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Post - Steven Joseph

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Fantastico / Il buio non tornerà
« il: Aprile 06, 2013, 22:15:55 »
Ryan è cieco dalla nascita, quando, all’età di diciassette anni, il suo amico Raph gli consiglia di sottoporsi ad un intervento che, se fosse riuscito gli avrebbe permesso di vedere il mondo, cosa che prima non aveva mai avuto possibilità di fare. Dopo l’intervento Ryan si sveglia e…

D’un tratto mi ripresi e cominciai a sentire dei suoni confusi. Questi presero consistenza e si trasformarono prima in voci distinte e poi in parole. Una felicità immane prese a percuotermi dall’interno. Era iniziata una nuova era per me. I dottori mi avevano detto che c’erano due possibili esiti dell’intervento. Se tutto fosse andato bene i miei occhi avrebbero cominciato a funzionare come quelli di chiunque altro e tutto il mio oscuro passato sarebbe finito nel cassonetto dei brutti ricordi, se invece il destino mi avesse voluto male non avrei superato l’intervento e mi sarei ritrovato dalla parte dei più. Il fatto che stessi cominciando a sentire qualcosa mi fece capire che ero ancora in vita. L’intervento era riuscito. A stento riuscivo a contenere la mia gioia. Avrei finalmente potuto attribuire una forma ed un colore a ciò che mi circondava. Che emozione. In preda alla più incontrollabile e frenetica contentezza, mi accinsi ad aprire gli occhi. Ma la mia delusione fu assoluta. Il buio. Ancora una volta il perfido amico che per diciassette lunghi anni mi aveva tenuto compagnia ventiquattro ore su ventiquattro non si decideva a lasciarmi. In quel buio, però, c’era qualcosa di strano, che mai avevo visto prima.
Riuscivo ad intravedere dei contorni. Nell’oscurità più completa iniziai a distinguere delle figure che si differenziavano dal buio e acquistavano una consistenza propria.
Non capivo che cosa fossero. Appurai che una di queste oscure figure si avvicinava e diventava sempre più grande.
- Bene, professore, può cominciare.- Disse una di loro, che riconobbi essere il mio amico.
- Che…Che succede Raph?- feci frastornato.
- Ryan, tra qualche secondo l’infermiere attiverà l’interruttore della luce che, gradualmente si accenderà. Tu devi abituarti alla luce per gradi, quindi questa si accenderà lentamente, così che tu possa visualizzare ciò che hai intorno a te senza essere accecato.-
- Vuoi…Vuoi dire che l’intervento è riuscito? Potrò cominciare a vedere?-
-Certo, hai così tante cose da conoscere: Sei pronto?-
- Andiamo!- feci determinato.
Quelli erano gli ultimi istanti della mia vita da emarginato abitatore dell’ombra. Da quel momento avrei potuto vedere (e sottolineo vedere) tutto ciò che fino ad allora avevo solo sentito, toccato, annusato o gustato. Tutto ciò che prima avevo conosciuto solo e soltanto attraverso l’utilizzo dei miei quattro sensi, ora avrebbero acquisito una connotazione ben diversa. Avrebbero acquisito una forma, un contorno e un colore. Cavolo, non ho mai capito che cosa fossero i colori. Non li ho mai percepiti in alcun modo e, da quello che dicono gli altri devono essere favolosi, straordinari.
Finalmente qualcosa iniziò ad azionarsi. La luce fu la prima sensazione visiva che fece il suo ingresso nella mia nuova vita. Questo inestimabile e incredibile frutto dell’ingegno e del progresso umano era indispensabile per il mondo. Illuminava gli ambienti, permetteva una visione perfetta e dettagliata anche in orario notturno, dava vita alle apparecchiature elettroniche e agevolava la vita di tutti. Per me, però, essa poteva esserci come non esserci. Non ho mai sentito il suo influsso benefico modificare la mia vita. Non ho mai avuto bisogno di accendere la luce e illuminare la stanza. Ricordo che da piccolo, invaso dalla rabbia per non poter vivere nel mondo che gli altri bambini descrivevano con tanta facilità e che io non avevo mai potuto osservare, mi posizionavo con gli occhi aperti di fronte alla lampada del soggiorno accesa. Ero convinto che, se io fossi rimasto lì davanti per molto tempo, il buio che continuavo a vedere sarebbe sparito. Il risultato era che io sentivo solo e soltanto il calore della lampadina e mi convincevo sempre di più che nessuna luce mai avrebbe potuto togliere quel velo nero che avevo davanti agli occhi. Sapevo che era inutile e con gli anni lo capii da solo. Ogni volta che mi sedevo davanti a quella lampada nella speranza di diventare come tutti gli altri bambini, mia madre arrivava sempre in lacrime e mi stringeva forte al petto, in collera con se stessa, che riteneva l’unica responsabile di quella che non aveva mai esitato a chiamare disgrazia.
Improvvisamente un chiarore mi invase. Mi accorsi che proveniva da una specie di bolla posta sul soffitto. Era trasparente e all’interno c’era qualcosa che non potei osservare. Mi dava molto fastidio tenere gli occhi puntati su quel coso e distolsi subito lo sguardo. Quel qualcosa che mi impediva di guardare fisso su quella bolla era, molto probabilmente, la luce. Che emozione. Non avrei mai immaginato che fosse così fastidiosa e allo stesso tempo così affascinante.
- Non tenere gli occhi puntati sulla lampadina per tanto tempo. Potresti accecarti di nuovo.- fece Raph. Sorrisi alla battuta del mio amico e presi a fissarlo. Finalmente riuscivo a vederlo, oltre che sentire solo la sua voce. Stava acquistando una fisionomia che, però,  non riuscii a cogliere subito, data la scarsa luce del momento. La luce aumentò di intensità, quasi avesse esaudito il mio desiderio di vedere meglio la figura del mio amico. Quel meccanismo della luce che dopo pochi secondi aumentava leggermente di intensità era un’invenzione del mio amico. Non ho mai capito come riuscisse a fare certe cose, fatto sta che, nonostante sia un completo idiota, la sua genialità non si può mettere in discussione.
Finalmente potei osservare il mio amico in tutta la sua completezza. Sebbene ci fosse ancora una buona parte di oscurità, riuscii a distinguere molti tratti salienti. Era molto in carne, ma questo lo sapevo. Aveva la faccia rotonda e lentigginosa, con due occhiali che sembravano troppo sottili per il suo viso. I capelli erano arruffati e questi, insieme alle lentiggini avevano una colorazione differente rispetto a quella che poco prima aveva osservato all’interno della lampadina. Probabilmente era di un colore diverso. Quello che più mi spaventò, però, fu il ritorno di quel maledetto compagno di vita, quell’unico colore che mi aveva tenuto compagnia durante tutta la mia esistenza. Credevo di averlo eliminato per sempre, invece quel colore che mia madre mi insegnò essere quello del nostro gatto, del carbone e delle mosche, tornò a farsi vivo sulla maglietta del mio amico. Ne fui spaventato e indietreggiai, rischiando quasi di cadere dal lettino su cui soltanto allora mi resi conto di trovarmi.
Ero convinto che la magia del momento stesse svanendo. Ero convinto che la mia cecità stesse tornando. Non vedevo quel colore, probabilmente tra poco non avrei visto neanche più il viso di Raph e poi nemmeno la luce. Tutto sarebbe ricominciato. Tutto sarebbe ritornato uguale a come lo avevo vissuto per diciassette anni. La maglietta extra-large del mio amico era completamente oscurata. Era nera.
- Cosa c’è? Non ti piace la mia maglietta? L’ho presa al negozio qui a fianco. Vendono roba spettacolare!-  disse, come se in un momento simile mi potesse importare qualcosa dei suoi acquisti fatti al discount.
- Non riesco a distinguerne il colore. Lo vedo nero.- feci preoccupato.
- Oh, ho capito.- disse Raph annuendo. – Ascolta, tu ci vedi benissimo. Il nero è una tonalità di colore che percepiamo anche noi. I raggi luminosi sono catturati dall’occhio e…-
- Oh, Raph, smettila di fare il secchione. Come può interessarmi sapere il modo in cui l’occhio percepisce la luce se so a mala pena come è fatta!-
Raph si zittì e la luce prese ad incrementare la sua potenza. Solo allora potei distinguere il colore dei muri. Erano pallidissimi. Molto più pallidi rispetto alla tonalità della luce nella lampadina.
In quel momento riuscii a creare una scala dei colori che avevo osservato fino ad allora, disponendoli dal più chiaro al più scuro. Per primo posi il colore dei muri, poi il colore della luce, seguiva il colore dei capelli e delle lentiggini di Raph e poi la tonalità del mio conoscente più vecchio, il nero.
Era strano come fossi allo stesso tempo riluttante e affezionato al colore nero. Ora che lo rivedevo dopo questa mia grande rivoluzione ne ero terrorizzato e volevo allontanarlo da me. Nello stesso tempo, però, mi sentivo legato a lui. Per anni aveva colorato il mio mondo e aveva rappresentato esso stesso ciò che mi circondava. Sembrava quasi che nella solitudine e nell’isolamento della cecità, lui non mi volesse mai abbandonare e mi tenesse compagnia sempre e comunque.
Presi ad osservare l’ambiente circostante e notai di trovarmi su un lettino, appunto, in una stanza molto piccola. C’erano molti macchinari sopra la mia testa e tutto attorno a me. Mi avevano operato ed era come se mi trovassi in una specie di sala di ospedale in miniatura. C’era di tutto: attrezzi di ogni genere, guanti in lattice e boccette trasparenti. Mi sembrava tutto così nuovo, così confuso. Era come se i miei occhi mi stessero bisbigliando qualcosa di confuso in una lingua sconosciuta. Sopra una scrivania alle spalle di Raph c’erano tre dottori con un camice dello stesso colore delle pareti.
Erano intenti ad esaminare dei riquadri di quel colore chiarissimo che ormai avevo bene riconosciuto nei camici e nei muri di quel primo ambiente che entrò nella mia nuova vita. Erano delle circoscritte zone della scrivania che presentavano dei segni di colore nero. Non capii immediatamente ma, quando chiesi, Raph mi disse che erano fogli di carta. Cavolo! Che emozione.
Osservai attentamente quei tre uomini. Uno era molto smilzo con il volto scavato e due occhiali simili a quelli di Raph. Gli altri due erano di spalle e non riuscì che a scorgere il loro lato B, quindi decisi di passare oltre. Mi resi conto di non aver ancora osservato la mia fisionomia. Mi guardai le mani e le vidi per come erano realmente. Per la prima volta riuscii a capire come erano fatte. Le vidi e ne gioii. Guardai la mia maglietta e i miei jeans. Mi piacque molto il colore intenso della prima, che sembrava infondermi buon umore ed energia.
- Quel colore si chiama rosso – fece il mio amico con il suo solito fare da insopportabile so tutto io. Devo ammettere, però, che in particolare momento mi piacque molto il fatto che qualcuno potesse insegnarmi a conoscere la realtà delle forme e dei colori. Realtà in cui fino ad ora non avevo mai creduto di poter entrare.
La luce incrementò ulteriormente e per l’ultima volta la sua potenza.  Il livello raggiunto era massimo e la luminosità divenne rassicurante. Era come se la lampadina (di cui finalmente avevo conosciuto la forma a bolla) avesse vissuto come me quel distacco graduale dalle tenebre e fosse arrivata a vedere tutto, proprio come me. A differenza della lampadina, però, io non sarei più ritornato nel buio.

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Fantastico / Re:Avventura verso l'ignoto
« il: Marzo 29, 2013, 15:12:34 »
Non credo. Era una storia fatta così, tanto per esercitarmi.

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Fantastico / Avventura verso l'ignoto
« il: Marzo 28, 2013, 11:48:42 »
Il sole era alto nel cielo e la sua presenza si avvertiva in ogni angolo del deserto. Il caldo era insopportabile anche ai piedi delle grandi alture dove i quattro cercavano refrigerio, avvolti dall’ombra che le montagne proiettavano sulla sabbia e che, nonostante la loro imponenza, servivano a poco contro quel calore così soffocante. Davanti a loro nient’altro che il nulla. Il cielo e la sabbia sembravano unirsi in uno sbiadito orizzonte di cui a stento si riuscivano a distinguere i contorni.
Nessuno aveva mai osato tanto. Non un solo uomo aveva tentato l’attraversata di quel deserto. La paura era troppa, così come erano troppe le leggende che circondavano quel luogo morto. Si vociferava che fosse la dimora di un mostro dalle mille teste o che al di là del deserto vi fosse il nulla, i limiti della Terra oltre i quali l’uomo non poteva avventurarsi.
Forse era così, ma i quattro avventurieri, armati di curiosità e di coraggio, dovevano sopravvivere per poter confermare queste ipotesi o smentirle completamente.
Restava però un interrogativo: ce l’avrebbero fatta o avrebbero perito, ricordati per sempre come avventurieri morti alla ricerca della conoscenza?
Breeve, l’intrepido e solitario cavaliere, lanciò uno sguardo davanti a sé. Non vide che sabbia, ovunque voltasse lo sguardo. Ovunque. Aveva le spalle appoggiate alla lastra pietrosa sotto alla quale stavano sostando e le gambe ben distese. Era stanco, come tutti ma non lo dava a vedere. Non poteva mostrarsi debole di fronte a loro. Era stato assoldato perché i due studiosi non sapevano badare a loro stessi e poi, quella donna. Non poteva di certo mostrarsi inferiore a lei. Questo avrebbe significato un disonore per lui e un guerriero audace e spavaldo come lui non se lo sarebbe mai perdonato.
Titira prese tra le mani un mucchio di sabbia. Osservò mentre le scivolava dalle dita e mentre lentamente il suo palmo si svuotava.
“Manca molto, secondo voi?” chiese poi interrompendo quel momento di pausa e di riflessione che i quattro stavano assaporando.
“E’ un deserto! E’ già tanto se possiamo considerarci ad un quarto del nostro viaggio.” Rispose Simon scuotendo la testa.
Titira abbassò lo sguardo e pensò. Cosa sarebbe successo se fosse rimasta a Brecknor, se non avesse seguito questi due studiosi nella loro spedizione verso l’ignoto. Forse, avrebbe incontrato l’amore, forse si sarebbe sposata e avrebbe ritrovato la felicità perduta di un tempo. Forse. Oppure avrebbe continuato a vivere nella tristezza e nella povertà, senza famiglia e senza identità, come un’armatura vuota, senza nome. 
I quattro si alzarono quasi all’unisono e ripresero il viaggio.
Passarono le ore e i quattro avanzavano sfiniti, privi di energie ma con un’ unica forza motrice, la volontà. Julia aveva la tentazione sempre maggiore di abbeverarsi da una delle moltissime borracce nel suo zaino, ma cercò di resistere. Non poteva arrendersi adesso, nessuno di loro poteva.
La fatica, si sa, porta sempre a dei risultati coloro che sanno resisterle. La ragazza se lo ripeteva ogni minuto e questo le giovò molto.
 In preda alla disperazione e con pochissime risorse nutritive i nostri poveri avventurieri erano con il cuore infranto. Avevano percorso quel deserto, avevano patito le pene dell’inferno e sopportato di tutto pur di arrivare in fondo, ma, invece, erano destinati a perire. La loro avventura era agli sgoccioli, così come le loro vite.
D’un tratto Simon si chinò ed analizzò il terreno. Aveva notato nella sabbia una macchiolina di colore verde. Si avvicinò e appurò che era erba. Sottilissimi fili d’erba sbucavano in quella circoscritta zolla di terra. Era una macchia piccola e uniforme ma era un segno visibile di vita in quel deserto. Un barlume fioco si aprì sul loro futuro, una via d’uscita per scampare a quell’inferno.
Gli altri tre lo accerchiarono e Julia si lasciò scappare una lacrima.
Il gruppetto avanzò e scoprì che, procedendo, le macchioline crescevano sempre di più, fino a diventare chiazze di un verde acceso e naturale.
Man mano che avanzavano, la sabbia tendeva a diventare sempre meno e a lasciare il posto ad un verdissimo prato, nel quale si intravidero anche delle margherite. I quattro si misero a correre fuori di sé dalla gioia e videro davanti a loro un lussureggiante bosco. L’incubo era finito. Quella strana natura in cui si erano imbattuti li aveva salvati.
Entrarono nel bosco e si guardarono attorno estasiati. Nessun bosco avrebbe mai potuto eguagliarlo in ricchezza e varietà di piante, in armonia e profumi. La pace che quel bosco infondeva era difficile a trovarsi. Un tripudio di bellezza e cromatismo si presentava di fronte ai loro occhi e una divina purezza era ovunque nell’aria.
Da dietro un arbusto sbucò un imponente cervo che stava brucando nell’erba. Aveva un manto che gli avrebbe permesso di mimetizzarsi perfettamente tra la corteccia degli alberi. Non fosse stato per le imponenti corna, simili a tronchi di betulla che si innalzavano fiere sul suo capo.
Julia lo fissò attraverso le lenti dei suoi occhiali e cercò di infondergli fiducia. Era una ragazza che ne aveva la capacità. Ognuno si fidava di lei e, a vederla, chiunque avrebbe trovato in lei una persona buona e sensibile.
Il cervo la scrutò dalla testa ai piedi, studiandone ogni particolare. Julia gli si avvicinò e il cervo si protrasse verso di lei con curiosità. Sembrava che non avesse mai avuto contatti con l’uomo. Il cervo portò indietro la testa. La ragazza gli si stava avvicinando e l’animale ne sembrava impaurito. Ad ogni passo in avanti di lei, una sua zampa si portava indietro. La donna si bloccò, capendo che l’animale la temeva. Non aveva mai visto una reazione simile in un animale. In molti avevano paura dell’uomo ma questo era diverso. Era intimorito, come se avesse davanti qualcosa che non aveva mai avuto occasione di vedere prima, qualcosa di nuovo e, perciò, fonte di paura.
L’animale si armò di coraggio e avanzò verso Julia, la quale ne fu contenta. Sorrise e avanzò anch’essa allungando la mano verso di lui.
Il cervo abbassò il capo e indirizzò le corna verso la giovane studiosa. Iniziò poi a caricare verso di lei con una ferocia dettata molto probabilmente dalla paura.
Il terrore invase la ragazza e la paralizzò al punto da non sentire le voci dei suoi amici. I tre la chiamarono più volte e le urlarono di scansarsi. Era immobile. Senza energie in corpo e senza cognizione di quello che stava accadendo. Solo paura. D’un tratto Breeve estrasse la spada e fissò il cervo dritto negli occhi. Questo si arrestò e sostenne il suo sguardo per pochi secondi. Chinò nuovamente il capo e si lanciò come un fulmine verso il guerriero, il quale agitò l’arma per spaventarlo. L’animale continuò imperterrito la sua corsa e, una volta arrivato al cospetto di Breeve, accelerò. Il guerriero impose la spada per attutire il colpo che l’animale gli avrebbero inferto. Le corna e la spada vennero a contatto ed entrambi i contendenti si impegnarono per prevalere sull’ altro. Entrambi spingevano in direzione dell’avversario con forze di diversa intensità e l’animale sembrava sovrastasse di molto il suo avversario. Breeve cacciò un urlo e spinse l’animale in un impeto di violenza. Questo venne scaraventato oltre quel cespuglio da cui aveva iniziato ad osservarli. L’animale, impaurito, scappò a gambe levate.

Dopo quell’ episodio i quattro ripresero il viaggio con un senso di inquietudine che continuava a crescere e che non li avrebbe abbandonati.   

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Giochi letterari / Re:La persona dopo di me
« il: Maggio 05, 2012, 19:50:29 »
E' vero.
La persona dopo di me sa volare. Beato lui!!!!

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Anch'io Scrivo poesia! / Pianse per noi il cielo.
« il: Maggio 05, 2012, 19:45:19 »
Mi lasciasti quasi senza vita,
in balia di vento e gelo,
sotto una pioggia infinita,
come piangesse per noi il cielo.

Oggi piove ancora
e mi torna in mente il tuo sorriso,
che, dolce e candido come l’aurora,
mi apriva le porte del paradiso.

Ma or che questo dolore
s’è risvegliato,
difficilmente sarà quietato.

La pioggia ha smesso ed ora tace,
anche se questo in me non porta pace,
perché niente mi ridarà il tuo amore.

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Fantastico / Dal mio romanzo "La rosa nera" (seconda parte)
« il: Marzo 11, 2012, 14:42:09 »
Prima di farvi leggere la seconda parte, premetto che questo è un romanzo e che i topic che pubblico non sono altro che capitoli, o parti di essi. La storia è lasciata in sospeso, in quanto la vicenda si sviluppa in tutto il romanzo.
Ancora una cosa: per evitare che non capiate alcune parole, vi illustro alcuni punti.
Coravia è il nome del regno governato dal re Arthur e suo figlio Steven Zodishing. Gardenia è la capitale del regno, dove si svolge la vicenda. Unione è l'unione di stati di cui fa parte Coravia e che può essere paragonata ad un continente. Seraphine è la principessa, figlia di Arthur e Robert è il suo fidanzato, i due sono prossimi al matrimonio. Penso di avervi detto tutto. Buonma lettura :)


Il giorno seguente, il principe Steven si recò alla Grande Biblioteca del Sapere di Gardenia. La Biblioteca era la più ricca di tutta Coravia ed era meta di visitatori e studiosi da ogni parte dell’Unione. Una leggenda narra che la Biblioteca sia stata costruita ancora prima di Gardenia e che attorno ad essa sia stata edificata la città, infatti la “Fonte del Sapere”, come viene chiamata, si trova proprio nel centro di Gardenia.
La biblioteca ospita oltre novantamila volumi che andavano dagli argomenti più vari. Dai libri di cucina, a quelli di storia, da quelli sulle creature magiche a quelli sugli spiriti dell’oltretomba. Ogni libro racchiudeva in sé informazioni dettagliate sull’argomento e molte illustrazioni. Steven era nella sezione degli archivi del regno e stava cercando gli annali, dove venivano annottati i fatti più significativi accaduti a Gardenia e che erano aggiornati ogni anno. Era avvolto nel suo immenso mantello rosso e portava la corona degli Zodishing, la stessa che suo padre aveva al ballo del fidanzamento di Seraphine, solo meno appariscente di quella del re.
Steven era intento a cercare l’annale che risaliva a trent’anni prima. Finalmente lo trovò. Era molto leggero in confronto agli altri annali ed era molto impolverato. Il principe lo pulì passandogli sopra la mano. Sulla copertina verdognola era scritto “Annale dell’anno 1636”.
“E’ lui!” disse fra sé.
Lo aprì con delicatezza, sfogliò le pagine consumate dal tempo e si fermò sulla pagina del sedicesimo giorno del Mese della Luna. Il principe passò l’indice sopra alle parole, scorrendole, una ad una, in cerca di ciò che lui sperava fosse stato annotato nel Mese della Luna di trent’anni prima. Con l’altro dito accarezzava i bordi del libro rivestiti in oro. Lo faceva spesso, mentre leggeva; era, un qualcosa che faceva senza accorgersene. Il principe aggrottò la fronte. Qualcosa non quadrava.
“Non può essere!”
Steven, allora, sfogliò le pagine, andando avanti nei giorni, senza risultati. Tornò quindi al sedicesimo giorno. Lo ricontrollò velocemente in caso si fosse sbagliato. Niente. Tornò quindi nelle pagine precedenti e neanche lì trovò ciò che cercava.
“Non troverai ciò che cerchi tra quelle pagine consunte.” Disse una voce familiare e severa.
Era il re. Steven si chinò leggermente abbassando la testa, in segno di rispetto.
“E’ stato mio padre a ordinare che non venisse scritto niente sugli annali riguardo a questo!” la sua voce era rigida, abbattuta. Si vedeva che il re stava soffrendo, ma per cosa?
“Usciamo di qui, figlio mio, devo dirti una cosa che non ti farà piacere.”
Steven era troppo curioso e avrebbe preferito che il padre parlasse all’istante, ma preferì esaudire il suo desiderio e i due si diressero verso l’uscita. 
Una volta fuori dall’edificio, Steven si rivolse al re con innata curiosità.
“Che cosa è accaduto, padre?”
Il re lo guardò impassibile e Steven si fece serio.
“La rosa. E’ apparsa nuovamente.” Disse improvvisamente il re.
Bastarono queste parole a far sobbalzare il principe, che , nell’udirle, spalancò gli occhi fissando il padre.
 “D...Dove si trova?” chiese infine.
“Vieni, te la mostro.”
I due arrivarono in un campo all’immediata periferia di Gardenia.
“Eccola! E’ lì!” disse il re indicando una rosa. La stranezza di questa non stava tanto nella forma, quanto nel colore. Era nera. Di un nero intenso, quasi irreale; un nero che risaltava ancora di più l’assenza del colore e che rappresenta il vuoto e l’infinito, ma anche l’angoscia e la sofferenza.
Steven la fissò. In quella rosa vedeva un mistero, un enigma, poiché non era preoccupato per la rosa in sé, quanto per ciò che essa significava.
Il principe alzò lo sguardo e fissò il padre.
“Quindi...la Selva è tornata!” disse infine.
Il padre annuì. In quel brusco movimento del capo, il re aveva esternato i suoi più profondi rancori e le sue paure che credeva ormai sepolte per sempre nelle remote profondità del suo cuore.
“Cosa avete intenzione di fare?” esordì Steven interrompendo i suoi pensieri e riportandolo alla realtà.
“Non lo so.” Dichiarò il re con un tono di voce molto basso, sintomo, forse, di un profondo dolore che stava riemergendo, di un’antica paura che stava bussando alle porte della realtà, di un qualche terrore arcano che giaceva nel cuore del re, tormentandolo e rendendolo fragile.

Verso sera i due si ritrovarono alla Vecchia Taverna, dove , con indosso un cappuccio per non farsi riconoscere, si sedettero ad un tavolo ordinando da bere.
I due stavano parlando della rosa nera trovata quel giorno.
“Proporrei, padre, di schierare delle truppe a nord e ad est, lasciando la parte a sud alle... Padre! Mi ascoltate?” si interruppe Steven.
“Sì...Sì continua pure. Ti.. Ti ascolto.” Balbettò il padre distratto, o, forse, spaventato da ciò che sarebbe potuto accaduto da lì a qualche giorno.
Sul viso del re si potevano notare i segni indissolubili della paura, della sofferenza e del dolore che stava provando. Era spaventato, quella situazione stava diventando troppo pesante per lui e non sapeva se sarebbe riuscito a superarla.
Si rigirava tra le mani il boccale di birra mezzo vuoto, tormentato e agitato da quel senso di impotenza che lo stava imprigionando in una gabbia invisibile e impenetrabile, formata da paura e disperazione.
Steven percepiva il dolore del padre nel rievocare quel triste e macabro ricordo che era stato impresso nella sua mente allora fanciulla.
In quel momento entrarono nella taverna due volti noti: Seraphine e il suo promesso, Robert.
 Al loro ingresso tutti i presenti si inchinarono e Seraphine ricambiò a sua volta chinandosi leggermente e sorridendo.
Robert rimase impassibile e si limitò a sorridere.
Il taverniere prese un sacchetto contenente, probabilmente dei soldi e li porse alla principessa chinando il capo.
La reale lo prese e sorrise nuovamente al taverniere.
“Seraphine!” bisbigliò Steven facendole segno con la mano di avvicinarsi. Lei si diresse al tavolo del fratello seguita da Robert.
“Sono Steven!” disse abbassandosi il cappuccio.
 Seraphine si stupì ma non lo mostrò, perchè sapeva che Steven odiava essere riconosciuto quando era in un luogo pubblico per affari privati, come, ad esempio, quando era alla taverna.
“Ragazzi! Cosa fate qui?” chiese il principe.
“Affari personali!” rispose Robert. “Tu, piuttosto, cosa fai qui? Non dovresti…”
“Seraphine! Robert!” lo interruppe il re. “Devo parlarvi.”
Steven lo guardò capendo l’intenzione del padre e disapprovando in pieno.
“ Non vi ho mai rivelato questo perchè ti conoscevo, figlia mia. Ti conoscevo troppo bene.”
“Non capisco, padre! Cosa volete dire?” rispose perplessa la principessa.
“Trent’anni or sono accadde un fatto incredibile, che piegò in due Coravia.”
Allora regnava mio padre e io ero appena quindicenne.
Una setta di guerrieri che si faceva chiamare “La Selva” si era unita per opera di un... di un mostro che tutti chiamavano “Animanera”. Quella.... Quella cosa era tutto fuorché un umano. Aveva un lunga tunica con un cappuccio nero. La faccia sembrava non esistere e....”
“Padre, vado avanti io.” Lo interruppe il figlio capendo che il re stava cominciando ad agitarsi.
“Questo essere aveva radunato i migliori spadaccini del mondo che si sarebbero alleati con lui in cambio di una parte del potere che sarebbe derivato dalla loro opera.”
“Quale opera?” chiese Robert.
“La Selva fu creata per uccidere ogni membro della famiglia Zodishing. Non sappiamo perché, ma Animanera sembrava determinato a liberarsi di chiunque avesse quel cognome. Così pensò che, se avesse ceduto i territori di Coravia agli adepti,  loro lo avrebbero aiutato a sbarazzarsi degli Zodishing.”
“Quindi a lui non interessa il potere!” disse Robert.
“Esattamente!”
Seraphine rimase immobile con gli occhi umidi, data la sua fragile personalità.
“E come andò a finire?” chiese Robert.
Steven si rasserenò.
 “Per combattere La Selva si riunì un’alleanza di cinque guerrieri che avevano ricevuto in dono delle armi divine che  solo loro riuscivano a padroneggiare.
Quest’alleanza si chiamava La Compagnia degli Angeli Terrestri, non tanto per le doti straordinarie dei suoi componenti, quanto per le armi che sapevano utilizzare e che contrastarono i guerrieri della Selva.”
“Quindi questa compagnia sconfisse la Selva definitivamente?” chiese Robert incuriosito, mentre la sua promessa ascoltava ciò che il fratello non le aveva mai rivelato con uno sguardo terrorizzato e profondamente vulnerabile.
“Già! Gli Angeli Terrestri la sconfissero uccidendo gran parte dei suoi adepti. Quando Animanera venne trafitto dalla spada di un Angelo Terrestre, proferì queste indimenticabili parole prima di dissolversi come polvere: “Tornerò! Tornerò e mi vendicherò. Il mio arrivo verrà annunciato da una rosa nera. Nera come l’infinito...”
“Come la tempesta e come la notte più buia. Tra trent’anni tornerò, nell’anno del diavolo e allora ogni Zodishing morirà e Coravia cadrà.” Lo interruppe il padre continuando la frase.
“L’anno del diavolo?” chiese Robert con del terrore che si poteva percepire dalla sua voce.
“Secondo la tradizione, ripetendo tre volte il numero sei, si fa riferimento al diavolo e, perciò l’anno in corso, il 1666, è considerato l’anno del diavolo.” disse Steven.
“Dovete sapere, inoltre, che la Selva… beh…” Steven si fermò per un attimo, come se stesse raccogliendo il coraggio per dire ciò che seguiva alla sorella. “I genitori di nostro padre… vennero uccisi dalla Selva.”
Gli occhi di Seraphine si spalancarono e Robert abbassò lo sguardo. La ragazza scoppiò in un pianto fragoroso che non riuscì a trattenere.
“Nostro padre venne salvato un attimo prima da un servo che lo accudì fino a che non fu in età per governare, anche se ciò che gli era successo gli aveva lacerato l’animo, gli aveva strappato quella poca felicità presente nel suo cuore, quella stessa felicità che con il tempo aveva riacquistato e che oggi ha perduto nuovamente in un solo attimo alla vista di quel fiore malvagio. La rosa nera è riapparsa. A giorni la Selva ritornerà, più forte di prima e verrà per uccidere noi.” Seguì un attimo di silenzio che sembrava non potesse avere fine.
“Perciò è questo che mi nascondevate! I nostri avi non morirono per cause naturali, ma furono uccisi crudelmente.” disse Seraphine versando lacrime amare come la morte.
Steven annuì e poi guardò il padre, il quale non riusciva a trattenere le lacrime che gli scendevano lungo gli zigomi.
 Robert diede un occhiata alla finestra accanto a loro. In essa vide il cielo e in essa anche la libertà.
Invidiava la luna che non aveva pensieri, se non quello di risplendere nel cielo sterminato. Invidiava un uccello che non vide quella sera, ma che immaginava libero e spensierato, capace di raggiungere i posti più segreti, più nascosti e più misteriosi, capace di volare nel cielo e di scappare da ogni pericolo o preoccupazione. Loro, però, non potevano farlo, anche se lo desideravano con tutto il cuore.
I locali stavano chiudendo e le persone si ritiravano in casa, per assaporare il calore della famiglia e dell’affetto fra familiari, ignari di quel che stava per accadere, di quello che li avrebbe fatti piangere e sperare, pregare quegli Dei a cui si rivolgono quotidianamente per qualcosa di insignificante e puramente egoistico, che riguarda un loro vizio o un loro capriccio, senza chiedere loro la cosa più importante di tutte, la salute.
Il re vide che il taverniere stava per chiudere il locale e decise di andare.
“Coraggio! Andiamo! Si sta facendo buio!” disse con una voce indifferente.
Prese dalla tasca delle monete e le diede al taverniere, ma lui si inchinò leggermente per far intendere che non pretendeva denaro dal proprio re.
Il sovrano chinò la testa a sua volta e uscì insieme ai suoi figli e a Robert.
Il cielo era nero e non vi erano stelle in esso.
La luna risplendeva mostrando incontrastata la propria lucentezza in quel firmamento così scuro e cupo che non lasciava speranze alla gente, che rendeva triste chiunque osasse alzare gli occhi.
Non vi era gente in strada e non ve ne sarebbe stata fino all’indomani, quando la città si sarebbe svegliata e avrebbe ripreso a vivere.
Il re aveva la mente appannata da quel suo terrore profondo e, fino ad allora, nascosto. Quel terrore che lo percuoteva e che lo rendeva fragile e insicuro.
Da quella sera vedeva tutto come se lo facesse per l’ultima volta, come se tra poco non ci sarebbe stato più, come se tutto fosse svanito.
Avrebbe voluto dire a tutti di godere di quegli ultimi istanti di gioia che non sarebbero tornati mai più.
Steven ripensò alla rosa, la vera responsabile di tutto ciò, ma che, in realtà, non lo era affatto. Non è una sua colpa il fatto di essere spuntata in quel periodo, di essere diversa. Non è una sua colpa il fatto di anticipare l’arrivo della Selva. Non è stata lei a deciderlo e, probabilmente, non lo avrebbe voluto.
I quattro camminavano per le strade di Gardenia recandosi al castello. Era come se non avessero una meta, come se non sapessero dove andare. Non parlavano, contribuendo a formare un silenzio interrotto solo da un alito di vento leggero.
La principessa si fermò ad osservare una casa, dalla cui finestra si vedevano delle facce sorridenti e dei volti felici. Seraphine stette a guardarli per parecchio tempo, cercando di immaginarsi in quella casa con loro, a gioire dell’allegria di una famiglia felice e senza problemi. Lei una famiglia la aveva, ma non si sentiva felice perchè, da quella sera, tutto era cambiato, tutto era diventato bigio e tetro.
Ogni secondo, ogni attimo poteva essere l’ultimo della loro vita. La paura li immobilizzava e li rendeva vulnerabili.
Il terrore li stava uccidendo lentamente, mentre la luna risplendeva spensierata e luminosa nel dolce e calmo firmamento senza stelle.
Robert le mise una mano sulla spalla per chiederle di proseguire il cammino.
Seraphine diede un’ultima occhiata a quello squarcio di felicità nella notte buia e spaventosa.
La famiglia tornò al castello dove, probabilmente, avrebbe trovato maggiore conforto e sicurezza, dove si sarebbe sentita protetta e al sicuro. Difesi da quelle mura avrebbero potuto dormire beatamente, lasciando i cattivi pensieri e le malvagità al di fuori e riuscendo a trovare la pace.
Quando i reali si misero a dormire, non cercarono di trovare un rimedio a quello che stava accadendo, ma si strinsero attorno le coperte, cercando un po’ di serenità e di protezione, cercando di evadere da quella realtà che li stava uccidendo a poco a poco.
La notte si stava rivelando in tutto il suo splendore, mentre i pensieri e le paure, divoravano le menti dei reali, mentre la pace era estranea alle loro anime.
Le tenebre avevano preso il sopravvento, lasciando la gente all’oscuro di quello che il domani avrebbe riservato loro.

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Fantastico / Re:Dal mio romanzo "La rosa nera"
« il: Febbraio 24, 2012, 19:50:26 »
No problem. ..

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Fantastico / Re:Dal mio romanzo "La rosa nera"
« il: Febbraio 24, 2012, 18:06:57 »
Coravia è il nome del regno e Gardenia è una città di quel regno. La capitale. Dove si svolge la storia.

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Fantastico / Re:Dal mio romanzo "La rosa nera"
« il: Febbraio 24, 2012, 13:25:39 »
Il seguito arriverà a breve, non preoccupatevi!!!! Comunque, vi è piaciuto???

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Fantastico / Dal mio romanzo "La rosa nera"
« il: Febbraio 22, 2012, 22:02:23 »
Arrivò il pomeriggio e il re, dalla terrazza stupendamente addobbata del castello,  guardava il cielo che in quel momento risplendeva di una luce preziosa e delicata, mentre una brezza leggera gli sof-fiava in viso.
La regina, con uno sgargiante abito rosso che arrivava a strisciare per terra si avvicinò a lui con le mani giunte.
“Qualcosa ti turba, Arthur?” chiese lentamente.
Il volto del re era visibilmente sconvolto, sintomo di un gran disturbo. Un disturbo che partiva dall’animo. Un disturbo che a poco a poco lo avrebbe consumato dalle scarpe alla punta di quella corona che lo distingueva ma che, in verità, non lo rendeva diverso dagli altri.
“E’ il cielo, Agatha. Ti ricordi il cielo sotto il quale abbiamo festeggiato l’investitura dei cavalieri? Quel…Quel cielo così rosso, così terrificante! E poi quei rumori, quelle grida! Non riesco a rimuo-verle dai miei ricordi!”
La regina lo guardò comprensiva e gli mise una mano sulla spalla.
“Sai, Arthur. Io ho sempre pensato che un re debba rispecchiare il suo popolo, in un modo o nell’altro.”
“Cosa intendi dire?”
“Dico solo che non dovresti avere paura, come Coravia non ne ha. Pensaci. Abbiamo superato pesti-lenze, anni e anni di carestia, invasioni, eppure Coravia non si è scoraggiata, ha combattuto e ha re-sistito fino alla fine, senza paura. Il suo re, per quanto possa essere fragile, dovrebbe fare lo stesso, dovrebbe avere lo stesso coraggio del suo popolo. Non credo, infatti, che Coravia abbia avuto paura quella sera. Non vorrai, poi, rovinare un così bel momento come il matrimonio di nostra figlia con si-mili preoccupazioni.”
Il re aveva capito, sapeva di sbagliare a preoccuparsi e a credere che qualcosa sarebbe accaduto.
“Eppure…era così…. Così …”
“Insolito?”
“Sì!” rispose pronto il re, come se la moglie avesse detto proprio la parola che stava per dire lui.
La regina sorrise. Quel sorriso sembrava illuminarle il volto ma, più di tutto, era contagioso, tanto che il re sorrise a sua volta, dimenticando i problemi.
“Non avere paura, Arthur. Spesso abbiamo paura di ciò che è nuovo, di ciò che non conosciamo, commettendo, a volte, un grave errore.”
Arthur guardò la moglie. Aveva capito cosa voleva dire e le sorrise in un modo rassicurante, tanto che la moglie lo lasciò da solo a meditare su quel cielo, su quegli sguardi terrorizzati che ogni tanto gli si riproponevano nella mente, su quel silenzio agghiacciante e su quelle grida che ogni volta che erano ascoltate strappavano brandelli di cuore.
Il re rifletteva e cercava di immaginare cosa potesse esserci dietro tutto questo. Cercava risposte ma, ogni volta, trovava altre domande.
Ad un tratto un nuovo pensiero si fece strada nella sua mente. Un nuovo dolore riemerse, un dolore soppresso, un dolore sepolto che, quel giorno era stato riesumato. Un dolore che si riconduceva ad una sola persona. La stessa persona che ricomparve prontamente in quel momento nella mente del re. Colui che fino ad allora era apparso solo nei suoi incubi, quella volta era apparso anche nella sua mente.
Era un uomo la cui faccia, come tutto il corpo, erano coperti da una tunica nera. Quell’uomo era la causa della sofferenza del re. Quell’uomo era colui che, lentamente, lo stava uccidendo.
Il re stava collegando quell’uomo alla notte dei cavalieri. Era convinto che fosse opera sua, che fosse stato lui a provocare tutto ciò.
 “Forse… Forse…” pensava il re, continuamente bloccato dal terrore che suscitava in lui quell’uomo.
“ Il tempo è scaduto. Forse… apparirà. Forse…Forse è tornato” disse precipitando in un mare di la-crime, la cui fine non avrebbe di certo arrestato il dolore presente nel cuore del re.


Quella stessa sera i tre ragazzi: Steven, Seraphine e Robert si trovarono sulla immensa terrazza del castello, la stessa in cui, poco prima, il re aveva pensato, aveva ricordato e aveva pianto.
Seraphine era visibilmente preoccupata, come poco prima lo era il padre.
“Cosa ti preoccupa?” chiese Steven.
“Oh, Steven, se potessi, tu, comprendere il mio dolore, la mia agonia, nel vedere questo cielo, ri-pensando a quando, due notti fa, ne eravamo spaventati!”
I due la guardarono preoccupati. Sapevano che la principessa era molto fragile e che le più minime preoccupazioni, i più minimi pensieri, le più minime ansie, diventavano per lei un fardello da portare sulla schiena.
“Quei rumori” continuò. “Quelle grida, quel sangue nel cielo. Io…Io mi chiedo cosa fosse stato a provocarli.”
“Forse…” disse Steven. “Vorrei con tutto il cuore sbagliarmi, ma…” continuava interrompendosi spesso. “Io credo che dietro tutto questo ci sia una persona che…che ha rovinato la vita a nostro pa-dre. Una persona che è legata ad un avvenimento che ha lacerato e distrutto ogni speranza nel suo cuore. Un uomo che… forse sta ritornando.”
“Quale avvenimento?” chiese spaventata Seraphine.
“Io…Io non credo che nostro padre voglia che io vi racconti questo, fidatevi. Io spero con tutto il cuore che non ce ne sia bisogno ma, in caso fosse necessario, dovrete conoscere anche voi questa orribile storia.
I cuori dei due ascoltatori si congelarono di un gelo eterno. Di un gelo che difficilmente si sarebbe potuto sciogliere.
I tre ragazzi rimasero lì, in balia del destino che continuava a giocare con le loro vite e i loro senti-menti. In balia di un leggero venticello che cercava di consolarli, ma che non ci sarebbe certamente riuscito.
Chi era quell’uomo incappucciato che aveva squartato ogni segno di felicità nel cuore del re? Quale avvenimento può aver ferito così tanto un animo nobile come quello del re Arthur?
Tutte queste domande stavano diventando, forse, la risposta alla domanda che tutti a Gardenia si stavano ponendo: Cosa sta succedendo?
E mentre la notte calava su Gardenia, un mistero macabro e agghiacciante calava su quei tre cuori gonfi di paura e preoccupazione, su quei tre ragazzi che quella notte avrebbero dormito nei loro caldi letti, ignari di ciò che l’indomani li avrebbe scossi, ignari di ciò che avrebbe cambiato la loro vita per sempre, ignari di ciò che il destino aveva in serbo per loro.

Spero vi sia piaciuto! ;D
Fatemi sapere, mi raccomando!!!!

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Presentazioni / Re:Salve a tutti da Steven Joseph
« il: Febbraio 11, 2012, 16:58:37 »
Sì. Ho letto pochi suoi libri: l'intrepida tiffany e i piccoli uomini liberi mi è piaciuto molto.

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Presentazioni / Re:Salve a tutti da Steven Joseph
« il: Febbraio 11, 2012, 12:38:01 »
Beh, innanzitutto grazie a tutti. I miei autori preferiti? Tutti coloro che scrivono libri che attirano la mia attenzione. Adoro i libri fantasy e quelli pieni di mistero...

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Presentazioni / Salve a tutti da Steven Joseph
« il: Febbraio 10, 2012, 18:13:12 »
Salve a tutti! Io sono Steven Joseph. Adoro la lettura fin da quando ero molto piccolo. Quando sono diventato un po' più grandicello, ho pensato bene di iniziare a scrivere qualcosa di mio e mio soltanto, un qualcosa che avevo inventato io che volevo condividere con gli altri. Così decisi di iniziare a scrivere all'età di undici anni. Ora ne ho sedici  e il mio sogno è quello di diventare un scrittore famoso. Speriamo! Io credo che nella vita, se si ha fiducia di se stessi e si inseguono i propri sogni, essi si possono avverare più facilmente. Se, invece, si ha paura di non farcela e li si abbandona, la vita sarà solo uno scorrere infinito di attimi. Spero di realizzare il mio sogno e auguro a tutti di fare altrettanto, perché quando un sogno diventa realtà, la realtà diventa un sogno.  Mi sto dilungando, eh? Beh, ad ogni modo vi saluto. A presto.

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