuti. Secondo la mia stima, ero lì seduta da circa tre ore e mezza. All’improvviso ogni mio dubbio fu annientato da ciò che per un’ intera giornata avevo sognato e sentito attorno a me. Quella dolce fragranza di primavera mi attorniò quasi premendo sulla mia pelle, mi attraversò la trachea e si propagò dentro di me lentamente. Alle mie spalle qualcuno si mosse. Era lui. Quella silhouette che avevo imparato a riconoscere mi si avvicinò e si sedette alla mia destra. Ancora una volta, come la sera prima, la notte era testimone del nostro incontro, così il buio avvolgeva quella figura, nascondendone l’aspetto.
- Ti aspettavo - gli dissi.
- Anch’io ho aspettato con ansia il momento di rincontrarti - Le sue parole scorrevano dolci dentro di me e mi riempivano di sicurezza. A lui importava di me. Ne ero più che certa. - Ad ogni modo- fece poi- Ieri sera non ho avuto il coraggio di chiedere il tuo nome -
Immediatamente il mio volto si tinse di rosso ma lui, per fortuna, non poté accorgersene.
-Ok. Ecco il momento più imbarazzante, ovvero dire il mio nome. Sapevo che prima o poi sarebbe arrivato -
-Perché imbarazzante? Come mai potrai chiamarti?-
- Mi chiamo Psiche. In greco significa “Anima” e mia madre lo scelse perché adorava l’antica Grecia e i miti degli Dei e degli eroi. Ha sempre amato questo genere di cose -
-E’ un nome stupendo – mi disse.
- Sì, certo. Dici così solo per farmi contenta ma sappiamo entrambi che ti sei chiesto quanto malata doveva essere mia madre per chiamare sua figlia in questo modo -
-No. Assolutamente - fece lui, divertito.
- Io amavo profondamente mia madre. Certo, non doveva essere molto sana di mente data la scelta del mio nome e di quello di mio fratello Perseo, ma io le volevo un gran bene. E’ stata l’unica persona in tutta la mia vita che si sia schierata sempre e comunque dalla mia parte, difendendomi anche quando ero indubbiamente dalla parte del torto. Un giorno, però, mi fu portata via e di lei non rimase che il ricordo - Ci fu qualche secondo di silenzio, in cui entrambi cercammo di osservare il viso dell’altro attraverso quel manto di tenebre che ci divideva – Bene- dissi, cambiando tono di voce ed espressione. – Ora tocca a te! Come si chiama il mio misterioso cavaliere dell’oscurità?-
- Il mio nome non ha alcuna importanza. Tu puoi chiamarmi Amore.-
- Amore? No, no. Io voglio sapere il tuo vero nome -
- Non sbaglierai se mi chiamerai Amore -
-Cioè, vuoi dire che tu ti chiami Amore?-
- In un certo senso, sì -
Continuavo a non capire e ogni sua parola non faceva altro che confondermi le idee ancora di più. Decisi, quindi, di lasciar stare la questione del nome e gli chiesi da dove venisse.
- Vengo da una terra molto lontana -
- Tipo?-
- E’ un posto ancora più lontano del posto più lontano che riesci ad immaginare da qui - fece lui.
-Wow. Deve essere molto lontano - dissi io, divertita.
Amore si lasciò andare ad una risata e poi mi prese la mano. – Psiche, voglio che tu sappia che non c’è stella lassù in cielo che preferirei a te. Io ti amo e per sempre ti amerò. Tu mi hai dato nuova speranza e tenendoti le mani mi sento più forte, più vivo –
Il cuore mi si congelò dinnanzi a quelle parole. Nessuno mi aveva mai parlato in quel modo. Nessuno aveva mai visto in me così tanta bellezza. Neppure io. Per la prima volta fui io a volerlo toccare e imposi la mano, tastando nel buio in cerca di quel divino brigante dell’ombra. La mia mano riuscì a toccarlo. Gli accarezzai il viso e solo allora capii di essere libera. Libera dalla paura, dalle incertezze e dall’ombra che avevo celato dentro di me per anni. Ero libera dal passato e dalle ferite che questo aveva lasciato sulla mia pelle. Il tempo si era fermato in quella tenera carezza e in quel momento niente più esisteva. Niente al di fuori di noi meritava attenzione in quel posto abbandonato da Dio, che la gente chiama mondo. La sua pelle era giovane e liscia come quella di un bambino. La mia mano scivolò su di lui e poi sentii la sua mano appoggiarsi sulla mia. Quella sua calda e delicata mano protesse la mia in un guscio che l’avrebbe difesa perfino dalla tempesta più feroce. –Psiche, Io non riesco più a mentirti. C’è una cosa che tu devi sapere su di me. Io… Io sono…- si fermò per un attimo e un brivido mi pervase, scendendo sinuoso e gelido lungo la schiena.
“Ecco” pensai. “Questo è l’inghippo”. Che sciocca ero stata a fidarmi di uno che neppure conoscevo. In fondo niente poteva essere così perfetto eppure così reale. Qualche imbroglio doveva pur esserci. La realtà mi aveva insegnato che niente può andare mai come desideri e, se questo accade, significa che c’è sotto qualcosa oppure che  c’è qualcuno lassù che si diverte a prenderti in giro. “Chissà che cosa mi vorrà dire? E’ Gay? E’ un agente segreto? Un talebano? Che cosa? Cosa potrà mai essere?” pensai.
- Io… io sono un Dio. Il Dio dell’amore, precisamente. Il mio nome è Cupido-
-Un Dio!- feci io divertita. – Capisco che ti sopravvaluti ma…-
-No, Psiche. Io non sto scherzando. Sono Cupido -
- Quello con l’arco e le frecce?-
-Esattamente!-
-Wow!- feci, sarcastica. – Sto parlando con un Dio e tra un po’ io scopro di essere Mary Poppins, ma dai!-
-Ti darò una dimostrazione - fece lui. La sua sagoma si alzò in piedi e mi diede le spalle.
Improvvisamente un bagliore comparve davanti a me. Solo dopo qualche secondo mi accorsi che proveniva dalla schiena di Amore. Finalmente riuscii ad intravedere la fisionomia del suo corpo. Non mi sbagliavo, era un giovane prestante e bello che non portava la maglietta. Il colore della sua schiena era più bianco del latte. Quel bagliore crebbe di estensione e capii che qualcosa stava nascendo sulla sua schiena, formandosi a poco a poco. Due ali di aquila luminescenti ed enormi presero forma e si dilatarono fino a raggiungere la loro massima estensione. A quel punto notai che il mio Cupido se ne stava piegato su di sé, senza voltarsi. Io bramavo di osservare il suo viso ma lui sembrava fare apposta. Non credo volesse essere osservato. Nemmeno da me. Ad un tratto le ali si spalancarono in uno scatto repentino ma delicato, come fossero realmente ali di un uccello. Nell’oscurità della notte più profonda la luce che quell’essere divino emanava irradiava l’ambiente circostante e confondeva il giorno con la notte.  Improvvisamente spiccò il volo e prese a librarsi nell’aria, volteggiando come fosse il più splendido tra gli uccelli. Il mio pensiero, però, era sempre e solo uno. Volevo osservare il suo volto. Per questo motivo aguzzai la vista il più possibile ma lui si sforzava in ogni modo per evitare che lo guardassi in viso. Era ormai diventato una ruota di luce nell’oscurità della notte e le mie speranze di riuscire ad intravedere il suo volto si facevano sempre più scarse.
Finito il giro panoramico, il mio amante dell’ombra discese al mio cospetto. Mentre atterrava, i miei occhi non riuscivano a smettere di osservalo. Era un angelo benedetto disceso letteralmente dal cielo per proteggermi da quel mondo che mi aveva buttato in terra, calciato e deriso senza pietà. Con mia grande sorpresa e rabbia osservai come la luce emanata dalle sue ali non illuminasse il suo lato A e che quindi, come per una specie di magia, questo rimanesse nell’ombra più completa. Si avvicinò lentamente a me, mentre con la stessa velocità le sue splendide ali sparirono dietro di lui.
- Mi credi ora?- Ci misi un po’ a trovare le parole che potevano anche solo lontanamente descrivere ciò che avevo provato e la gioia fu immensa quando le trovai.
- Non ho mai visto niente di simile ma ti credo. Certo che ti credo!-
Il silenzio che seguì fu impregnato della massima passione che la mia vita fosse riuscita a offrirmi fino ad allora. Niente di simile fu mai vissuto dal mio giovane corpo fino a quel giorno. In quel momento fui presa dall’istinto irrefrenabile di baciarlo, cercai, però, di aspettare che fosse lui a farsi avanti, in fondo ero una signora e non spettava a me l’offensiva. Il mio cuore prese a rimbombarmi all’interno e a sbattere contro il torace, quasi volesse disperatamente uscire di lì per osservare la causa di quella sua agitazione. Ad ogni modo, nonostante quella fastidiosa oscurità, mi sembrava di vedere chiaramente davanti a me la causa del mio desiderio. Non ne riconoscevo i lineamenti, ma riuscivo a percepirlo di fronte a me con grande chiarezza. In quel momento pensai di aver fatto una scoperta clamorosa: l’amore permette agli occhi di vedere ciò che altrimenti non vedrebbero. Vedono ciò che vogliono vedere e riescono a dissipare la notte più profonda, creando luce anche dove non ce n’è mai stata. Anche in me. E mi sentii bella. Sentivo che lui mi desiderava allo stesso modo in cui io bramavo lui, o forse anche di più. La mia mente si stava perdendo in questo intruglio di pensieri, quando avvertii il suo fiato avvicinarsi. Sentii che profumava di menta (magari nel momento in cui aspettavo il suo bacio, si era rapidamente infilato una mentina in bocca!). Il cuore accelerò il suo battito e per qualche secondo temetti che il petto fosse sul punto di esplodere. Aspettai che la bocca di lui arrivasse fin quasi alla mia e poi non aspettai più. Non avrei mai più aspettato. Dopo una frazione impercettibile di secondo avvenne. Il bacio che per anni e anni avevo aspettato sembrò non finire mai. Era la prima volta che sperimentavo questa sensazione che non esiterei a ripetere mille e mille volte ancora. Intorno a me il buio e il silenzio sembrarono sparire di colpo. Non ci furono più pensieri, né paure. Solo amore. Era strano, ma in quel momento stavo baciando un uomo che neppure conoscevo, che non avevo mai visto prima. Fino a qualche anno fa questo mi sarebbe sembrato folle, stupido. In quel momento, però, quella che stavo vivendo si stava rivelando essere l’esperienza più sensata che avessi mai avuto il coraggio di intraprendere. Non ci sono parole sufficientemente efficaci per descrivere il mio stato d’animo il quel momento e niente nella mente di chi non l’ha sperimentato riuscirebbe ad avvicinarsi a ciò che in quella calda notte d’estate mi avvolse, stringendomi in un tenero abbraccio. Ad ogni modo, a malincuore, dovetti staccarmi da lui. Non so quanti secondi, minuti o giorni fossero passati ma quel bacio sembrò essere eterno. Il ragazzo andò a tentoni e poi trovò le mie mani. – Io ti amo, Psiche. E sono disposto a donarmi completamente a te. Credo di non essermi mai innamorato tanto in migliaia di anni. Tu sei una luce fulgida e bella che splende dentro di me e mi riempie l’anima. Fa in modo che questa luce non si spenga mai, ti prego. Sii libera e vola nel cielo come un falco ad ali spiegate. Fa che niente e nessuno ti impedisca di essere la più bella delle stelle. Tu sei unica e speciale. E’ per questo che sono disceso tra di voi solo per poterti stare accanto -
– Sono disposto ad amarti per tutta l’eternità, Psiche, ad una sola condizione, però. -
Rimasi immobile. L’ultima parte della frase mi aveva spiazzato. – Che…Che condizione?-
- Che io e te facciamo un patto. Tu mi devi giurare che non cercherai mai in alcun modo di guardarmi in viso. Qualunque cosa accada, tu non dovrai mai e poi mai cedere alla tentazione di scoprire come sono realmente. Promettimelo!-
Il tono con cui me lo aveva chiesto mi fece trasalire.
- Perché?-
- Promettilo!-
Fui obbligata a fidarmi di lui, anche se la cosa non mi convinceva. Volevo vederci chiaro (metaforicamente, si intende).
- Lo prometto!- feci solenne. – Ma adesso dimmi per quale motivo non vuoi che ti guardi. Non dirmi che sei un tipo brutto e brufoloso tipo… che so, La Bella e la Bestia? In fondo chi l’ha detto che gli Dei debbano essere per forza belli e magnifici?-
Seguì una risatina da parte sua. – Vorrei che tu ti fidassi di me. Non ho alcun dubbio che rispetterai la mia volontà. Mi fido ciecamente di te. Voglio solo che tu possa fare lo stesso con me ed è per questo che ti chiedo di fare una prova. Fidati di me.  – Non capii subito che cosa volesse dire, ma decisi di fidarmi, appunto.
- Se è così, non ti deluderò. Hai la mia parola- Sorrisi e mi voltai pronta a tonare a casa.
-Ah, Psiche. Un’ ultima cosa - Mi voltai con uno scatto degno di un felino e tesi le orecchie. – Dà un'altra opportunità al mondo, va bene? Tutti hanno diritto ad una seconda chance. Non lo credi anche tu?-
- Certo – feci timidamente. Dopodiché la sua ombra si perse nella notte e il mio sguardo, per quanto si sforzasse di dissipare l’oscurità, non riuscì a scorgerlo da alcuna parte.
Tornata a casa, mi stesi sul letto e cominciai a ripensare alla sua voce e all’incredibile senso di sicurezza che la sua presenza mi garantiva. La mia mente reclamava energie per alimentare i pensieri ma la stanchezza del giorno mi impedì di stare in piedi ancora per molto. Caddi così nel mondo dei sogni.
Da allora i nostri incontri si ripeterono ogni sera per circa un mese, diventando un’abitudine irrinunciabile. I miei gesti erano sempre gli stessi. Fingevo di mettermi a letto, aspettavo che mia nonna e i miei cugini dormissero profondamente, mi vestivo, uscivo e chiudevo la porta delicatamente, mi avviavo verso il lago, mi sedevo e lui appariva. La sua voce risuonava ogni sera più armoniosa dentro di me, rendendomi dipendente da quel suono pieno di amore. I nostri discorsi erano dei più vari: parlavamo della natura, delle nostre esperienze e di cosa adorassimo fare. Così facendo, lui mi raccontava il suo mondo ed io il mio. Era ormai un sacco di tempo che questa storia andava avanti e nessuno sapeva niente.
Una sera come le altre tutto cambiò perché il destino aveva deciso di dare un forte scossone al nostro amore, per testare la mia e la sua forza, per vedere quanto avremmo resistito.
Anche quella sera arrivò l’ora fatidica e fummo costretti a salutarci. La sua sagoma sparì all’improvviso come sempre e io mi diressi verso casa con il sorriso stampato sulle labbra. Appena giunta sulla soglia mi fermai e ripensai alla calda voce che fino a poco prima ascoltavo con immenso piacere, ma improvvisamente udii il suono di passi pantofolati provenire dall’interno. Stetti immobile per qualche secondo in attesa di un secondo rumore che confermasse il primo.  Niente. Scossi quindi la testa e infilai la chiave nella toppa. La girai, aprii la porta e allora accadde l’inaspettato. La sciagura più totale. La luce della cucina era accesa. La nonna, probabilmente si era alzata per prendere un bicchiere d’acqua. Al mio aprire la porta si voltò di scatto. I nostri occhi si incrociarono e non seppi che fare o che dire. Mia nonna era incredibilmente stupita. Non si aspettava certo di vedermi rientrare a notte fonda.
- Psiche? Dove sei stata?-
- Non sono obbligata a dirti niente -
- E invece sì che lo sei. Mi sembrava di averti vietato di uscire di notte da sola -
- Non sono più una bambina. So badare a me stessa –
- Sai quanto è pericoloso uscire da sola? C’è tanta gente che potrebbe farti del male là fuori -
-E perché mai dovrebbero?-
-Perché ormai sei una donna e gli uomini non aspettano altro che una giovane scapestrata vaghi da sola di notte - 
Quello che mi stava dicendo era giustissimo e in cuor mio lo sapevo, ma non potevo lasciare che mia nonna l’avesse vinta contro di me per l’ennesima volta. E’ stupido, lo so, ma le risposi con la sfacciataggine che noi giovani usiamo quando siamo in difficoltà e vogliamo solo affermare la nostra indipendenza dagli adulti.
- Nessuno ti ha chiesto di preoccuparti per me. Ti ho già detto che so badare a me stessa.-
Notai che in cima alle scale se ne stavano i miei due cugini che, con il loro sorrisetto ebete stampato sulla faccia, assistevano  alla mia strigliata. Loro godevano nel vedermi litigare con mia nonna. Non so che cosa ci trovassero di così divertente, ma sembrava che non si fossero persi una sola parola. Li guardai con sdegno e poi tornai ad affrontare la nonna.
- Pensala come vuoi, ragazzina. Sappi che non metterai più piede fuori da questa casa senza il mio permesso. E’ chiaro?-
- Chiarissimo- feci io, sconfitta.
- E adesso fila a letto!-
Sdegnata, mi diressi verso le scale. I due gemelli mi lasciarono passare scompisciandosi.
- Fila a letto! -   mi fece Jacob, imitando la nonna e scatenando la risata del fratello.
- Oh, piantala tu - feci seccata.
- A dormire, voi due.- fece la nonna, che intanto stava tornando nella sua camera. Appena prima di aprire la porta della mia, lei mi lanciò un’occhiata, tenendo le labbra strette. La più terribile tra le occhiate che la nonna riuscisse a lanciare e che, a dire di Jacob, la faceva assomigliare ad un demone dell’oltretomba.
Mi misi a letto e piansi fino alla disperazione. Sarebbe stata dura eludere la sua sorveglianza nelle sere successive e questo lo sapevo dai racconti che mia mamma faceva su di lei. Diceva che da ragazza lei, per quanto si sforzasse, non riuscì mai a farla franca contro la nonna. Ma io non ero mia madre e sarei riuscita nell’intento. Ne ero certa. Mia madre non aveva per le mani un amore ultraterreno come il mio e quindi non era motivata abbastanza da commettere un’evasione ben studiata.



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Fantastico / Amore e Psiche (Prima Parte)
« il: Aprile 20, 2014, 20:02:20 »
                       Amore e Psiche
Guardavo il cielo. Era da un po’ che lo fissavo attentamente. Forse mi aspettavo di vederlo cambiare, o forse di scorgere qualcosa che prima non avevo notato. Le stelle quella sera erano infinite. Per lo meno così mi sembrò in quel momento. Dopo aver passato anni e anni della mia giovane vita in una sporca e inquinata città come New York, il cielo era diventato un optional per me. Ogni sera, quando alzavo gli occhi, non vedevo stelle, ma luci, migliaia di luci che dalle strade si propagavano fino al cielo, e rendevano invisibile una delle più splendide meraviglie della nostra triste realtà. Arrivata in questa sperduta cittadina del Maine, fui estasiata quando il cielo notturno mi apparve in tutta la sua immensa bellezza. Quella sera lo scenario era lo stesso di sempre: quella giovane ragazza si perdeva tra i puntini luminosi che decoravano il firmamento e si indagava sul perché delle cose. Seduta in riva al lago, ammiravo come questo sembrasse lambire il cielo e, in un caldo e tenero bacio, sfiorare l’orizzonte. Intorno a me era buio. Non c’erano lampioni né stupide luci a rovinare quel paesaggio così perfetto. Mia nonna mi aveva proibito categoricamente di uscire di notte ma io ero fatta così. Adoravo guardare il cielo e smarrirmi dentro di esso, per fuggire da quella realtà così cattiva e senza cuore. Non c’era posto per me in quel mondo, così da sempre ho cercato il mio posto là, tra le stelle, dove tutti sono uguali ma ognuno risplende di luce propria e contribuisce ad arricchire il cielo con la sua presenza. D’un tratto avvertii un aroma purissimo, quasi soprannaturale, insinuarsi nell’atmosfera. Era delicata e sembrava cullarmi tra le sue braccia. Mi circondava e mi riempiva i polmoni, purificandoli come mai niente riuscì a fare né prima né dopo di allora. Sentii che dietro di me qualcuno si avvicinava silenziosamente. Ciò che mi colpì fu che non c’era pesantezza nel suo corpo. Sembrava che fosse un’entità incorporea. Non faceva rumore ma avvertivo la sua presenza e, per un motivo che ancora oggi mi è sconosciuto, ne fui confortata. Qualsiasi ragazza nel buio di quella notte e nella desolazione di quel luogo avrebbe temuto per la propria vita, ma io no. Sapevo di potermi fidare in un qualche modo. Mi sentivo attratta da quei passi silenziosi e da quell’aroma travolgente e seppi di non essere mai stata più al sicuro. Osservai che una figura si sedette accanto a me. Non potei scorgerne i lineamenti data l’oscurità che ci avvolgeva, ma riconobbi che si trattava di un giovane. Cercai di esplorare il suo volto ma il buio me lo impedì.
Aspettai che fosse lui a parlare per primo e a presentarsi, così ritornai ad osservare il cielo. Ci mise qualche secondo ad aprire bocca, ma poi lo fece.
- Seneca diceva che l’unica cosa che ti può consolare quando sei lontano da casa è il cielo. Guardando il cielo riconoscerai le stesse stelle che osservavi da casa tua e non ti sentirai mai distante. Forse hai nostalgia di casa? E’ per questo che il tuo sguardo si perde nel cielo? -
Colpita da quelle parole, lo osservai a lungo, ma non vidi altro che buio. Mi ripresi dallo stupore iniziale e gli risposi.
- Stai scherzando? Io non vedevo l’ora di scappare da quella prigione di grattacieli e palazzi. Sono contenta di questa pace e di questa solitudine. Mi preoccupa solo che io debba ritornarvi tra qualche mese -
Il ragazzo rimase per qualche secondo in silenzio, probabilmente a fissarmi. La sicurezza che quello sconosciuto mi dava era un qualcosa di indescrivibile. Sapevo che a lui avrei potuto affidare persino la mia anima. Il ragazzo non parlava, così decisi di essere io a farmi avanti e ripresi a parlare.
- Questo posto ha un non so che di magico che lo rende speciale e diverso da qualsiasi altro luogo al mondo. In questo lago e in questa oscurità io mi sento protetta come se fossi nell’utero materno e dovessi ancora iniziare ad odiare questo mondo insulso e privo di amore -
- Perché odi così tanto il mondo? Cosa mai potrà averti fatto di male?- mi chiese lui.
Mi fermai un momento a pensare e chinai il capo, osservando i sassi sui quali giacevamo. Ne presi uno in mano e lo lanciai in acqua. Una lacrima discese lungo il mio zigomo e tutto quel dolore che per anni era rimasto sepolto nella parte più interna di me ritornò a galla e tornò a fare male. Non avevo mai parlato con nessuno di quello che mi era successo. Per paura, forse, o per vergogna, o forse per entrambi. Il dolore che mi aveva scosso era qualcosa di cui non ero mai riuscita a liberarmi, un terribile ragno che si era attaccato alla mia carne quel maledetto giorno di agosto e non mi aveva mai abbandonato. ‘E’ arrivato il momento’ pensai. ‘Finalmente qualcuno verrà a saperlo e non c’è persona migliore a cui io possa rivelarlo’. Inspirai profondamente e poi affondai i miei occhi nei suoi.
-Tutto incominciò e finì in una giornata di agosto. Il 13 agosto era un venerdì. Io non ho mai creduto a queste scaramanzie, ma non poteva esserci giornata migliore in cui il male potesse trionfare. E’ stato quattro anni fa. Avevo quattordici anni ed ero poco più che una ragazzina quando fui fermata da un uomo all’uscita da scuola. Stranamente si presentò dicendomi nome e cognome. Cercò di fare amicizia con me ma, quando notò che io lo evitavo e cercavo in tutti i modi di svignarmela, mi afferrò per un braccio. Se chiudo gli occhi, ancora oggi riesco a sentire quella morsa infernale stritolarmi la carne. Dopodiché fui portata in una specie di magazzino. Era piccolo e puzzolente. Fui picchiata e picchiata ancora, fino a che non capii più niente. Mi si offuscò la vista ma riuscii comunque a comprendere quello che mi stava facendo. Dopo qualche ora, credo, mi ritrovai da sola, lacera e dolorante in quell’orribile posto. Cercai di nascondere il più possibile il mio corpo e il mio viso per molto tempo a tutti e quella gente  indifferente non si rese conto del mio dolore, mai. Dopo due anni venni a sapere dalla televisione che un uomo era stato ucciso in una sparatoria. Appena ne riconobbi il volto e il nome mi prese una fitta al petto. Seppure odiassi con tutta me stessa quell’uomo e non aspettassi altro che morisse, mi sentii vuota e rattristata. Davvero non c’era altro modo? Davvero non si poteva fare altro che ucciderlo? Che razza di dio permetterebbe che un essere tanto disgustoso possa ricevere la morte invece di essere punito? Chi mi garantisce che quell’uomo si sia realmente pentito? Chi mi dice che, invece, non sia felice di essere scampato per sempre alla legge e di averla fatta franca definitivamente?- mi fermai per un attimo e poi ripresi.
 - Da allora non frequento che pochi amici e continuo a fissare il cielo, in attesa che qualcuno dall’alto mi porti via per sempre da questo buco sporco e puzzolente -
Il ragazzo rimase ad ascoltarmi senza fiatare. Non seppe cosa dire e questo lo notai dal nervosismo dei suoi movimenti. D’un tratto, inaspettatamente, parlò.
- Non credevo che una ragazza così giovane potesse aver vissuto così tanto -
- A volte, si può vivere di più in un attimo intenso che in anni e anni di noiosa monotonia. Me lo ha insegnato mia mamma.
Gli sorrisi dolcemente e poi il mio sguardo cadde sull’orologio che avevo al polso.
-Oh no! E’ tardissimo!- Premetti, poi, il tasto per l’illuminazione dello schermo e l’orologio mi rivelò l’ora. Le tre e un quarto. – Se mia nonna mi scopre non mi farà più uscire di casa -
Feci per  rialzarmi ma il ragazzo mi bloccò la mano. –Resta, ti prego!- mi chiese supplichevole.
-Vorrei, davvero. Ma non posso proprio.- dissi scappando.
-Quando ti rivedrò?-
- Domani sera. Stessa ora stesso posto. Io ci sarò, tu?-
- Ci sarò.- detto questo, i miei occhi non riuscirono più a percepire la sua sagoma da nessuna parte. Si era come volatilizzato, oppure era il sonno a farmelo credere. Sbadigliai grandiosamente e poi presi la via di casa.

Arrivata sull’uscio ebbi la paura che mia nonna avesse scoperto la mia fuga e che fosse davanti alla porta, pronta a sbraitarmi contro. Presi la chiave e la girai nella toppa. Cercai di fare meno rumore possibile e ci riuscii. Nessuno all’orizzonte. La sala su cui dava la porta di ingresso era deserta. Buon per me. Imboccai la via per la mia stanza. Fui costretta a salire al piano di sopra attraverso quelle maledette scale cigolanti. Cercai di controllare ogni singolo movimento e di evitarne di bruschi. Il cigolio probabilmente era forte solo per me, che in quel momento avevo un udito in grado di rilevare persino il battito d’ali di una mosca a chilometri di distanza. Improvvisamente udii una voce provenire dalla stanza di mia nonna. Oh caspita! Rimasi immobile per circa un minuto, poi realizzai che stava solamente parlando nel sonno, come sempre. Falso allarme. Entrai nella mia camera, mi spogliai e misi il pigiama estivo. Mi coricai sul letto ed iniziai a ripensare a quella voce, a quel respiro leggero e a quell’aroma indescrivibile. Tutto in quel giovane era perfetto. Tutto. Non credevo che al mondo potesse esistere qualcuno in grado di provocare in me tali sentimenti. Non sapevo se fosse amore, ma di certo non era normale essere attratti così tanto da qualcuno. Improvvisamente crollai e il sonno ebbe la meglio sui miei pensieri.



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Altro / La voce del Silenzio
« il: Novembre 05, 2013, 18:39:32 »
                                                  La voce del silenzio
Silenzio. Il silenzio più totale era disceso su di me e mi isolava dal mondo.  Di colpo aprii gli occhi e non notai alcuna differenza. Il buio mi circondava e mi avvolgeva nel suo gelido abbraccio.  Cercai di captare un qualsiasi segnale che mi potesse rivelare dove fossi e cosa mi fosse successo. Nella mia mente il buio era addirittura più  nero di quello che i miei occhi percepivano. I ricordi di ciò che mi aveva portato a far parte di quell’immensa oscurità si riducevano ad un indistinto sovrapporsi di suoni e voci. L’unica cosa che riuscii a ricordare fu una tunica rossa. Rossa come il sangue e come l’inferno.  Insieme ad essa uno sguardo. Era diabolico, mi fissava dall’alto e, nei pochi istanti in cui i miei occhi incrociarono quegli occhi sconosciuti, riuscii a leggere nella sua anima un profondo desiderio di vendetta. Capii che non desiderava la mia morte, ma solo osservarmi mentre, soffrente, la vita mi abbandonava.
Improvvisamente le mie mani percepirono una morbida superficie sotto di me. La esplorai a lungo prima di comprendere che fosse un letto.  Continuai ad esplorare il materasso sul quale mi trovavo, speranzoso di trovare un qualche indizio che potesse risolvere tutto questo. Niente. Non riuscii a scovare alcunché di utile, anzi proprio niente.
D’un tratto udii un qualcosa che ancora oggi mi perseguita come quella volta. Un insieme di bisbigli iniziarono a diffondersi per la stanza. Li sentivo ai piedi del letto. Avvertivo che c’era qualcuno con me in quella stanza ma non potevo vederlo. Mai come in quel momento mi sentii vicino alla morte. Mi sembrava persino di avvertire il suo gelido respiro sul collo, ma probabilmente quelli erano brividi di paura. Quella stessa paura che iniziò ad insinuarsi in me, espandendosi velocemente e raggiungendo ogni singolo organo o cellula del mio corpo. Rimasi immobile ad ascoltare per cercare di afferrare anche una sola delle parole che viaggiavano nell’aria, nascoste dai bisbigli. Non riuscii a cogliere altro che suoni confusi, sembrava che quelle persone non si dicessero alcunché, ma che si limitassero a bisbigliare. Diabolico. Chi mai potrebbe fare questo? Sentii che non avrei potuto morire. Chi avrebbe badato a Grace, la mia bambina? Chi l’avrebbe vista crescere? Chi avrebbe camminato accanto a lei nel duro viaggio della vita? Il suo dolce visino mi comparve prontamente davanti agli occhi e allora capii che avevo ancora tante cose da fare. Il libro della mia vita non era ancora arrivato all’epilogo e c’erano ancora molte pagine da scrivere.
L’adrenalina prese a circolarmi in corpo e fui pronto a lottare. Mi alzai di scatto e mi misi seduto sul letto. Quando appoggiai in piedi al pavimento, mi accorsi che i bisbigli si erano zittiti e il silenzio tornò a purificarmi le orecchie da quelle voci che fino a poco fa mi stavano facendo impazzire.
Mi alzai in piedi e imposi le mani per tastare l’ambiente circostante. Avvertii il nulla scivolarmi tra le mani e quindi avanzai. Le mie mani urtarono una superficie fredda e leggermente ruvida. Dopo pochi altri tocchi, capii che si trattava di un muro e presi a percorrerlo fino a che non avvertii un oggetto molto più freddo e di forma sferica che mi si insinuò tra le mani. Lo tastai per qualche secondi e realizzai essere un pomello. La mia mente mi suggeriva che sicuramente la porta non si sarebbe aperta e mi rassegnai al fatto che non sarei potuto uscire da quella stanza né allora, né mai. Come un fulmine a ciel sereno, una nuova idea si fece strada in me e mi spinse  a proseguire. Mi feci quindi coraggio e impressi la mano sul pomello. Lo girai e…
La porta si aprì magicamente. Una gran luce mi invase e penetrò nella stanza. Non volevo conoscere cosa ci fosse nella stanza o se i bisbigliatori esistessero davvero. Volevo solamente andarmene da quel posto maledetto. Un pensiero a quella stanza, però, mi rimase e decisi di chiudere la porta. Così lascai lì dentro ogni paura e ogni esitazione e fui libero di proseguire. Ciò che mi si aprì davanti agli occhi fu un lungo corridoio illuminato da miriadi di candele disposte su entrambi i lati. Presi ad incamminarmi e notai come i quadri che decoravano la parete rappresentassero ambientazioni lugubri e terrificanti. Case spettrali e castelli abbandonati erano il tema principale in quella serie di quadri. D’un tratto avvertì una voce che sembrava avvicinarsi sempre di più e, dopo qualche secondo,  realizzai appartenere a Grace. Mi voltai da ogni parte, cercando di scorgerla, ma niente. La sua voce sembrava prigioniera dell’aria.
All'improvviso mi apparve a qualche metro di distanza la piccola figura di Grace che mi chiamava. La sua mano aperta in un gesto disperato era rivolta verso di me, come per chiedere aiuto. La sua figura si allontanava all’indietro lentamente, come fosse attirata da qualcosa. Io non persi tempo e le corsi incontro più veloce che potei. Man mano che mi avvicinavo a lei, però, questa si allontanava ad una velocità maggiore. L’ansia cresceva e mi rendeva impossibile un aumento della velocità. Mi paralizzava e mi indeboliva come mai mi era successo prima di allora. Temevo che le tenebre l’avrebbero inghiottita per sempre e che io, pur avendo potuto, non fossi riuscito ad impedirlo. Non me lo sarei mai perdonato.  La velocità con cui Grace veniva risucchiata dal buio aumentò e la mia bambina scomparve dalla mia vista. Presi ad accelerare ancora di più di quanto il mio corpo mi permettesse. Non riuscii più a scorgerla, ma, nonostante questo, continuai a correre. Sapevo che se avessi dovuto morire, l’avrei fatto per Grace.
Improvvisamente tutto ciò che avevo intorno sparì e mi ritrovai  a essere catapultato per terra, vicino ad un cassonetto per l’immondizia. Mi trovavo in un vicolo che conoscevo molto bene. Si trovava esattamente dietro casa mia. Mi rialzai e corsi verso casa. Dentro di me sapevo che era tutto finito. Tornato a casa ritrovai tutto così come lo avevo lasciato. Grace corse verso di me e mi strinse forte. Io la abbracciai, consapevole più che mai, che non l’avrei più lasciata.
Cosa successe quel giorno non riuscii mai a capirlo, ma una cosa mi fu chiara. Sapevo per certo che  quel mistero sarebbe rimasto per sempre sigillato nella parte più interna di me, senza possibilità di rivedere la luce.

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Introspettivo / Re:Lo scrittore
« il: Ottobre 12, 2013, 23:12:13 »
Ah sì? Tran-Tran? Sei sicura? :mah: Grazie mille per la critica

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Introspettivo / Lo scrittore
« il: Ottobre 12, 2013, 18:58:28 »
   
La notte scese solenne su Rosegrove. Ogni angolo della piccola cittadina fu avvolto nel gelido abbraccio dell’oscurità. La quiete più totale era calata dall’ alto, come se qualcuno avesse zittito il caotico tram- tram quotidiano. Nessuno era più sulle strade, non una sola macchina osava disobbedire alla rigidità imposta dalla nostra eterna padrona, chiamata Notte.
La fredda e pallida luce della luna lambiva l’atmosfera come fa il pittore più bravo, che non osa premere sulla tela, ma si limita a farla baciare dolcemente dal pennello. Quella luce sembrava essersi mescolata alle tenebre in un connubio inscindibile, quasi fosse diventata una cosa sola con essa. Quella stessa luce sbatteva contro le pareti oscure delle case, dipingendo la città di candidi riflessi.
(So che vi sto annoiando con questa descrizione smielata e strappalacrime, ma voglio condurvi per mano e senza fare rumore tra le strade silenziose e le case illuminate della piccola cittadina in cui vivo). Piano piano, senza farci sentire, busseremo alla porta del numero 32 di Dram Street. Arriviamo al quarto piano del palazzo più alto e approssimiamoci alla seconda porta a sinistra, da cui si ode un leggero e insistente ticchettio. Erano le mani di uno scrittore di nome Jake Russell che si muovevano sulla tastiera in modo impercettibilmente rapido. Ebbene sì. Quello sono io. Ero intento ad ultimare il diciannovesimo capitolo del mio ennesimo giallo. Le dita scivolavano sinuose sul mio portatile, danzando al ritmo della mia fantasia. In quel momento non esisteva più nulla per me. Mentre scrivevo, la mia mente era altrove, persa in un mondo che era mio e che non poteva farmi del male. Scrivere per me significava e significa tutt’ora “vivere una storia che non è la mia”. Mentre mi lascio trasportare dall’immaginazione, sono in grado di fare qualcosa che nella vita vera non avrei il coraggio di fare o dire cose che la mia personalità o l’immagine che di me ha il mondo censurerebbero. Il mondo in cui vivono i miei personaggi è un mondo che io stesso ho creato e in cui tutto va come decido io. Scrivere è un po’ come (scusate la blasfemia) essere Dio. Io posso uccidere chi voglio e nella maniera in cui voglio, così come decidere chi può vivere e come deve vivere. Ogni azione di ogni singolo personaggio è controllata dettagliatamente da me e solo da me.
Insomma, Non si muove una foglia che Jake Russell non voglia. Al di là di questo, però, scrivere mi dà un’energia incredibile e speciale. Mi rende forte quando il mondo mi dà del debole e mi coccola quando nessuno sembra volermi bene. Scrivere era ed è ancora oggi una delle poche ragioni per cui amare la vita. La cosa che però mi affascina più di tutte in questo lavoro è vedere uno qualsiasi dei miei libri su uno scaffale di una libreria, pronto per essere letto, sfogliato, o semplicemente guardato di striscio. Osservarlo mentre una persona lo sceglie tra migliaia di altri libri e lo compra, per curiosità o perché lo aspettava. Capire che quel libro potrà significare molto per quella persona, toccargli l’anima, fino a cambiarla nel profondo: queste sono le cose che più mi emozionano nel mio lavoro e questo è il mio obbiettivo. Credo di averlo anche detto in un’ intervista una volta: “Se riuscirò con un mio libro a scuotere ed emozionare anche uno solo, anche il più emarginato, anche l’ultimo dei miei lettori, allora saprò con certezza di aver fatto bene il mio lavoro.”

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Fantastico / Il buio non tornerà parte 2
« il: Agosto 14, 2013, 11:03:18 »
Ryan è cieco dalla nascita, quando all'età di diciassette anni, il suo amico Raph gli consiglia di sottoporsi ad un intervento che, se riuscito, gli avrebbe permesso di vedere il mondo, cosa che prima non aveva mai avuto possibilità di fare. Dopo l'intervento Ryan si sveglia e, dopo aver avuto i primi contatti con questa nuova realtà, si decide ad uscire dalla sala operatoria, pronto a "conoscere" la sua famiglia...


Passai qualche altro minuto a guardarmi intorno, cercando di catturare quante più informazioni riuscissi. Vedevo che Raph mi ammirava, contento che fossi uscito da quel tunnel buio e spaventoso che per lui la cecità doveva essere. Mi ha sempre considerato come un invalido, qualcuno che doveva per forza essere aiutato. Io rifiutavo sempre i suoi aiuti, non per superbia, ma perché non volevo si disturbasse per me. Non ce n’era alcun bisogno. Nonostante questo, però, il mio amico si è sempre comportato lealmente con me, imponendomi il suo aiuto e io, scocciato, gli ubbidivo.
Appoggiai le gambe in terra, una per volta, e mi sollevai dal lettino. Raph corse subito a pormi il braccio e io mi appoggiai a lui. Questo gesto mi fece rendere conto di quanto sarebbe stato difficile muoversi in quel mondo a me sconosciuto. Chiesi, così, a Raph il mio bastone e presi a tastare il mondo con esso, così come fino ad allora avevo fatto. Battei sul fianco di un mobiletto di forma cubica (avevo imparato a riconoscere le forme della geometria solida da piccolo, quando mia mamma mi comprò uno di quei giochi con le formine da inserire nelle fessure con la loro forma. Io toccavo la forma della fessura e, con un ingegno degno forse dei bambini molto più grandi di me, riuscivo sempre a inserire tutte le figure). Mi meravigliai di come ad una sensazione tattile ne corrispondesse una visiva, che coincideva perfettamente con la prima. Mi avvicinai al mobiletto e lo toccai con l’indice. Da questo primo contatto fisico capii che era veramente un cubo. Prima non ne ero sicurissimo ma ora sì. Appoggiai il pollice e poi tutta la mano. Accarezzai quella superficie e, mentre vedevo la mia mano scorrere su di essa, un brivido mi percosse. Stavo osservando il movimento della mia mano e ne fui estasiato. Portai la mano davanti agli occhi e presi a fissarla. Era prevalentemente grazie a lei che conoscevo la realtà. Il senso del tatto veniva espresso per lo più dalla mano ed era questa che mi aveva fatto da occhio per tutto il tempo in cui rimasi nel buio. 
I dottori presero a fissarmi e a parlottare tra di loro. Mi resi conto solo allora che mi stessero guardando, ma probabilmente era già da tempo che i loro sguardi compiaciuti mi contemplavano e mostravano un orgoglio immenso nell’essere riusciti nell’impresa. Portavano una mascherina e questo mi impedì di vedere la loro bocca. Probabilmente sorridevano, ma non potei esserne certo.
Dovevo ancora abituarmi alla profondità, alle distanze e alle proporzioni. Non riuscivo a camminare benissimo. Affidavo i miei passi al mio caro bastone e, quindi, alla sensazione uditiva che scaturiva dal colpo che davo agli oggetti o forse ad una sorta di sesto ( o per me sarebbe meglio dire quinto) senso che mi permetteva di avvertire gli oggetti intorno a me. Raph mi sostenne mentre muovevo i miei primi passi in questa nuova realtà e mi preparavo ad un cambiamento permanente della mia vita.
- Per i primi tempi sarà meglio che tu ti muova come hai sempre fatto. Ti consiglio di usare il bastone per prendere confidenza con le sensazioni visive. Ti devi abituare ad avvertire la profondità degli oggetti, a calcolare le distanze tra loro e a muoverti facendo affidamento solamente sulla vista.- fece Raph senza guardarmi, ma osservando lo spazio intorno a sé, come volesse indicarmi la via più semplice per farlo. Devo ammetterlo: è molto difficile trovare amici fedeli e gentili come Raph. Da sempre mi è stato accanto. Nonostante io fossi indifferente alla mia deficienza e non le dessi più di tanta importanza, lui si metteva a piangere spesso per la mia condizione. Mi diceva che al mio posto lui sarebbe impazzito e che niente sarebbe riuscito a consolarlo. Cercava sempre di evitare argomenti che io non potessi comprendere a causa della mia incapacità di vedere. Si concentrava invece su argomenti inerenti la musica o la gastronomia ( tra le altre cose lui era anche un eccellente cuoco e mi deliziava spesso con le sue leccornie). Ah, se al mondo le persone come Raph fossero milioni! Ad ogni modo, io lo adoravo. Non perdeva mai occasione per dirmi quanto fossi coraggioso e quanto invidiasse il mio sangue freddo (stiamo parlando, ovviamente, di un inguaribile fifone che all’età di dieci anni aveva ancora paura di dormire con la luce spenta. Sì, aveva paura del buio). A questo proposito ricordo che un giorno mi chiese: “Come facevi da bambino a non aver paura del buio che avevi sempre davanti agli occhi?” e io gli risposi sinceramente: “Se non hai mai visto la luce, non puoi aver paura del buio.”
                                                                    ●●●
Uscii dalla sala dove mi ero risvegliato e attraversai un lungo corridoio dello stesso pallido colore dei camici dei dottori. Questi stavano dietro di me ci stavano seguendo, probabilmente per incontrare la mia famiglia. Io e Raph procedevano a braccetto mentre il mio bastone mi precedeva ad ogni passo. Il corridoio presentava una svolta e noi dovemmo assecondarlo. Prima, però, volli dare un’ultima occhiata all’indietro. Volli guardare per l’ultima volta quella sala d’ospedale dove avevo lasciato la mia cecità. Lì l’avevo abbandonata e per sempre vi sarebbe rimasta. Lontana dai miei occhi. Lontana da me.
In lontananza vidi delle persone. Man mano che mi avvicinavo esse diventavano sempre più grandi e non mi riuscii a spiegare subito questo fenomeno. Non ci feci poi così tanto caso e continuai ad avanzare. Scorsi tre figure. Una, molto alta, stava di fronte ad altre due che però erano di molto inferiori alla sua statura. Notai che queste avevano le gambe poste in un modo diverso rispetto alla figura più alta. Esse erano adagiate su delle costruzioni che avevo visto anche nella sala dove mi ero risvegliato. Queste erano ricurve e presentavano dei prolungamenti grazie ai quali erano ancorate a terra. Fui troppo incuriosito da quelle strutture che riuscivano a rendere delle figure più basse di quanto non fossero. Le figure che vi erano appoggiate, adattavano la forma del proprio corpo a quella di quell’ignoto strumento. Le gambe erano posizionate in corrispondenza dei prolungamenti e anch’esse toccavano terra. Ero troppo curioso. Con mia grande sorpresa osservai che una di quelle apparecchiature era proprio accanto a me e non c’era nessuno sopra. Decisi di toccarla. La mente mi si illuminò avevo intuito cosa fosse ma volevo esserne sicuro. Mi sedetti e capii che era una sedia. Cavolo! Non potevo credere ai miei occhi. Le persone che erano più basse dovevano essere sedute e quella più alta era in piedi. Ero fuori di me dalla gioia. Ogni scoperta era grandiosa per me. Ogni informazione di quel nuovo mondo mi rendeva più felice. Un dubbio, però, mi balenò per un istante nella mente. Una paura mi assalì. Ero terrorizzato che questo marasma di informazioni percepite tutte in una volta mi facesse del male. Poteva davvero essere pericoloso. Questa fitta nebbia di incertezze si diradò quando mi resi conto che quelle tre figure non potevano che essere la mia famiglia. Quei tre matti che mi sopportavano ogni giorno e che non si stancavano mai di me!
- Mamma! Papà! – urlai fuori di me dalla gioia.
Le due figure sedute si alzarono di scatto e presero a fissarmi. Alzandosi, raggiunsero e superarono l’altezza dell’altra figura. Immediatamente diventarono più grandi e questo mi fece capire che si stavano avvicinando. Vidi le loro gambe muoversi in modo alternato. Andai loro incontro e confrontai il movimento dei loro arti inferiori con quello dei miei e notai che era identico. Quelle persone stavano camminando incontro a me.
- Ryan- sentii urlare. Era la voce di mia madre. Era veramente lei.
Andai incontro a loro e decisi di accelerare il passo. Decisi così di fare una cosa di cui prima avevo solo sentito parlare e che mai avevo azzardato. Correre. Pensavo che mi sarebbe risultato difficile dato che prima di allora non mi ero mai neanche sognato di farlo (Provate voi a correre tenendo gli occhi chiusi! Per quanto possiate conoscere bene il posto in cui vi trovate, non riuscirete mai ad evitare di centrare in pieno un qualsiasi ostacolo che vi si trovi davanti). Diversamente da come le mie aspettative mi preludevano, appurai che era davvero facile accelerare il passo e mettersi a correre. D’un tratto però il mio cuore fu invaso da una paura mai provata prima e che mai vorrei vi capitasse nella vita. D’improvviso il mondo prese ad inclinarsi. Le percezioni che avevo della realtà presero a distorcersi. Tutto aveva mutato le sue proporzioni e le forme si erano allungate. Tutto stava cambiando. L’immagine più terrificante che mi si presentò in quel momento fu il pavimento. All’improvviso esso incominciò a diventare sempre più grande e quindi sempre più vicino. Con una velocità inaudita esso mi venne incontro e ne fui terrorizzato. Cacciai un urlo involontariamente e questo sollecitò mia madre ad invocare il mio nome nuovamente, questa volta, però, con una nota di apprensione ben distinguibile nella sua voce. Sentii che stavo spostando dell’aria intorno a me e avvertii il suo soffio sulla pelle. D’istinto imposi le mani e queste frenarono il pavimento, che altrimenti avrebbe continuato la sua avanzata fino a raggiungere il mio viso. Mi ci volle qualche secondo prima di realizzare quanto era successo. Ero caduto. Certo, mi era capitato altre volte in passato, ma questa volta non me ne accorsi. Ero così attratto e spaventato dal cambiamento che repentinamente stava subendo la realtà intorno a me, che non posi la mia attenzione sulle altre percezioni sensoriali che in quel momento mi avvertivano di quello che stava accadendo. Se non avessi prestato attenzione a ciò che i miei occhi vedevano, avrei sicuramente capito immediatamente cosa stesse succedendo. Così, dubbi su dubbi si accavallarono nella mia mente: avevo davvero fatto bene ad entrare in una nuova realtà così all’improvviso? Forse no, ma ero fiducioso che con il tempo avrei imparato. Ero rinato e, come un neonato impara a camminare a gattonare e a relazionarsi con la realtà, così avrei fatto io. Avrei imparato di nuovo a vivere.
Quelle tre figure che avevo capito essere la mia famiglia, mi corsero incontro (Loro sì che ci riuscivano!). La prima che mi aiutò a rialzarmi fu mia madre, che per la prima volta riuscii a guardare in viso. La sua voce era sempre stata per me una specie di coperta termica nella quale avvolgermi quando fuori, nell’inverno della vita, faceva freddo. La prima donna che entrò nella mia vita al buio fu anche la prima che entrò nella mia vita alla luce e questo mi sembrò naturale. Era mia madre e le madri, si sa, sono sempre le prime a venirti incontro. Le prime che ti raccolgono dal buio della pancia e anche dal buio della cecità.

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Sentimentale / Re:Il Numero 18
« il: Agosto 07, 2013, 16:41:44 »
In realtà la madre non stava parlando con il figlio ma con se stessa. Stava rievocando uno degli episodi più belli della sua vita. Come un romanzo lei immagina, racconta e si emoziona.

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Sentimentale / Re:Il Numero 18
« il: Luglio 31, 2013, 23:54:25 »
Grazie per le correzioni. Nel complesso, però, vi è piaciuto? :)
 

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Sentimentale / Il Numero 18
« il: Luglio 31, 2013, 21:55:03 »
- Come vi siete conosciuti tu e papà? Non credo tu me l’abbia mai raccontato.- E in realtà era vero. Io non l’avevo mai saputo.
Mia madre si fermò. Me ne accorsi perché di colpo era cessato quell’insistente strofinare sulla teglia che la stava tenendo impegnata in quel momento. Il silenzio. Poi riprese a strofinare più forte di prima.
- Tuo padre è sempre stato un uomo eccezionale. Intelligente, romantico e affascinante. Tutto ciò che una donna ha sempre sognato. Ci incontrammo in treno e fu il destino a volerlo. Era il 1990. Mia sorella Mary mi aveva trovato un posto come segretaria in uno studio legale a Philadelphia e io mi ci stavo recando tutta contenta. Tua zia avrebbe scomodato persino Dio pur di farmi ottenere quel posto. Diceva che lì avrei sicuramente trovato qualche buona “vacca da latte” (che era l’espressione più elegante con cui la zia si riferiva agli uomini), inoltre detestava vedermi a casa a sprofondare nel divano con le mani inzuppate nel gelato al cioccolato come le vecchie zitelle inacidite (tutte parole uscite dalla sua bocca!). E poi diciamocelo chiaro, mia sorella Mary non avrebbe mai perso l’occasione di farmi diventare sua debitrice e di dimostrare quanto ci sapeva fare nel suo lavoro. La conosci, no? –
Io annuii. Conoscevo benissimo la zia Mary. Mio padre non perde occasione per stuzzicarla e ridere sulle sue disgrazie. Ovviamente lo faceva per scherzare e lei stava al gioco. La zia Marylin, o come la chiama papà Bloody Mary, non è mai andata d’accordo con il genere maschile. Troppe storie finite con lanci di vestiti dalla finestra o con parole poco cortesi urlate a squarciagola l’avevano provata particolarmente e lei si era rifiutata di legarsi stabilmente a qualcuno. Si limitava a piccole storie occasionali che finivano per avere sempre lo stesso triste epilogo. Tutto sommato però zia Mary era un mito per me e Rachel. L’abbiamo sempre considerata un modello , soprattutto Rachel. Mia madre era molto molto contraria a questo ma quando zia Mary sentiva che sua sorella allontanava la sua nipotina preferita dall’essere come lei, andava fuori di matto, tanto che una volta l’ha persino portata via di casa contro la volontà di mia madre.
-  Io ero diretta a Philadelphia per raggiungere questo posto di lavoro sicuro ma lontano. Salii sul treno e mi diressi al mio posto: il 13B, terza carrozza. Per una qualche inconscia pulsione, o semplicemente perché Dio lo voleva, sbagliai scompartimento ed entrai nei sei posti che portavano il numero 18. Appena varcai la soglia, sicurissima di trovarmi nel posto giusto, incrociai il suo sguardo. Quei suoi occhi così brillanti, così perfetti mi illuminarono di un nuovo sole e non riuscii a staccargli i miei di dosso. Lui mi svegliò da questo mio trance improvviso e inaspettato schiarendosi la voce.  “Non si siede?” mi disse. Io ero rimasta paralizzata da quanto quegli occhi mi rapissero ogni istante di più. “Certo!” feci io imbarazzata e confusa. “Il mio posto è il 13 B”. Diedi un occhiata ai numeri neri stampati sul portabagagli sopra i posti a sedere e subito mi bloccai. “Non è questo il mio posto. Ho sbagliato scompartimento.” Papà annuì. “Se vuole può restare qui.” Mi disse. Io, allora timidissima e impacciata, rifiutai cortesemente e corsi fuori in cerca del mio posto. In quell’istante avrei potuto sentire la vocina isterica di Mary che, infervorata come una iena, mi rimproverava per l’occasione persa a causa della mia poca esperienza nel campo (cosa che Mary avrebbe potuto vendere a palate ). “Non lasciartelo scappare!” sentivo nelle orecchie, poi, da brava ragazzina casa e chiesa, scuotevo la testa, imbarazzata per aver anche solo pensato ad una cosa simile. Mi diressi nell’alloggiamento numero 13 e notai con mio grande stupore che quasi tutti i posti erano occupati. Cercai il 13B e mi accorsi che un uomo vi era stravaccato. Era una specie di omuncolo insignificante. Uno di quelli che si sentono di poter conquistare il mondo solo perché hanno un coltellino in mano e tu no. Aveva un berretto verde marcio con la visiera rivolta all’indietro. Un paio di braghe sgualcite ed una maglia da pallacanestro che pareva gli arrivasse alle ginocchia. Era il solito tipetto che si incontra in giro nei vicoli bui e stretti di notte. Di quelli che spacciano e rubano. Probabilmente era salito sul treno senza biglietto e una volta che il controllore lo avesse visto, sarebbe stato sbattuto giù dal treno a calci. Questo bel tipetto stava occupando il mio posto, il 13B. I piedi erano stravaccati sul posto accanto, il 13D. Chiesi cortesemente di spostarsi ma lui mi rispose sgarbatamente che non voleva essere disturbato (credo tu abbia intuito l’espressione che usò). Gli altri posti erano tutti occupati da elegantoni e gente incravattata che non scomodò neanche un capello per aiutare una giovane donna in difficoltà. Preferivano affondare i loro occhietti piccoli e infossati sul giornale di finanza che tenevano in mano piuttosto che mettersi contro quel tipetto così poco raccomandabile. Notai che un solo posto era libero: quello di fronte al ragazzo, il 13A. Chiesi se potevo sedermi e lui prese la sua borsa da terra, la scagliò sul posto a sedere e mi disse che era occupato. Uscii amareggiata dalla cabina e appoggiai la testa al finestrino del corridoio. A quei tempi ero una ragazza così fragile che di fronte ad un insulto o ad un tono di voce più alto del solito sarei stata incapace di qualsiasi reazione. La fronte mi si congelò al contatto con il vetro. Non era umido, solo freddo. A bagnarlo ci pensai io. Iniziai a piangere e a ripensare a come quel delinquente mi aveva trattata e a come io, seppure dalla parte del giusto, non fossi riuscita a pensare a niente che avrebbe potuto  in qualche modo tirarmi fuori da quella situazione. Solo il buio in quel momento. Le mie lacrime scorsero sul vetro, quasi come se piovesse. Non pioveva fuori dal treno, ma dentro di me. Un tremendo temporale si scagliava contro la mia povera e fragile animella innocente. Contro una povera ragazza vulnerabile agli attacchi della vita, così come a quelli di arroganti e animaleschi personaggi che credono che il mondo debba essere conquistato prendendolo a calci.
In mezzo a quel temporale, però, una luce si stagliò nel mio cielo. Un arcobaleno di colori raggianti e tinte uniche balenò in me. Quell’oasi era tuo padre. Mi ritornarono in mente il suo sorriso e la sua cortesia. Mi ritornò in mente il modo in cui mi aveva parlato, quella sua voce calda e rassicurante e quegli occhi, quei favolosi occhi verdi. Il mio sguardo si perse nel suo e fu subito il sereno. Decisi di correre da lui e sperai che i posti non fossero già occupati. Era incredibile che una come me avesse avuto il coraggio di affrontare un uomo a quattr’occhi, eppure stava succedendo. Forse era stato il destino a volerlo, oppure Dio, oppure era stata proprio Mary, che aveva sperato in questo dal giorno in cui ero nata.  Aprii la porta dello scompartimento e vidi che lui era seduto proprio dove l’avevo lasciato. Nello scompartimento non c’era nessun altro. Il ragazzo alzò gli occhi dal libro che stava leggendo e si illuminò in un sorriso. “Posso sedermi?” feci io imbarazzata. “Certo, accomodati. Che fine ha fatto il 13B?” mi misi quindi a raccontargli tutto e lui mi rassicurò. “Il mondo è pieno di gente come lui.” Lui mi guardò e indicò il finestrino picchiettandovi con il dito. “Secondo me, tra meno di un’ora vedremo il tuo amichetto scendere scortato dal controllore. Probabilmente è senza biglietto e per quanto possa fare il bullo, la legge va rispettata, sempre.” Da lì ci presentammo e iniziammo a parlare e parlare di noi, dei nostri hobby e di tutto ciò che ci serviva sapere per conoscerci meglio. Dopo quello che a me sembrò poco più di un quarto d’ora, lui picchiettò nuovamente sul finestrino. “Ecco fatto.” Fece poi “Cinquantadue minuti.” Diedi un occhiata al di fuori e vidi che il giovanotto presuntuoso era stato sbattuto fuori dal treno perché sprovvisto di biglietto. Un sorrisetto mi scappò inevitabilmente e lui se ne accorse. “Se vuoi puoi ritornare al tuo posto.” Mi disse. “Ma io non voglio!” dissi a bassissima voce, quasi vergognandomene. “Come vuoi.” Lui mi sorrise e continuammo il viaggio.
Una frase in particolare mi restò impressa di quel giorno e fu quella frase che mi fece innamorare della sua intelligenza e della sua sensibilità senza limiti. Lui mi disse : “A me piace molto guardare il paesaggio dal finestrino mentre viaggio, sai? Adoro osservare il mondo mentre scivola via alla velocità della luce. Sai, se guardo nella direzione opposta a quella nella quale sta andando il treno io vedo il mondo scappare via, se invece guardo verso la nostra meta, vedo che il mondo mi viene incontro, quasi volesse abbracciarmi.” Probabilmente aveva letto quella frase su qualche rivista da quattro soldi e l’aveva riproposta spacciandola per sua ma non mi importava. Proprio il fatto che lui l’avesse scelta per conquistare una ragazza era da ammirare. Mi disse che si stava dirigendo a New York. Aveva una coppia di amici che l’avrebbero ospitato a patto che lui avrebbe pagato parte dell’affitto. I piani per il suo futuro più prossimo erano di trovare una lavoretto che gli permettesse di campare e nello stesso tempo cercare di pubblicare il suo romanzo o al limite lavorarci sopra un altro po’. Il treno si fermò. Dopo quella fermata ce ne sarebbe stata solo un’altra prima di Philadelphia. Il volto di Robby cambiò espressione. Si era fatto più serio, quasi stesse per fare una cosa di cui avrebbe potuto pentirsi, E infatti fu così. Mi guardò negli occhi e mi prese la mano tra le sue e la strinse come un wurstel tra le due fette di pane di un hot dog. “Vuoi fare una pazzia?” mi disse. Io non capii e lui non perse tempo. Me lo disse subito. “Vieni con me a New York, ti va?” Rimasi spiazzata e lui se ne accorse. “Pensaci. Potremmo iniziare una nuova vita insieme. Io e te. Nessun altro. So che è una decisione difficile a prendere così su due piedi ma non te lo chiederei se non avessi visto in te quel qualcosa di speciale. La stessa luce che brilla nelle stelle del firmamento mi è apparsa nei tuoi occhi quando ti ho vista per la prima volta. Ho scorto in te ciò che cercavo da tempo e ti prometto, anzi solennemente ti giuro” poi si inginocchiò e mi prese l’altra mano. “Che mai cercherò altro perché la mia ricerca finisce con te. Ti ho riconosciuta subito dal tuo sguardo, dal modo in cui mi parli e dal tuo tenero viso. Tu sei colei che per tutta una vita mi ha consolato. Eri la speranza e ora sei realtà. Sei la risposta alle mie preghiere. Sei sostanza, non più sogno.” Ascoltando quelle parole persino il ragazzotto maleducato di prima si sarebbe sciolto il lacrime e così feci io. Non seppi che dire, che pensare, che fare. Un ragazzo così non sarei mai più riuscito a trovarlo. Seguirlo, però, avrebbe voluto dire mandare a monte tutto ciò che la zia Mary aveva costruito per me. Non solo avrei perso un’opportunità io, ma avrei messo nei guai anche lei. D’altronde però quel ragazzo era stato mandato da Dio perché desse una scossa alla mia vita, perché la migliorasse. Non potevo rifiutare una promozione dal Grande Capo e Robby era proprio la promozione che stavo aspettando. Pensai alla faccia che avrebbe fatto Mary quando gliel’avrei detto. In quel momento non sarei riuscita a dire se sarebbe stata più felice per il principe azzurro che avevo trovato o più furiosa per il lavoro che avevo perso. Ero combattuta e non sapevo come comportarmi. L’amore o la carriera? Bella domanda! Mary aveva scelto la carriera e adesso il suo record è stata una storia di undici mesi conclusasi perché Mary credette di essere incinta e il suo fidanzato scappò a gambe levate. Io però avrei voluto essere l’eccezione. Avrei veramente voluto seguire quel ragazzo e fare una pazzia per amore. La prima della mia vita. Se poi non avrebbe funzionato mi sarei ritrovata New York da sola e senza un posto dove stare. Certo non era una bella prospettiva ma sapevo che non mi sarei affatto pentita di quella pazzia e l’avrei presa come un’esperienza costruttiva. Di quelle che fanno crescere e ti fanno capire che a volte il cuore sbaglia. Ma non questa volta. Robert non era come tutti gli altri. Sentivo che tra noi c’era qualcosa di veramente speciale e lui avrebbe fatto di tutto pur di non tradirmi. Ne ero sicura. Io penavo e confabulavo dentro di me ma mi ero completamente dimenticata che Robert stava ancora aspettando una risposta. “Ma… ma io non ti conosco.” Feci imbarazzata. Lui a quel punto (non potrò mai scordare quel momento) mi baciò. Fu il mio primo bacio e fu intenso, pieno di sentimento. Una cosa da romanzo, come tutta questa storia, non credi? Quando le nostre labbra si toccarono persi la cognizione del tempo e per me potevano essere passati un’ora come dieci minuti.
Lui si allontanò e sentii che per la prima volta mi ero sentita viva, incredibilmente viva.
“Adesso mi conosci?” fece lui. “Ti conosco da una vita. Tu sei il principe azzurro che ho sempre sognato. Verrò con te. Al diavolo Mary, al diavolo Philadelphia. Io ti seguirò anche in capo al mondo.” “Non ce n’è bisogno. Andremo solo fino a New York.” Ridemmo tutti e due e il viaggio continuò.
Finalmente arrivammo a Philadelphia. Era il momento della verità. Solo allora avrei capito se la me timida e passiva aveva o no lasciato definitivamente il posto alla me combattiva e folle. La follia l’avrei fatta se non fosse stato per un impulso che mi costringeva ad alzarmi. Paura, mi dissi, ma non ne ero sicura.
Si sentì in tutto il treno la voce leggermente meccanica del capotreno che avvisava dell’arrivo a Philadelphia. Eccoci giunti di fronte al dilemma per la seconda volta: Amore o Carriera?
“Allora? Cosa fai?” la mia faccia si tramutò da allegra donzella innamorata a succube lavoratrice senza amore. Mi scusai moltissimo con Robert per averlo deluso, anzi illuso. Sapevo che stavo commettendo il più grande errore della mia vita. Dal finestrino scorsi mia sorella che mi aspettava al binario. Non dissi una parola e mi misi in cammino. La paura e la timidezza avevano sovrastato ancora una volta quel briciolo di follia che da sempre avevo represso in fondo alla mia persona senza mai curarmene minimamente. –
- Un momento! Tu sei scesa da quel treno? Mamma! Era l’occasione della tua vita come potevi pensare che il lavoro sarebbe stato più importante? –
- Tranquillo Ryan. Io non scesi da quel treno. Appena arrivai sulla porta vidi mia sorella di fronte a me che mi incitava a fare presto. “Dai, muoviti. Siamo già in un mostruoso ritardo per il colloquio. Questo coso è arrivato in ritardo!” Ero lì lì per rassegnarmi all’inizio una vita mediocre in compagnia di quella malata di mia sorella, quando mi balenò in mente il volto del mio bel Robert e in contemporanea mi ricordai le magiche parole con cui mi aveva stregata. Niente mi avrebbe più fermata. Tornai indietro tra le urla di mia sorella che, stupita mi urlava di tornare indietro. Diceva che eravamo in ritardo per il colloquio e che mi avrebbe riempito di botte non appena fossi scesa. Ma io dopo pochi secondi non la sentii più. Tutto aveva perso significato per me. Solo una cosa era importante per me. Rivedere ancora e per sempre il suo sorriso. Mi precipitai al numero 18 e lo vidi nuovamente. Alzò gli occhi dal suo libro e mi sorrise. Si alzò e io lo baciai. Quel giorno la follia aveva prevalso sul buon senso e come vedi Robert, Rachel tu ed io percepiamo ogni giorno quanto questa scelta si stata la migliore che avessi mai potuto prendere. –

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Fantastico / Re:Il buio non tornerà
« il: Giugno 22, 2013, 00:15:22 »
Grazie mille :)

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Anch'io ho scritto un aforisma / Sogno e realtà
« il: Giugno 20, 2013, 22:05:07 »
Quando un sogno diventa realtà la realtà diventa un sogno.

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Fantastico / Il buio non tornerà
« il: Giugno 20, 2013, 21:45:57 »
Il mio nome è Ryan Scott e avevo diciassette anni quando nacqui per la seconda volta.
Ma partiamo dall’inizio e parliamo della mia nascita. Io sono il secondo di tre figli, due maschi e una femmina, che i miei genitori hanno amato più di loro stessi ma che non hanno condiviso il loro amore in parti uguali. Ebbene sì, contrariamente a quanto sarebbe giusto, i miei mi ricoprivano di più attenzioni di quante ne meritassi e questo mi sembrava profondamente ingiusto nei confronti di mia sorella e di mio fratello. Sia chiaro, nei primi anni di vita ero contentissimo di tutto questo, ma con il passare degli anni, crebbe in me la consapevolezza che tutte queste premure fossero legate solo e soltanto al senso di colpa che i miei dimostravano di covare dal giorno in cui sono nato. Una rabbia che li divorava  internamente, fino alle ossa. Una rabbia per aver dato a due dei loro figli qualcosa che il terzo non possedeva. La vista. Ebbene sì, sono cieco fin dalla nascita e la mia vita sembrava agli occhi di tutti impossibile o dolorosa. A dire il vero però, io ho plasmato fin dall’inizio dentro di me la consapevolezza che non sarei mai potuto diventare come loro. Non avrei mai potuto percepire quel mondo in cui tutti sembravano così felici e che era percepibile in ogni parola, in ogni suono e in ogni sensazione.
Agli inizi della mia vita, sotto le amorevoli e forse troppo premurose cure dei miei genitori, crebbi isolato dalla realtà. Per il mio bene, dicevano, era meglio non conoscere ciò che non avrei mai potuto conoscere. E fu così che, seppure nella nostra povertà, non mi mancò mai niente. Avevo tutto quello che potevo desiderare. Mi furono regalate valanghe su valanghe di giocattolini musicali, ovvero quelli che, al tocco del bambino, emettevano delle canzoncine o dei suoni simpatici (una delle poche sensazioni che i giocattolini potevano stimolare in me, infatti, era il suono). I miei si illudevano di poter colmare il vuoto che c’era in me con quell’oceano di giocattoli e balocchi, anche se in verità loro erano ben consci di quanto questo non facesse altro che attenuare la mia curiosità. Curiosità che un giorno sarebbe esplosa come un vulcano. Quel giorno arrivò prima di quanto i miei si aspettassero. Era un tiepido pomeriggio di luglio. Faceva caldo, troppo caldo e decisi di uscire di casa. I miei e, in particolar modo mia madre, non mi permettevano di uscire da solo. Quel giorno, però, approfittai di una distrazione di mia madre. Quella poveretta non poteva sorvegliarmi ventiquattr’ore su ventiquattro e ogni tanto si svagava telefonando a qualche sua amica e spettegolando su chiunque. Non che mia madre fosse una di quelle donne tutte parrucchieri e saloni di bellezza che si comportano da snob, ma qualche volta, finito di fare la madre, si rilassava come le piaceva fare. In fondo cosa c’era di male in questo? Imparai a riconoscere quando mia madre parlava al telefono. Dopo aver detto qualcosa nessuno le rispondeva. Mia madre stava in silenzio per qualche secondo e poi riprendeva a parlare. Capii, allora che non parlava da sola, e nemmeno con una persona che non sapeva parlare, ma con qualcuno che si trovava da un’altra parte. Non feci molta strada quel giorno. Anche perché non volevo disubbidire tanto a mia madre, solo un pochino. Mi spostai semplicemente in giardino, continuando a fare quello che facevo in camera mia. Stavo giocando con le costruzioni. Affidavo al tatto il mio orientamento tra quei blocchetti di plastica e non sbagliavo. In realtà non ho mai avvertito una mancanza in me. Ero convinto di essere come tutti gli altri e credevo che tutti vivessero come facevo io. Immersi nel buio più totale si muovevano ignorando, prima del contatto, ciò che li circondava. Mia madre non aveva mai voluto rivelarmi che ci fosse un altro mondo, più grande, più dettagliato che quasi tutti potevano ammirare, tranne me. Quando ascoltavo l’anchorman del telegiornale (l’unico programma che mi era concesso, in quanto parlava di cose difficili in termini difficili per cui mi era impossibile capire e fare domande) io captavo segnali che rimandavano ad un qualcosa di altro dalle mie percezioni, qualcosa che andava oltre il mio modo di capire. Per quanto io mi sforzassi di ignorare quelle pulsioni interne che mi spingevano a chiedere e a voler sapere, a volte esse sovrastavano me e la mia forza di reprimerle, così cercavo di fare poche domande, su pochi temi che io proprio non afferravo neanche lontanamente. Captavo parole che per me non avevano significato e una volta chiesi: - Che cos’è “giallo”-
Mia madre impallidì. Uno sguardo sconfortato partì dai suoi occhi e si diresse verso quelli del marito. In quello sguardo si poteva leggere lo sconforto di una madre che avrebbe dato la vita per suo figlio, che avrebbe pagato oro per un suo sorriso, ma che in quel momento non riusciva a capire cosa fosse opportuno dire o fare. Era desiderosa di affidare al marito l’onere di una risposta, ma allo stesso tempo temeva che lui avrebbe peggiorato le cose. L’istinto le suggeriva di continuare così come aveva fatto fino ad allora, nascondendo la verità ad un bambino che non avrebbe saputo comprendere l’esistenza di un qualcosa che lui non avrebbe mai potuto conoscere. Per il momento e solo per il momento la madre avrebbe voluto zittire quell’ inevitabile “altro mondo” dal quale il suo bambino era escluso. Un impulso, però, si fece avanti in lei, emergendo dal buio più segreto del suo inconscio e bussando alle porte della sua anima. Questa strana sensazione l’avrebbe portata a rivelare ogni cosa al figlio, per una sorta di dovere materno che si incarnava nella scelta più illogica, ma che avrebbe tolto ogni peso dal cuore della madre.
- Robert, caro, tu sai che cosa vuol dire questa parola? – questa fu la reazione di mia madre, una domanda che in sé comprendeva già la risposta.
Il padre rispose prontamente. – No, cara. Sarà sicuramente una di quelle parolone usate dai giornalisti, tipo deforestazione o globalizzazione. Tutte parole di cui secondo me neanche loro conoscono il significato. –
Per un piccoletto di soli cinque anni quella risposta andò fin troppo bene anche se, crescendo le cose cambiarono parecchio.
Ma torniamo a quel tiepido pomeriggio di luglio. Mia madre si intratteneva al telefono con la signora Rosaline( di cui non ho mai conosciuto il cognome), una zitella tutto pepe che conosceva i fatti di tutti in paese e che non esitava a spifferarli in cambio di altri scoop. Lei viveva per questo e non c’era altro che le potesse interessare, per cui probabilmente era sola per sua volontà. Nessuno la cercava e lei di ricambio non si interessava al genere maschile. Viveva sola in casa sua con i suoi tre gatti Alanis, Amy e Jesse (tutti nomi femminili ovviamente). Lavorava (indovinate un po’) come parrucchiera e questo la autorizzava a dare consigli sulla vita sentimentale delle clienti che la prendevano alla lettera come il Vangelo.
Quel giorno ero intento a costruire qualcosa con quei blocchetti, non so bene cosa stessi costruendo. A dire il vero non lo ricordo, ma non è importante. Ciò che conta è che di lì passò qualcuno. Sentii i suoi passi avvicinarsi a me. Non era mia madre. I suoi passi sapevo riconoscerli, inoltre udivo ancora la voce e le risate di mia madre provenire dalla casa, segno che non aveva ancora finito di spettegolare al telefono. I passi che mi si avvicinavano erano leggeri, veloci e innocenti. Distolsi l’attenzione dai miei blocchetti e la concentrai sul nuovo arrivato.
 - Ciao, chi sei? –
Non ci fu una risposta, ma io non mi arresi e ripetei.
 - Ciao, chi sei? – Dopo un breve momento di silenzio udii una voce. Era gentile, allegra e curiosa. La voce di un bambino. – Che fai qui tutto solo? Vieni a giocare con noi. -
 - Non posso. – risposi prontamente. – Mia mamma non vuole che mi allontani da solo. – Ci fu un attimo di silenzio e poi il nuovo bambino rispose. ¬– Ma tua mamma non è qui in questo momento. –
- Proprio per questo non posso allontanarmi! – Feci accentuando il fatto che avessi ragione.
Il bambino si interruppe nuovamente. Di tutti quei silenzi non riuscivo a cogliere la causa. Con il senno di poi però, ripensandovi, capii che in quegli attimi eterni il bambino mi stava osservando. Io non potevo saperlo ma lui mi stavo scrutando profondamente. Stava cercando di capire che cosa avessi di diverso da lui. Perché tenessi gli occhi chiusi o perché sembravo estraniato dal mondo. Tutto gli pareva così strano e voleva capirci di più. 
- Come vuoi – fece, rassegnandosi. – Ti piacciono i Pokemon?- mi chiese poi.
- Che cosa? –
- I Pokemon! Come fai a non conoscerli? Li fanno anche alla Tv. –
- I miei non mi permettono di stare da solo davanti alla televisione? –
- Perché?-
-Non lo so.- feci io. – Non vogliono. –
- Quindi tu non hai mai guardato la televisione da solo? Come può essere?
- Cos’è guardato? –
- Che cos’è guardare? Ma tu sei tutto matto! Ecco perché giochi da solo! – disse il ragazzino e, accompagnato da una sonora risata, se ne andò. Lasciandomi solo.       
Immediatamente una lacrima mi scese accarezzandomi lo zigomo e discese libera fino a toccare terra. I bambini, si sa, a volte sono crudeli e dicono cose che possono far male. Inermi non possiamo che subire le loro accuse, le loro prese in giro. Ma in fondo non è colpa loro. Non capiscono cosa sia il male e agiscono per proprio interesse. Queste, però, sono considerazioni che ho maturato crescendo, capendo e interpretando. Allora, invece, ero solo un ragazzino di appena sette anni e non potevo perdonare quel bambino, non potevo giustificare la sua arroganza. Sapevo solo che mi aveva fatto piangere, sapevo solo che mi aveva fatto male. Era come se lui e tutti gli altri che lui conosceva avessero qualcosa, fossero qualcuno e si meravigliava di come io non avessi quel qualcosa, di come io non fossi quel qualcuno. Era solo meravigliato e soprattutto era dispiaciuto di non aver potuto fare amicizia con me. Mi aveva invitato a giocare, io avevo rifiutato e lui non si era arreso. Aveva cercato di trovare qualche interesse in comune e si accorse che non ne avevamo. Sorpreso, si era allontanato emotivamente da me, poi, deluso ma non vinto, aveva fatto trionfare il suo orgoglio sul suo dispiacere e si era dimostrato arrogante, allontanandosi da me fisicamente. In fondo era partito con delle buoni intenzioni, ma io, immaturo e rancoroso, non riuscivo a ricordare altro che quell’ultima frase che ancora mi rimbombava in testa. Che mi fece impazzire per quel minuto e mezzo in cui rimasi solo nel mio giardino. Solo nel mio mondo.

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