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Topics - peroni

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Introspettivo / Messaggi anonimi
« il: Dicembre 06, 2011, 10:02:50 »

Il cigolio del carrello metallico lungo il corridoio annunciava la fine di un nuovo mese.
“ C’è posta per te. “ disse l’uomo del carrello e una mano senza volto depositò una cartolina aldilà delle sbarre.
La figura nella penombra aspettò a raccoglierla.
Lo fece solo la sera, al momento in cui spegnevano le luci.
L’oscurità non gli creava problemi. Aveva imparato a conviverci; soffriva di insonnia.
Ormai da anni trascorreva le notti a fissare il buio del soffitto. Non aveva mai protestato per la dura condanna che gli era stata inflitta; in tanti avevano cercato di comunicare con lui in diversi modi ma senza successo.
Poi avevano desistito, dimenticandolo.
Raccolse la cartolina e stringendola al petto si distese. Gli sembrava come ogni giorno di non avere le palpebre e gli occhi erano accecati dalla luce del buio. Tre ore più tardi rinunciò alla possibilità di addormentarsi anche quella notte. Aveva paura. Paura di fare ancora quel sogno di tanti anni prima. Quanti? Non lo ricordava più. E fu allora che il ricordo del sogno lo assalì come un ladro nella notte. Sullo schermo buio del soffitto vide le immagini del suo corpo che dormiva serenamente nel suo letto. Poi quella che sembrava la sua figura si sedette nel letto mentre il corpo continuava a dormire. Quella cosa scivolò giù dalle coperte e uscì dalla stanza. Non tornò più.
E lui non dormì più. E non sognò più. E la sua vita non fu più la stessa. E fece tutte quelle azioni che sapete. Il ricordo svanì. Nonostante l’oscurità osservò la cartolina. Francobollo degli Stati Uniti, immagine di un museo di New York. Senza testo. Sorrise. Allungò la mano sotto il letto e prese una scatola di cartone. Dentro c’erano altre cartoline, senza testo ricevute da quando era in prigione: una montagna innevata, persone abbronzate intente ad una gara di limbo, un uomo ed una donna felici che salutano in cima ad una scaletta di un aereo, un gatto da strada che dorme sul cofano di un auto. Aggiunse la nuova cartolina alle altre e chiuse gli occhi.
La mattina seguente la cella era vuota.

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Altro / Frenetico
« il: Novembre 29, 2011, 11:27:47 »
A pagina 25 del quotidiano leggo la notizia del concorso: Una storia in meno di 100 parole.” Ad avercela un’idea! Sono le 16. Con il 250 percorro 8 km, arrivo in via Orlando 78/81 da Feltrinelli e piglio una cartolina del concorso. Torno a casa, recupero la vecchia Lettera 65 ma 4 tasti sono rotti. Peccato, volevo scrivere della riscossa dei caratteri di un tempo. Sono ormai le 23 e faccio 0-0 con il pc. Tanti numeri nella testa ma poche parole. Ci vuole un finale. Apro il cassetto e la calibro 9 me ne suggerisce uno pulp. BANG!


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Altro / Tempo per leggere
« il: Novembre 29, 2011, 11:26:45 »
Era la prima volta che entravo nella libreria. Immediatamente quell’atmosfera intrisa di cultura mi rapì. La gente intenta a sfogliare libri e riviste, l’odore delle pagine, le infinite emozioni che tutte quelle parole sapevano trasmettere.
Mi ritrovai a curiosare tra opere di arte, narrativa, poesia, cinema e, con mia sorpresa, ricette di cucina. Mi appassionai a quella della crema pasticcera, quel nettare giallo che rubavo con il dito  quando avevo i calzoni corti. La gente sussurrava scambiandosi sguardi complici e io non riuscivo più a smettere di leggere e di deliziarmi alla vista delle foto delle torte con la scritta “Auguri” fatta con il cioccolato. Ecco perché dimenticai che avevo impostato il timer su 20 minuti. L’ultimo pensiero fu che anche il mio nome sarebbe stato stampato su una pagina il giorno dopo.

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Altro / Amore tra le pagine
« il: Novembre 29, 2011, 11:26:17 »
Erano uno di fronte all’altra, separati da un gruppo di persone in fila alla cassa cariche di libri e riviste. Stranieri appassionati di cultura. Lui, un tipo navigato, pieno di risorse, amante dei viaggi, barba incolta e che profumava di mare. Lei leggera, chic, francese che si faceva guardare e toccare ma che incuteva rispetto per la sua classe. Fu subito colpo di fulmine. Dopo un’ora giacevano uno sull’altra, separati da un leggero strato di plastica.
Interruppi l’idillio con discrezione. Buon Anniversario nonno, per te “l’Odissea”,per te nonna l'abbonamento a “Vogue”. Avrebbero trascorso insieme il tempo che gli restava sopra un divano.

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Altro / Magiche riflessioni
« il: Novembre 29, 2011, 11:24:46 »


Scendendo le scale della Stazione Termini si entra in un mondo colorato, quello commerciale del Forum. Fuori può piovere, splendere il sole, o essere notte; qui sotto lo shopping va avanti 24 ore su 24 sotto una luce artificiale perenne che sospende il tempo.
Incastrata tra una libreria affollata da una comitiva di adolescenti armati di zaini e sacchi a pelo intenta a sfogliare guide turistiche per assaporare sulla carta un antipasto del loro prossimo viaggio e una cafeteria che profuma di toast e caffè, c’è una buffa scatolona. Un parallelepipedo che ha per facce tante foto colorate che compongono un album di volti anonimi, all’interno uno specchio, uno sgabello girevole e una tendina per garantire un po' d’intimità. Le gambe che si intravedono suggersicono di aspettare di vedere tutto il resto. Sono affusolate, caviglia delicata, una mano compare a raddrizzare la cucitura posteriore delle calze, l’altra apre il sipario e compare una ragazza bruna, volto intrigante, non bello, anzi decisamente angoloso ma proprio per questo non anonimo, impreziosito da un taglio a caschetto all’altezza della mascella e sfumato gradatamente sul collo. Occhi grandi, distanti, trucco scarso.
Dopo il “cheese” ritira le sue 4 foto in 4 minuti che osserva compiaciuta e mentre le infila nel portafoglio ne cade una che teneva all’interno, tra la patente e la Master Card.
La raccoglie e con le dita affusolate dalle unghie smaltate toglie via la polvere che aveva invecchiato precocemente un ragazzo bruno, con la barba ed un sorriso cordiale.
Gli ricambia il sorriso anche se lui non lo sa, esce e prende un taxi.
L’auto bianca la porta all’Istituto. Lei entra, cerca di orientarsi, si sofferma su una bacheca in cui figurano orari, avvisi e messaggi.
“La dottoressa la riceverà tra 5 minuti, se intanto si vuole accomodare in questa sala.”
La voce è cordiale, accogliente, come la persona che la introduce nel salottino d’attesa.
La ragazza si rilassa, lasciandosi andare, come fa dal parrucchiere quando si abbandona alle sue sapienti mani per lo shampoo. Nell’aria c’è un’atmosfera di familiarità. Già “familiarità” o qualcosa di indecifrabile, come di già vissuto, di deja vu. Per distrarsi sfoglia di malavoglia una rivista. Uno stato di ansia la invade e sa che non è per via del colloquio. Si trasforma in panico. Istintivamente si dirige verso una porta che richiude dietro di sé, per isolarsi, come aveva fatto poco prima nel Forum, tirando una tendina. Stavolta il suo microcosmo ha l’aspetto di una toilette.
Fuori bussano, voci concitate :
“Signorina, signorina sta bene ?”
Lei si guarda intorno,sempre più smarrita. Come un disco rotto un interrogativo non fa che aumentare la sua angoscia : “Come facevi a sapere che dietro quella porta c’era un bagno?” Lei si guarda allo specchio, opaco, ambiguo, ingannevole che riflette qualcosa che non ti appartiene e che non vuoi vedere. Mentre i grandi occhi si riempiono di lacrime e qualcuno sta già forzando la serratura lei ricorda quello che aveva visto in passato riflesso in quello stesso specchio; qualcuno o qualcosa di diverso da sè che le fece paura, inaccettabile, da rimuovere, da nascondere, da dimenticare.
Come quel posto dall’atmosfera magica in cui era inconsapevolmente tornata per ricominciare, dopo l’intervento che le aveva permesso di accettare la sua vera natura.
Uscì dal bagno rassicurando tutti e mentre si avviava a sostenere il colloquio riconobbe tra le foto ingiallite dei corsisti degli anni precedenti appese al muro il ragazzo bruno con la barba. Gli sorrise e, forse per un riflesso del vetro, ebbe la sensazione che lui ricambiasse. Si chiese allora se un ricordo è qualcosa che hai o qualcosa che hai perduto. Per la prima volta, dopo tanto tempo, si sentì placata.










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Umoristico / Ansia
« il: Novembre 25, 2011, 17:30:06 »
Il battito accelerato che posso sentire il mio cuore nelle tempie, lo stomaco per aria, il sudore freddo mentre cammino avanti e indietro come una sentinella meccanica da Luna Park. Ci siamo, ho atteso a lungo questo momento.
Nove mesi. Non devo deluderla ma mi sento svenire.
Mi appoggio con la testa al sostegno; è freddo,metallico, bianco.
Mi sento in una prigione tutta bianca.
Vorrei uscire ma non posso. Ci sono momenti nella vita in cui bisogna rimanere saldi, fermi con i piedi ben piantati al suolo.
L’altoparlante chiama il nome di un medico per due volte ma è come se non avessi l’audio. Adesso lo vedo. Avanza verso di me, la maglietta verde sudata ma lo sguardo è di ghiaccio con la sinistra accarezza qualcosa di tondo. Ora lo vedo meglio; è bianco, è proprio lui. Chissà se avrò la forza di prenderlo. Faccio tre respiri profondi e mi lancio verso di lui. Ho le mani fredde nonostante i guanti.
Che stress sta’ finale ai calci di rigore.

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Umoristico / Gli ultimi istanti
« il: Novembre 25, 2011, 17:28:28 »

Mi resta poco tempo ormai. Questione di attimi ed uscirò, spero spontaneamente, senza dolorosi interventi dall’esterno. Ho lottato, resistito, ma tutti i miei sforzi sono stati vani. La mia casa, il mio mondo stanno per trasformarsi in lacrime di una pioggia di ricordi. Peccato, stavo bene immerso in questo liquido che per me era il nettare della vita. Si dice che diamo la felicità a chi ci riceve ma so per certo che spesso siamo indesiderati.
Infatti molti di noi proiettati nel mondo esterno, senza averne fatto richiesta, una volta rifiutati cercano una via di fuga ma invano. Poiché rientrare, tornare indietro, è di fatto impossibile. Ci siamo, vorrei resistere ma la pressione è forte. Esprimo il mio ultimo desiderio: non contro il lampadario per favore. “Buon Anno.”

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Sentimentale / Cento
« il: Novembre 25, 2011, 17:27:36 »


Cento, cifra tonda. Come gli anni di solitudine, la velocità dell’automobile di mio padre nell’estate degli anni 60’, i passi che in quel tuo profondo Sud significavano morte.
Come i salti di gioia che ho fatto quando mi hai detto si. Cento come gli euro spesi per comprare i libri che desideravi per il tuo compleanno e che poi mi hai tirato in faccia quando il nostro amore ha scritto la parola fine. Come le tue foto che guardo sparse sul mio letto e il numero delle pillole che ho preso. Come i minuti che forse mi restano.

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Altro / Il colore della fortuna
« il: Novembre 25, 2011, 17:25:21 »


“ Il banco vince con 21 “ esclamò il croupier ritirando le fiches con la paletta.
“ Io passo, marchese e dovreste farlo anche voi. Datemi retta, abbandonate finchè siete in tempo. Il demone del gioco è una brutta bestia e voi non dovete umiliarvi ancora. Fatelo in nome del vostro sangue blu.”
A parlare era un vecchio e saggio signore in abito scuro che sapeva fino a che punto può spingersi un uomo. Ma per il marchese l’equilibrio era andato perduto da tempo. Assiduo frequentatore dei casinò aveva dilapidato il patrimonio di famiglia alla roulette, baccarà, black jack, poker e chemain.
Ma quella sera era andata troppo storta anche per uno sfortunato come lui.
Il croupier fece un gesto d’intesa all’uomo con gli occhiali scuri in fondo alla sala che si avvicinò al tavolo da gioco.
“Signor marchese è tempo di saldare i debiti. “ gli bisbigliò all’orecchio percependo il profumo di colonia proveniente dalla camicia del marchese,candida e stirata con cura dallo stesso nobile, ma anacronistica rispetto allo smoking sgualcito con i polsini ormai lisi. Il marchese sospirò, abbassò gli occhi, regalò l’ultima fiche al giovane croupier comprandosi il suo rispetto e si diresse verso un privè con l’aria del condannato a morte.
Sprofondato in una poltrona di cuoio nero, dietro una massiccia scrivania di mogano c’era il Generale, re incontrastato della zona sud della città: bische, casinò, bande, racket, prostituzione, traffico di droga erano il suo regno.
“ Le devo una fortuna Generale, lo so. Mi conceda un’ultima possibilità di rifarmi.” chiese il marchese con un filo di voce, occhi bassi. Il Generale continuando ad impestare l’aria col suo sigaro rispose con vocetta sadica.“ La fortuna non ha odore, nè sapore, nè colore. Quindi non esiste. E lei marchese, di conseguenza, non mi deve niente.”
Tutti risero nella stanza. Tranne il povero marchese.
Il Generale mise sulla scrivania una vecchia Colt a tamburo a 6 colpi, cimelio della Guerra di Secessione americana. Un prezioso pezzo d’antiquariato perso al gioco dal marchese sei mesi prima. Il nobile, riconoscendola abbassò lo sguardo. Il Generale la caricò con un colpo e fece ruotare il tamburo. Poi la porse al marchese con occhi luciferini.
“Le offro una possibilità onorevole per chiudere la sua inutile esistenza “. Il marchese poggiò la lunga canna alla tempia e premette il grilletto per farla finita subito. Click.
“Bene, marchese, ha guadagnato la vita. Ora le propongo un patto: quello che ha perso in questa serata contro due colpi nel tamburo.“ Ed aggiunse un altro proiettile nel tamburo. Il marchese accettò e stavolta pose la canna al centro della fronte. Click. Nessuno fumava più nella sala; il Generale era paonazzo ed il marchese rassegnato perchè sapeva che quell’essere spregevole non amava perdere.“Tre colpi nel tamburo e le annullo tutti i debiti che ha contratto con noi “. Il marchese stanco fece cenno di si con la testa. Infilò la canna in bocca e tirò il grilletto con l’indice bagnato di sudore. Click. Un coro di “Ohhh!” si levò nella stanza. Il marchese ne approfittò per prendere la parola. “ Ora che sono un uomo libero dai debiti nei suoi confronti, è il mio turno di proporle una sfida.“
 Al Generale cadde il sigaro sul panciotto.
“Rivoglio la mia pistola e la possibilità di fare un’ultima puntata alla roulette senza limite di posta.”
“Due richieste, due condizioni”, rispose il Generale, passandosi la lingua sulle labbra secche.“Le darò una posta ma voglio che prima metta altri due colpi nella pistola, e se perde il prossimo gioco lo farà col tamburo pieno.” “Accetto”, rispose con un inchino il marchese. La Colt ora era caricata con cinque colpi.
Si presentò dal croupier al tavolo della roulette e puntò l’intera posta sullo zero.
Mezz’ora più tardi la mortuaria portava via il corpo del Generale dentro un sacco nero di plastica. Lo scarno referto parlava di infarto.
Era quasi l’alba quando il marchese con una valigetta piena di banconote si dirigeva verso casa. Un’ombra lo aveva seguito dal casinò. Ora lo vedeva bene: era il giovane croupier.
“Dammi tutti i soldi, vecchio!” gli intimò facendo scattare la lama di un coltello a serramanico.
Il vecchio marchese lo sorprese perchè ebbe il fegato di affrontarlo. Caddero a terra, la borsa si aprì e mazzette di banconote finirono per spargersi al vento di quella fredda mattina. Nel buio la lama luccicò sulla gola del marchese quando la sua mano annaspando sentì il manico della vecchia Colt nella tasca della giacca. Chiuse gli occhi e premette il grilletto nell’istante in cui il croupier vibrò il fendente.
Mentre sentiva i passi che si allontanavano di corsa il vecchio marchese non potè consolarsi nemmeno al pensiero che la teoria del Generale non fosse del tutto giusta.
Ora che la vita lo stava abbandonando, riusciva a vedere il colore della fortuna.
Era rosso sangue.

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Introspettivo / Il treno delle 14,45
« il: Novembre 25, 2011, 17:24:11 »

Sono certo che sarete d’accordo con me su una semplice constatazione: “Quando un gesto o un evento si ripete in maniera ossessiva, si possono scatenare reazioni impensabili, anche in una mente saggia, tranquilla e razionale.”
Se siete di parere diverso, concedetemi qualche minuto di attenzione.
Era un giovedì di una calda estate, l’ora quella della siesta. Seduto sulla solita sedia, la faccia contro il vetro sporco della finestra, aspettavo l'impercettibile tremore della casa crescere gradualmente.
Tempo 30 secondi tutto avrebbe tremato, dalle suppellettili al bicchiere con le mie matite accuratamente temperate sulla scrivania. Il rapido delle 14,45 sarebbe passato davanti ai miei occhi, senza fermarsi, lasciando dietro di sé una nuvola di polvere, come ormai accadeva da mesi.
La mia piccola stazione di campagna non era più meta di viaggiatori, non so più da quanto tempo. Come spezzoni di un vecchio film ricordo abbracci commossi, lacrime di addio versate su valigie cariche di tristezza e di speranze, voci di bambini eccitati per la partenza. Ma quello che mi manca di più sono gli appassionati baci di giovani amori nel momento doloroso della separazione. Quanti ne ho visti da dietro quel vetro sporco. Quante volte ho sofferto con loro.
Non viene neanche più quel buffo ometto che tutti i giorni, alle 12 in punto, nel preciso istante in cui le lancette dell’orologio in cima al binario 1 si sovrapponevano, si materializzava dal nulla sulla banchina. Aveva sempre con sé una valigia troppo piccola per un grande viaggio. Non parlava, guardava l’orologio e aspettava fino al passaggio del rapido. Poi, come d’incanto, scompariva.
Ricordo che una volta gli chiesi perché non partiva mai. Mi rispose che partire è un po’ come morire e raccontò con dovizia di particolari le strane cose che vedeva nei suoi sogni e che il giorno dopo si ritrovava davanti senza preavviso.
Un giorno non venne alla stazione. Né i giorni seguenti.
Venni a sapere che l'avevano portato via su una lunga auto nera. In fondo aveva ragione lui. Partire è un po’ come morire. Ma sto divagando. Uscii al sole.
Il convoglio era passato e adesso era solo una piccola macchia tremolante per il calore che si perdeva all’orizzonte,scomparendo dietro alle colline.
Cercai di concentrarmi cercando di captare anche il più flebile segno di vita di quell’ambiente che sembrava essere caduto in letargo.
Un uccello che canta tra gli alberi, un refolo di vento. Niente, come al solito.
L'aria era ferma ed il cielo pareva lastra infinita di azzurro lucente, con al centro una palla di fuoco.
Aggiustai il nodo della cravatta con estrema cura e rientrai, accennando un sorriso, come se la stazione fosse stata ugualmente piena di gente. Chiusi la porta a chiave e con calma mi diressi verso lo specchio.
La faccia che mi fissava aldilà del vetro certamente non poteva essere la mia. Ne sono certo. Di sicuro lo specchio si doveva essere guastato, col tempo.
Rimasi ore a fissare quel volto sconosciuto, per niente intimidito dal suo sguardo, così simile al mio, mentre cercavo qualcosa di interessante da dire per rompere il ghiaccio.
Ma quello non mi aiutava. Non collaborava. Sembrava si divertisse un mondo a imitare ogni mio più piccolo movimento, come in un buffo gioco di bambini. La cosa dopo un pò, iniziò a diventare irritante.
Mi scostai dallo specchio, nell’intento di lasciare con un palmo di naso quello straniero che si faceva beffe di me.
Tornai a sedermi sulla sedia della scrivania per concentrarmi sul panorama al di là del vetro sporco. Ma non feci neppure in tempo a lanciare un'occhiata di fuori che una strana sensazione, qualcosa di indefinito mi fece voltare. E fu allora che vidi quella faccia da forestiero, ancora lì, nascosta dietro lo specchio. Rideva, rideva sempre più forte, fino alle lacrime, puntandomi il dito addosso, come un bambino impertinente.
Le sue risate sempre più forti mi rimbombavano nel cervello, facendomi pulsare le tempie. Mi sentivo soffocare e la stanza cominciò a girare.
Mi alzai di scatto dalla sedia che rovinò sul pavimento insieme alle matite. E fu in quel preciso istante che finalmente ebbi l'illuminazione. In un momento divenne tutto chiaro.

Si, ora sapevo cosa fare. Con lucida determinazione mi diressi come un automa verso il ripostiglio. La porta si aprì cigolando. Cercai a tentoni l’interruttore della luce mentre con una mano rovistavo tra gli scaffali facendo cadere scope e oggetti ormai dimenticati. La luce inondò il piccolo e stipato stanzino costringendomi a strizzare gli occhi e finalmente vidi il martello, nascosto su un ripiano accanto ad un vecchio ferro da stiro.
L’eco di quella voce insolente che continuava a ridere avrebbe avuto vita breve.
Mi avventai contro il mio nemico e fracassai lo specchio che finì in mille pezzi sparsi per la stanza. Poi, compiaciuto della mia opera, tornai alle mie faccende.
Quella sera, mentre mi preparavo la cena ero fiero di me. Gliel’avevo fatta vedere.
Dopo aver mangiato di gusto terminai di leggere un libro accantonato da tempo e mi coricai pensando al rapido delle 14,45 che sarebbe passato il giorno dopo.
Fu davvero sorprendente ritrovarmi nel bagno faccia a faccia con quel tizio la mattina seguente.
Indossava un pigiama simile al mio e aveva il volto coperto da schiuma da barba.
Allora non resistetti e gli chiesi: “E’ in partenza?”
Memore della lezione non rispose.






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Altro / Noi contro Voi
« il: Novembre 25, 2011, 12:54:24 »

Si comincia, noi contro voi. 4-3-3-speculare, tutta tattica, strategia, come una battaglia napoleonica, come una partita di Risiko.
Vestiamo d’azzurro, tutti e 11 della stessa età, stesso taglio di capelli, come la squadra della Wermacht che affronta i campioni Pelè, Bobby Moore, Ardiles e Stallone che para il rigore in “Fuga per la vittoria”, il film di John Houston che all’inizio degli anni 80’ha fece urlare “Victoire” al pubblico del cinema come allo stadio. Tutti ebbri di passione, di gioia, di voglia di riscatto dopo un primo tempo terminato in svantaggio per 4-1 contro tutto e tutti.
Ed il giorno dopo nei campetti di periferia provavamo a fare la mitica rovesciata di Pelè che allo scadere regalava il 4-4 che era meglio di una vittoria da tre punti. La squadra dei prigionieri alleati gliela aveva fatta vedere a quella dei tedeschi e al loro arbitro venduto.
Poi la resistenza francese alla fine del film li faceva anche scappare ma per noi amanti del pallone il succo del film stava tutto in quella partita magistralmente girata.
Adesso siamo qui con la palla bianca sporca, stile calcio inglese dove piove sempre ed il campo è allentato ed alla fine i 22 escono infangati, feriti come gladiatori ma orgogliosi come eroi che non si danno mai per vinti.
Sento il rumore secco dei contrasti “o palla o gamba” perché come tutti sanno ”il calcio non è un gioco per signorine.”
Palla in tribuna, interventi a piedi uniti, urla, sudore e lacrime in una bolgia infernale.
Ogni gol subito è una mazzata che stenderebbe un toro.
Senza arbitro, niente regole. Anzi, una sola: vale tutto. Si arriva ai 10.
Pronto per la rivincita? Allora metti altre 500 lire, tira la leva e senti le palline che arrivano rotolando.
Tirala al centro. Giochiamo !

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Horror / Vogliamo te, Mario Rossi
« il: Novembre 25, 2011, 12:53:14 »

Perchè ogni volta che posteggio la macchina sotto casa, anche di notte, di ritorno dal turno, c'è sempre un furgone grigio delle pulizie con due loschi figuri che si ferma poco più avanti? Non sono ricco, non gioco d'azzardo quindi non ho nemici che vogliono darmi una lezione. Sarà una coincidenza, ma mi sento osservato da dietro quei vetri luridi. Però a pensarci bene, ormai da un mese, tutte le mattine dal giornalaio incontro quella signora anziana con le buste della spesa che mi chiede dov'è la fermata del 314. Strano: mai visto quell'autobus passare in zona. E quei due attempati testimoni di Geova che mi citofonano alle ore più assurde per dirmi che la mia salvezza è giunta? Sono ateo o meglio agnostico e all'inizio gli ho detto educatamente che non mi interessava, poi li ho mandati via in modo più energico. Ma loro dal monitor mi hanno sempre risposto con un sorriso. Fino alla suonata successiva. Basta! Domani vado dai Carabinieri e li denuncio per molestie. Una bella rogna! Non bastava la disoccupazione. Un over 40, prossimo alla soglia dei 50, laureato e con un master in comunicazione d'impresa costretto dalla crisi a fare il guardiano notturno di un centro commerciale aperto da poco nella periferia nord della città. Lavoro stressante, monotono, solitario ma che almeno mi permette, una volta effettuato il mio giro di ricognizione, di leggere o scrivere in pace racconti. La mia passione. E così eccomi qui, alle 3 del mattino a ripensare a quegli incontri inquietanti davanti a una tazza di caffè e a uno schermo del pc dove il puntatore del mouse lampeggia da mezz'ora.
Non riesco a scrivere una parola. Ho la testa che mi gira come una trottola. Come se avessi bevuto una botte di whiskey. Decido di farmi un giro per schiarirmi le idee. Anche se ho già controllato tutto. E' una notte come tante, d'agosto: appiccicosa e morta.
Percorro il corridoio illuminato da una luce al neon che va e viene e arrivo all'ascensore.
Schiaccio il secondo piano, dove c'è l'abbigliamento intimo donna/uomo. Forse la vista di qualche guepiere o tanga mi metterà dell'umore giusto. Fatti pochi metri l'ascensore si blocca. E adesso? Premo il pulsante dell'allarme ma ci sono solo io e quindi non succede niente. Batto con i pugni e, miracolosamente, le porte si aprono. La paura svanisce sostituita da qualcosa che non saprei definire ma che è peggio. Davanti a me, nell'oscurità, riesco a riconoscere 5 sagome. Appartengono alla vecchia con le buste della spesa, ai due testimoni di Geova e ai due della ditta di pulizie. Che volete? Che ci fate qui? Come siete entrati? Non rispondono e avanzano minacciosamente come automi. Sono dentro l'ascensore. Mi circondano. Impugno la torcia elettrica come una clava. Forse posso stendere la vecchia con le buste della spesa ma i due della ditta di pulizie sono grossi anche se il loro sguardo è spento.
“Vogliamo te, Mario Rossi.” fa uno dei testimoni di Geova, un sessantenne con gli occhiali da miope e la pancia di uno che da tempo non sale su una bilancia.”Vogliamo te, Mario Rossi.” ripete la vecchia con le buste della spesa che emanano un tanfo di verdure e pesce ormai in putrefazione. “Come mai conoscete il mio nome?” “Io non vi conosco. Che volete da me?” urlo con le spalle ormai alla parete dell'ascensore. Si avvicina quello più grosso della ditta di pulizie. Indossa una tuta verde sporca, ha la barba di 5 giorni, puzza da vomitare ma ha una voce sorprendentemente gentile. “E' giunto finalmente il momento di andare. Di tornare a casa. Non ti ricordi proprio?” Abbasso la torcia e lo guardo con un mare di incredulità negli occhi. Sono tornato lucido, la paura è svanita. “Circa 50 anni fa per un'avaria alla nostra astronave siamo precipitati su questo pianeta sconosciuto distante milioni di anni luce dalla nostra galassia. Per sopravvivere durante tutto questo tempo abbiamo assunto le sembianze degli organismi più evoluti che lo popolavano. Ci sono voluti tutti questi anni per riparare il guasto ma adesso finalmente tutto è a posto. Torniamo a casa, la nostra casa. Puoi abbandonare quel corpo” Avevo voglia di urlare, mi voltai e fu in quel momento che riflesso nello specchio dell'ascensore vidi per la prima volta il mio vero volto. Ne uscì un suono stridulo che fece scattare gli allarmi del centro commerciale.

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Prologo
Fabio è un trentasettenne laureato che però ancora non ha trovato un lavoro che lo soddisfi . Riesce comunque a tirare  avanti economicamente. La mancanza del lavoro lo deprime perchè non si sente realizzato e gli rende difficili gli altri rapporti relazionali ed  affettivi. Vive solo e soffre molto di solitudine. E’ un introverso.   Si avvicinano le vacanze estive che Fabio odia perchè non sopporta  andare in vacanza da solo, cosa che ha fatto negli ultimi sette anni (amici ed amiche hanno progetti che non prevedono il suo coinvolgimento e sono tutti accoppiati). Fabio soffre molto per la mancanza di una compagna. La cerca ma non la trova benchè sia un tipo che  agli occhi delle persone che lo conoscono sembrerebbe non avere problemi del genere :
 “ Sei un tipo interessante, colto, spiritoso” gli ripetono , lui sorride amaro.
Decide di rimanere a Roma durante l’estate che si preannuncia torrida perchè non vuole più andare in un villaggio vacanze o in montagna ( sua vera passione ) da solo.

La nostra storia comincia la sera di ferragosto.
Clima tropicale, 40°, la città è un forno. Fabio  gira in motorino come Nanni Moretti in “Caro diario “;  da appassionato cinefilo ripercorre lo stesso itinerario del regista: Viale Garibaldi, il Gianicolo, Monteverde, Via delle Fornaci, i sottopassaggi del Lungotevere, la Garbatella fino a Spinaceto.
Quella sera cerca distrazione presso una  manifestazione dell’Estate Romana: Villa Celimontana dove suonano musica Jazz. Fabio non ama particolarmente il Jazz.
E’ già stato ad altre manifestazioni  del genere  per non stare da solo anche se questo non ha fatto che aumentare il suo senso di solitudine.  Ha trovato coatti  al Testaccio Village  e gente chiassosa e volgare  a Capannelle dove imperano Salsa e Merengue . Si illude che nel parco di Villa Celimontana (ricorda  che quando ci andava da bambino gli pareva una foresta incantata) illuminato suggestivamente e frequentato da gente più vicina alla sua età, qualcosa di magico  possa accadere. Infatti incontra Lei.
All’ingresso della Villa  sulla destra, accanto alla casa del custode, c’è uno spiazzo recintato dove staziona una mamma gatta con i suoi piccoli che attirano la curiosità dei visitatori con le loro effusioni.
Fabio adora i gatti e proprio per questo non ne prende nessuno, teme che possano star male e, dal momento che vive da solo, soffrire di solitudine come lui; però ama parlarci, giocarci e si accovaccia per stare al loro livello.
Con loro sente un feeling, uno shining;  gli sguardi si incrociano, i gatti gli si avvicinano, gli si strusciano facendo le fusa, lo adottano, non lo temono. Forse  in un’altra vita è stato un gatto anche lui.
Le voci dei passanti che commentano divertiti la scenetta  Fabio non le sente, tant’è preso. Ma stavolta si accorge di essere osservato in quella posizione imbarazzante che ricorda una “turca “; alla sua sinistra intravede dei sandali in cuoio consunto, due agili  caviglie abbronzate e pantaloni simili a quelli di un pigiama a strisce verticali bianche e celesti, canottierina nera, zainetto, capello corto nero con ciuffo arruffato, orecchini zen, sorriso disarmante, occhi natalizi. Niente trucco.
Lei ha nel palmo della mano uno dei gattini e gli parla con la voce da topo dei cartoni animati.
Avrà circa 30 anni. Fabio non riesce a smettere di guardarla. Lei posa il micio sorride ancora senza pietà e con voce cordiale gli fa : “Una birra ?”.
In quell’attimo lungo una vita Fabio ha la sensazione che l’altra persona sia lì in quel luogo ed in quel momento perchè è destino. Due tessere di un puzzle che combaciano.  Per una notte ed un giorno la vita dei due cambia : si parlano, si amano, ridono e piangono insieme; come se si conoscessero e si cercassero da sempre. Ora si sono trovati. Le loro vite cambieranno. Non importa per quanto tempo.
Ora è domenica, 17 agosto : giorno del compleanno di Fabio. La città è ancora più calda, una cappa umida, insopportabile. Fabio, però, non lo sente perchè per la prima volta in vita sua è felice e lo sa.
Esce per comprare il giornale; verso le 10,30  la chiamerà. Dopo un giorno e mezzo passato assieme, incollati da passione e sudore,  hanno avuto necessità di separarsi entrambi, di riappropriarsi del loro spazio,  per poi desiderarsi più di prima.
Mentre acquista il quotidiano Fabio decide di festeggiare il suo compleanno facendo qualcosa di diverso: colazione al bar, un bel bar.  Si siede, ordina e sfoglia il giornale. Si ricorda che ha giocato prima di ferragosto al lotto per scaramanzia la sua data di nascita: 17-8-60 aggiungendoci in una botta di ispirazione 1 e 90 (l’inizio e la fine). Una cinquina secca sulla ruota di Roma per l’importo di 20 euro. “ Per il mio compleanno voglio buttare 20 euro.  “ diceva mentre la compilava. Va alla pagina dove sono indicati i numeri estratti.
La cinquina è uscita  sulla ruota di Roma.
Chiude il giornale, strizza gli occhi e lo riapre alla stessa pagina ma i numeri sono sempre lì. Paga ed esce senza consumare. Il cappuccino si fredda al tavolino, malinconico mentre  il bicchiere d’acqua che lo accompagna si scalda.
Con le mani che gli sudano  Fabio compra senza pensarci altri 5 quotidiani per essere sicuro: mentre ritira il resto rimprovera a se stesso che poteva correre a casa a consultare il Televideo. Quello che sembrava una inutile operazione fatta d’impulso  gli  rivela una sorpresa.
Tre dei cinque quotidiani non riportano l’uscita del 90 su Roma ma dell’80, gli altri numeri vanno bene. Però così la quaterna eventuale non servirebbe perchè Fabio ha giocato la cinquina secca. Gli altri due quotidiani invece rasserenano Fabio perchè confermano la cinquina del primo giornale. Esito : 3 a 3.
Fabio si innervosisce e torna verso casa pensando cosa fare. Il sudore ora gli scende copioso, le scarpe gli scivolano sotto la pianta  umida dei piedi, i giornali gli cadono. Decide di telefonare da una cabina ai giornali per controllare : forse si tratta di un errore di stampa,  non ce la fa a tornare a casa ; gli tremano le gambe.  Deve farlo adesso, deve saperlo ora !
Non bada  al caldo soffocante che trasforma la cabina telefonica in una sauna, cerca nervosamente la tessera telefonica, gli cade il portafoglio, lo raccoglie, la trova, la inserisce. E’ scaduta.  L’ apparecchio la sputa emettendo tre bip di disgusto.  Cerca allora una moneta che prega di trovare mentre inserisce il dito nella fessura di pelle del portamonete. Eccola !
Annota mentalmente il  numero telefonico del primo giornale da chiamare, inserisce la moneta e mentre una goccia di sudore gli cola nell’occhio procurando un senso di bruciore e  facendogli ritardare di una frazione di secondo  l’impatto tra il dito indice ed il bersaglio della tastiera numerica... squilla il telefono!
Fabio non capisce fino al quarto squillo. Poi automaticamente fa: “Pronto ?” Dall’altra parte una voce  concitata  maschile cerca,  evidentemente,  il padre.
 “ Papà, papà sei tu ?”  “ No, sono Fabio “ è l’imbarazzata  risposta. “Dov’è mio padre, che ci fai tu in casa nostra ?” , incalza lo sconosciuto,  “ Ma io sono in una cabina telefonica e stavo chiamando “ risponde Fabio con una voce da bambino sgridato senza riuscire a capacitarsi della situazione e del dialogo surreale.
“ Presto, dammi mio padre stronzo !” ribatte l’altro minaccioso. Ma mentre lo dice piange. “Chi sei ?” domanda ingoiando a secco Fabio.  “Sono il tenente  Giuseppe Moccia dell’Aeronautica  Militare Italiana, in servizio in una base  missilistica segreta sugli Appennini.  Hanno lanciato !”
“Chi ha lanciato, cosa ?”  domanda  Fabio che ha dimenticato la cinquina. L’altro piange, la comunicazione è disturbata. “ Oddio, tra un’ora ci arriveranno addosso da tutte le parti, dica a mio padre di scappare !”.
“ L’hanno fatto, mio Dio l’hanno fatto davvero. Non è uno scherzo, li ho sul radar, sono decine ; fra pochi minuti  la prima sarà Mosca,  fra mezz’ora l’Europa centrale e poi....per favore rintracci mio padre e gli dica che gli voglio bene”.
“ Ma insomma basta ! “ urla  Fabio  strozzando la cornetta , esasperato, grondante sudore, con le tempie che gli  pulsano  per la tensione delle ultime 48 ore.
 “ Sono in una cabina telefonica, come te lo devo dire che tuo padre non c’è qui, cazzo!” .
 “Ho chiamato mio padre a casa al 68755, perchè lui non è lì ? “ ripete come un disco incantato  il tenente Moccia tra le lacrime ignorando la rabbia di  Fabio.
 Fabio alza gli occhi che si accecano per il sole ma  dopo aver letto il numero di telefono della cabina, stampati in rosso sul vetro, ormai appannato : 68775.
“ Ha sbagliato numero, mi sente, ha sbagliato numero, questo è il 68775, non il 68755 “ . Dall’altra parte arriva un rumore di passi, voci concitate, urla, il tenente Moccia che grida :  “ No, no, vi prego... “, poi  una scarica di mitra.  Poi silenzio.
Per alcuni secondi  Fabio crede di avere immaginato tutto e si lascia cadere esausto seduto  sul pavimento della cabina. Una voce dalla cornetta  penzolante lo richiama alla realtà : “ Pronto, pronto, c’è qualcuno in ascolto ?” .
Rialzandosi  Fabio guarda il suo polso sinistro lucido di sudore. L’orologio si era girato, lo rimette  a posto con un gesto automatico : sono le 10,57. Doveva chiamare Lei, i giornali, la vincita al lotto.
“ Pronto, chi è ? Tenente Moccia, sei tu ?” .
“ Dimentichi quello che ha sentito, non è successo niente “  risponde una voce metallica, senza inflessioni e appende.
 Fabio rimane con la cornetta in mano mentre una signora con barboncino bussa alla porta della cabina. “ Giovanotto, ha finito ? Devo chiamare mia nuora...”
Fabio esce stordito dalla cabina, corre verso casa. Gli sembra che sta per perdere tutto in una volta.
Cancello principale,  portone della scala,  ascensore al settimo piano come al solito, scale a tre a tre, chiave , due  mandate, entra  appena in tempo per sentire  la voce di Lei incisa sulla segreteria che chiede perchè non l’ha chiamata.
Alza la cornetta ma è troppo tardi. Lei ha appeso. Sono le 11, 13. La richiama. Niente. E’ già andata via.
Riavvolge il nastro e lo ascolta. Lei gli dice che è la cosa più bella che le sia successa negli ultimi mesi e che le manca. Ma ha già preso troppe fregature con persone che si sono dimostrate splendide ma sono svanite nel nulla subito dopo.  Lo aspetterà fino alle 12 all’Eur, sotto l’obelisco. Se non verrà andrà al mare da sola. E lo dimenticherà.
Fabio ride e piange. Non sa se telefonare  ai giornali per la questione del lotto, se chiamare l’Aeronautica per sapere se esiste un Tenente Giuseppe Moccia ; ma tanto sa che sarebbe inutile e perderebbe tempo. Tempo che forse non ha.
Sono le 11,22  quando da via dei Prati Fiscali  si immette nella Tangenziale Est a 120 orari, direzione Eur.  Alle 11,54  intravede l’obelisco, non sa bene come è arrivato lì  vivo.
Gira due volte intorno con stridere di gomme rischiando l’incidente. Poi  La vede sulla vespa blu.  Inchioda in mezzo alla strada, scende, corre. Un’auto lo tampona sfondando il bagagliaio ma Fabio nemmeno si gira.
Vede solo Lei che lo ricambia con uno sguardo preoccupato.
L’abbraccia mentre si avvicina un capannello di gente alle auto tamponate di cui una , l’utilitaria rossa , è senza conducente, motore acceso,  con la portiera sinistra spalancata, il lunotto infranto, mentre l’altro conducente è sceso e bestemmia.
Lei fa mille domande con gli occhi. Fabio aspetta a rispondere a tutte.
Aspetta un segnale.
Il capannello di persone guidate dal conducente e un vigile dirigono verso i due.
Sono le 11,59.
Il sole si eclissa come se una nuvola nera fosse comparsa d’incanto, l’ombra dell’obelisco per un istante  sembra che indichi  in modo surreale le due auto incidentate,  si alza il vento e si ode  un diffuso  miagolio di gatti.
Fabio e Lei si ritrovano a sorridere per qualcosa che li aveva fatti incontrare.
In quel momento Fabio ha la consapevolezza che il  90 è davvero uscito sulla sua ruota.
Perchè è davvero l’inizio della fine.

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Altro / L'ultimo Giubileo
« il: Novembre 25, 2011, 12:21:16 »

Qualcuno in sala regia si ricordava le sgranate immagini di repertorio del giubileo del 2000, ma questo evento li batteva tutti.
Collegamenti in mondovisione con tutti, urbi et orbi, ma anche con le colonie stellari che da decenni vivevano su pianeti perduti e lontani dalla terra parecchi anni luce.
Un evento che avrebbe cambiato le sorti del mondo. Cento miliardi di persone attendevano la risposta. Io avevo il privilegio di viverla in diretta per raccontarla.
Il Sommo Pontefice, il primo di colore, entrò nella sala santa dove la macchina lo aspettava.
Era il computer più potente mai costruito al mondo; tutte le nazioni avevano dato il loro contributo, ci avevano lavorato migliaia di scienziati dopo decenni di esperimenti.
Aveva richiesto oltre venti anni per la costruzione ed un budget con cui si sarebbe sfamato il 75% della popolazione del pianeta per circa 99 anni.
Tutto lo scibile umano era stato pazientemente immagazzinato nella memoria del computer maximo che con i suoi circuiti occupava un’area che avrebbe contenuto un intero stadio, tribune e curve comprese.
L’anziano Pontefice, con passo incerto entrò nella sala bianca asettica.
Cento miliardi di respiri, compreso il mio, furono trattenuti. Il Papa stava per porre la domanda delle domande che da millenni tormenta l’uomo.
La voce gli tremava, nonostante la fede.
“Esiste Dio ?”
I detrattori del progetto che paventavano un black out del computer alla domanda con annessa esplosione nucleare caddero in ginocchio folgorati dal ronzio con fiaccolata di luci e suoni che seguì ; prova che il cervellone aveva recepito il quesito, non lo aveva ignorato e stava elaborando una risposta.
Simultaneamente partirono tutte le agenzie stampa, pc, e-mail, telefoni, radio, collegamenti via satellite in ogni parte del mondo per annunciare che fra poco sarebbe andata in onda la nuova versione del verbo.
In meno di 5 minuti in cervellone partorì. Sputò un foglietto.
Il papa nero, sorpreso da tanta celerità, lo prese tra le mani sudate. Lo aprì. Tutti i monitor del mondo zoomarono sulla sua espressione.
Spalancò gli occhi, il viso gli si contrasse in una smorfia, si portò una mano al petto e si accasciò al suolo come un povero mortale.
Immediatamente la gigantesca sala santa si riempì di persone. Nella confusione generale ebbi la fortuna di pestare il foglio. Lo raccolsi e letta la breve risposta del computer scoppiai in una fragorosa risata.
Sul foglietto con una calligrafia infantile c’era scritto: “Adesso si.”

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Altro / La Morte bussa
« il: Novembre 25, 2011, 12:20:14 »





Bevvi il caffè ancora fumante in tazza ustionandomi la gola perchè l'idea di scrivere un racconto devi coglierla al volo. Poi passa e non ti ricordi più nulla. Accesi il pc, mi infilai un mezzo toscano in bocca (qualcuno dice che appaga la mia fase orale), scivolai nelle pantofole e affrontai lo schermo bianco. “A noi due”, pensai, come in una sfida all'OK Corral, con le dita da pianista che sfiorano il calcio delle Colt mentre note da carillon alla Sergio Leone conferiscono pathos alla scena. Sullo sfondo c'era lui, il villain, il cattivo di 1.000 film da sconfiggere con un racconto dritto al cuore.
Il blocco dello scrittore.
Ero caldo e concentrato, come un bounty killer o, se preferite, lo straniero senza nome che sconfigge i cattivi che vessano i contadini e poi sparisce all'orizzonte o lo sceriffo che dopo aver cercato invano aiuto in città senza trovarlo deve dimostrare da solo il suo valore (anche se Gary Cooper era più alto e bello di me).
Mentre il l'indice stava per pestare la prima lettera della tastiera suonarono alla porta.
“Chi può essere a quest'ora?” Era il primissimo pomeriggio, l'ora della siesta, della lettura dei giornali, della telefonata al parente che non senti da un vita. Andai ad aprire spazientito: rompeva l'atmosfera. Dallo spioncino non si vedeva molto. Una figura scura, forse il portiere con una raccomandata? Vista l'ora, senza pensarci, aprii.
“Siiii?”feci mentre il mio sguardo con una parabola dal basso andò in alto. La figura, alta circa due metri, intabarrata in un mantello nero, entrò senza far rumore, scivolando come la governante di “Rebecca la prima moglie” di Hitchcock. Non aveva la falce come spesso la raffigurano nell'iconografia popolare. Avrei sentito il rumore metallico. Si sedette sulla poltrona davanti alla mia scrivania. Chiusi la porta e mi risedetti anche io. La guardavo da sopra il pc. “Dobbiamo andare, è ora.” disse senza presentarsi. Tanto sapeva che sapevo chi fosse. Mi vennero in mente in sequenza: “Il settimo sigillo” ma non avevo una scacchiera sotto mano, “Vi presento Joe Black” ma evitai battute su Angelina Jolie e “Amore e guerra” di Woody Allen ma quanto a letteratura russa e a battute ero a zero.
“Un biscotto alla cannella?” proposi “Sono gustosi.” Fece cenno di si con la testa anche se vedevo muoversi solo il cappuccio nero. Tornai dalla cucina con un piatto di biscotti svedesi e un bicchiere di latte. Cominciò a sgranocchiarli in silenzio. “Le briciole nel piatto per favore, la donna delle pulizie è venuta stamattina.” azzardai. “Cosa stai scrivendo?” domandò con voce lugubre.”Un racconto. Avevo appena cominciato quando sei arrivata.””Di che parla?”incalzò. “Veramente avevo le idee ancora confuse e speravo....” “Guarda che non hai più tempo.” “Ma dai, così non si fa. Senza avvisare. Arrivi così, inaspettata, mettiti nei miei panni”, abbozzai “Che dovrei fare?” “Raccontami per sommi capi la trama” fece lei sorseggiando il latte.”E' la storia di uno che ha il blocco dello scrittore, poi gli viene un'ispirazione, si mette a scrivere e viene interrotto”. “La nostra storia, insomma.””Se vuoi metterla così, si.” “Guarda che la mia visita è un bene per te.” “Ah gia? E perchè?”
“Rappresento un espediente narrativo ultraterreno, un deus ex machina, un colpo di scena che il lettore non si aspetta. Usami. Però poi voglio i diritti d'autore se ci faranno un film.”
“Va bene.””Dobbiamo andare adesso.” “Fa freddo fuori? Prendo la giacca.”
“Non ti servirà. Dove andiamo fa caldo.” Mi diressi sereno verso la porta d'ingresso, l'aprii e mentre stavo per varcare la soglia vidi le sue dita ossute pigiare lentamente sulla tastiera la parola F I N E.

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