Autore Topic: Quella scuola  (Letto 937 volte)

presenza

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Quella scuola
« il: Marzo 06, 2011, 23:16:02 »
Vincenzo conosceva ogni pietra del suo quartiere, e ogni pietra conosceva Vincenzo; lui, così piccolo e così furbo, si nascondeva sugli alberi e da lassù gli piaceva guardare e spiare.
Sua madre, Pippina, donna semplice e religiosissima, tutto il santo giorno a gridare: Vincenzo, Vincenzo!
Se lo portava dappresso ovunque andasse, e ogni giorno in chiesa, a pregare, a frequentare il catechismo. La vita era semplice, in quegli anni, tra quelle famiglie di una borgata di mare, si passavano le ore estive a raccontare leggende, storie, non c'era luce per le strade e solo la luna illuminava i volti. Esisteva soltanto il presente per quella gente, fatto di zuppa e pane, di giochi innocenti e di libertà senza tempo.
Compiuti i sei anni Vincenzo andò a scuola e con lui anche i suoi compagni di giochi. Pippina gli fece un grembiule nero e gli applicò un grosso fiocco azzurro. Lui quel giorno, quel primo giorno di scuola si sentiva importante, a piedi insieme alla mamma avviandosi alla scuola era fiero del suo fiocco. Il maestro Trivella lo accolse con un sorriso e gentile lo fece sedere al suo banco di legno. A scuola, da quel giorno, con gran sorpresa dei piccoli fu distribuito da un bidello in camice nero un panino, un formaggino e la mela. Il suono di una campanella segnava l'ora e quando spuntava il bidello, si mangiava.
Ma l'irrompere della guerra interruppe quel cammino e Vincenzo in quegli anni  bui imparò solo a procurarsi lo zucchero e il sapone, e fortuna che vivendo in campagna sapeva sempre dove trovare un po' di frutta. La scuola,  semidistrutto l'edificio, i banchi di legno arsi per fare fuoco, e tutti i documenti dispersi. Quello fu un tempo di guerra, tempo  trascorso per sopravvivere, per difendersi, per proteggersi. Il papà Micio dopo tanto tempo un giorno tornò confuso dal fronte, Peppina lo difese da tutti, era come  tornato bambino tra i suoi bambini.     
 Finita la guerra era finita la vita, cancellata l'identità, azzerata la persona. Occorreva ricominciare.  Ancora più preoccupata circa il futuro del figlio, Peppina si chiedeva tutto il giorno cosa avrebbe fatto, come si sarebbe guadagnato da vivere, Vincenzo invece non si perse d'animo, e cominciò raccogliendo asparagi nelle campagne vendendoli poi agli angoli delle strade.
Per qualche tempo tirò a campare  in questo modo, ma poi capì che la fatica, il freddo, la pioggia non valevano i soldi che riusciva a racimolare, troppo pochi!
Un compagno allora gli disse che pagavano discretamente chi faceva lo spaventapasseri, così pensò di provare, ma incappò male, sopportò poco quel contadino che si rivelò un avaraccio, e così Vincenzo decise di vendicarsi, infatti quell'uomo non poteva scamparla liscia, lo aveva trattato troppo male nutrendolo solo con frutta avariata, mentre la buona si rovinava sugli alberi. E la paga poi, era sempre stata inferiore rispetto a quella che prometteva. Bisognava difendere la propria dignità, così arrampicatosi su un albero per non farsi vedere, Vincenzo aspettò che quell'uomo passasse da lì con il suo fascio di legna sulle spalle, lo faceva sempre e sempre alla stessa ora, e anche quel giorno non tardò, aspettò che gli venisse a tiro e gli incendiò quel fascio di legna. Quel giorno quell'uomo ebbe una lezione, ma non seppe mai chi fu nonostante lo sospettasse.
Tuttavia occorreva cercarsi un altro lavoro, aiutare i pescatori a ripulire la barca del pesce e poter ricavare un doppio compenso da questo impegno fu un lavoro al quale Vincenzo si dedicò per  intere stagioni. Riusciva a racimolare un po' di soldi che portava sempre a casa e con essi anche del pesce per i suoi familiari. Tuttavia un anno prese una cattiva influenza e fu costretto a fermarsi parecchio, la madre allora per continuare a sfamare la famiglia andò a servizio presso una signora e la mattina si alzava presto per andare a raccogliere arance nelle campagne vicine. 
Ancora un po' convalescente, in un caldo pomeriggio d'aprile approfittando del sole, Vincenzo pensò di farsi una passeggiata e sedutosi in piazza mentre guardava la vita scorrergli accanto pensò ai suoi 19 anni.
Era tanto immerso nei suoi pensieri che non si accorse di un suo amico, un certo Turi testa soprannominato sciccareddu che da lontano si sbracciava per salutarlo. Avvicinatosi gli disse che lo  cercava da una settimana. E dimmi, gli disse dipingi ancora? Lo sai, a Catania si è aperta una scuola di pittura e scultura che dopo tre anni di frequenza rilascia un diploma che permette di insegnare disegno nella scuola di Stato. La chiamano Scuola d'Arte ed io ho pensato subito a te, a te che sei così bravo a disegnare e dipingere. Perché non vai ad iscriverti?
Vincenzo sul momento lo prese in giro, ma quello insisteva al punto che lo sfidò pure a prendere informazioni. Dopo si salutarono e a Vincenzo per tutto il tempo fino a quando ritornò a casa pensò a quella storia, e si ripeteva nella sua mente professore, professore,e non si dava pace, tanto che prese la decisione di andare ad informarsi. Quella sera stessa ne parlò alla madre, la quale si mostrò alquanto scettica e scoppiò a ridere, ma che dici, tu professore, chissà che imbroglio, non essere così ingenuo, lo sai chi è Turi sciccareddu! Vincenzo tuttavia non rinunciò a quel pensiero e la mattina successiva si alzò di buon'ora e si diresse alla Scuola d'arte. All'ingresso c'era un signore con i baffi e un camice nero che subito gli chiese cosa volesse. Saputa la questione lo mandò in una stanza al primo piano chiamata Segreteria. Lì Vincenzo si trovò di fronte a persone molto impegnate, chi rispondeva al telefono, chi scriveva a macchina, chi compilava fogli di carta e quando timidamente pronunciò una parola gli fu intimato di rispettare il turno.
Finalmente un uomo con  gli occhiali sul naso gli si avvicinò, e a lui espose il suo quesito. L'uomo gli rispose che avrebbe dovuto portare dei documenti, una tessera di riconoscimento e la licenza media.
A quel tempo Vincenzo aveva già19 anni e della passata guerra si aveva ancora un ricordo forte, perciò riferita alla madre la veridicità della notizia subito si misero entrambi alla ricerca del certificato di licenza che fu impossibile trovare, infatti gli anni e i ricordi erano sfumati con il fumo delle cannonate dei mortai di guerra.
Ritornò a scuola e raccontò tutto al signore con gli occhiali sul naso ed egli gli rispose: figlio mio, non posso aiutarti! Vincenzo allora se ne andò intristito ma, fatti aveva pochi passi che si sentì subito richiamare dall'uomo che gli disse: a meno che tu  voglia frequentare l'Istituto per sei anni, infatti non avendo il diploma puoi sempre scriverti alla prima media rifacendo daccapo l'intero percorso.
E fu così che Vincenzo frequentò per sei anni l'Istituto. Il primo giorno di scuola arrivò puntuale al cancello della scuola. C'erano una gran quantità di giovani, chi si salutava in tono amichevole, chi seduto sul muretto chiacchierava allegramente, chi correva trafelato pensando fosse arrivato tardi, chi semplicemente si dava delle arie facendo gruppetto a parte, finalmente squillò una campana e tutti entrarono nel grande atrio della scuola, lì furono formate le classi, e Vincenzo erroneamente fu accompagnato in classe 3A superiore da un bidello che non conosceva la sua storia ma che lo aveva visto in età da superiori. Ma rimase poco, chiarito l'equivoco fu condotto senza perdere altro tempo in classe I A. Fu umiliante ritrovarsi seduto su quei banchi con accanto solo compagni bambini;  e se anche fu spiegato loro il motivo della sua permanenza nella classe non mancarono sguardi ammiccanti fra loro, qualche risatina o un brusio di sottofondo che fu bloccato tempestivamente dall'insegnante.
L’Istituto statale d’arte di Catania era una sezione staccata  da quella di Palermo, era ospitato in sei aule più un lungo corridoio e un vecchio sotterraneo ripostiglio che accoglieva le aule di scultura , di plastica e modellato, situato al piano rialzato del vecchio e incompleto Convento settecentesco dei Padri Benedettini . Un lungo poderoso colonnato cingeva il grande cortile a pianta quadrata. Vincenzo trascorse da studente lì i suoi anni scolastici, lì in quella struttura severa  ma tanto particolare dove imparò a socializzare coi compagni e professori, in quello spazio saturo di storia e di preghiere scoprì un mondo che lo aiutò tanto a capire se stesso, la sua educazione d’artista ma anche di futuro educatore. Si viveva insieme nell'Istituto, non come semplici studenti ma come compagni in attesa di spiccare il volo della vita.
Un minuscolo alunno che si chiamava Teri Polo era tanto legato a Vincenzo. Vicè, Vicè lo chiamava e sorridente aggiungeva: Ma tu così alto non ti vergogni a stare insieme a noi bambini?
Così trascorrevano i giorni, senza grandi novità, solo un enorme sforzo caratterizzava l'impegno di Vincenzo. E non mancavano di certo incomprensioni anche con gli insegnanti, Vincenzo era un adulto ma, pur sempre uno studente in ritardo e perciò non gli veniva di certo risparmiato il suo compito o addolcita la sua pillola. Un giorno infatti, l'insegnante di lettere lo chiamò a recitare una poesia sul gallo che prevedeva anche la ripetizione del verso dell'animale, e Vincenzo con gran pazienza e dignità ripeté tutto nonostante la vergogna mentre i suoi compagni bambini   continuavano a ridere di gran gusto. Insomma, chi più poteva tirava e ogni tanto la corda si assottigliava al punto che rischiava di rompersi. In tempi tristi, quando l'umore bisognava di un incoraggiamento, quando occorreva una motivazione maggiore, Vincenzo, nel suo silenzio dipingeva. Sì, non aveva grande materiale, a lui bastava poco, riciclava qualunque cosa e con ciò dipingeva paesaggi lunari a tinte gialle e nere, o campestri, con i colori a tinte vivaci proprie della sua campagna in primavera.
La sera, tempo permettendo, prima di andare a letto discuteva, seduto sul gradino di casa, con don Saro, un anziano sapiente, e le mezze parole di quell'uomo lo confortavano e lo spronavano ad alzarsi dal letto l'indomani e trovare il coraggio di andare a scuola.
Vincenzo non aveva molto appoggio dalla famiglia, le sorelle erano ancora piccole e suo fratello pensava solo a divertirsi e guadagnare solo per spendere. La madre era troppo preoccupata di portare il cibo a casa per potersi fermare e parlare con il figlio, e a maggior ragione da quando a quest'ultimo “gli era preso il pallino” della scuola e soldi a casa ne entravano di meno.
Ma il tempo passa, inesorabile, per tutti e tutto, e passando lascia dietro di sé belli e brutti ricordi, fatiche e gioie, ansie e sicurezze. Si avvicendano i giorni, e tutto diventa presente, vissuto con la consapevolezza d'essere un po' più diversi di ieri, e così più sicuri si diventa più forti. Anche Vincenzo divenne sicuro, e forte, conquistando l'animo dei singoli compagni e della scuola. Ne divenne il rappresentante, fu a capo del comitato studentesco riuscendo a identificarsi negli ideali in cui credeva e professava. E la scuola stessa divenne attiva, e gli studenti divennero un tutt'uno con gli insegnanti.
Quando, finalmente anche per lui arrivò il giorno del diploma, pensò a come era arrivato in quella scuola, a quello che era stato e a ciò che era riuscito a raggiungere credendo in sé stesso, nell'opportunità che aveva colto al volo,  e nella sua determinazione.
Aveva realizzato un'idea vivendola giorno dopo giorno, aveva respirato il sacrificio e ne era stato ripagato con la stima, aveva creato poco a poco se stesso, dal nulla fino a quell'oggi carico di significato. E da quello studente ripetente che era stato, non rimaneva più niente, gli anni, i compagni, gli insegnanti e la scuola stessa, quell'edificio apparentemente freddo e respingente, lo avevano plasmato e avvolto in un mondo fatto di rispetto e amore attraverso una comunicazione preziosa, fatta di piccole cose, e del profumo che non avrebbe dimenticato mai.
E finalmente nel mondo, padrone di se stesso e della sua propria dignità presentò il suo profumo.
Realizzò veramente ciò che per caso, tempo addietro un compagno gli aveva suggerito.
E quando si sedette per la prima volta in cattedra, stentava a credere. Insegnava disegno e storia dell'arte al Magistrale della sua città, si aggirava per i corridoi e le aule di quell'Istituto con la consapevolezza d'essere, parlava d'arte, e parlando descriveva se stesso, la sua borgata, i tramonti, la campagna, ciò che era, il suo passato e il suo presente, così semplicemente, parlava d'arte.
Dopo qualche anno vinse il concorso a cattedra e  si piazzò primo in graduatoria per l'insegnamento dell' educazione artistica. E l'approccio fu il medesimo, la stessa cura dei particolari, di se stesso trasferita nell'animo e nelle menti dei piccoli, dando loro se stesso dava loro la chiave di lettura per vivere e capire la vita. Entrava in classe e parlava di tutto, chiedeva ai suoi alunni come stavano quella mattina, se avessero o no mangiato, quale pensiero attraversava le loro giovani menti. E col colore si tracciavano i racconti, le immagini di vita e i desideri. E dal colore prendevano forma i caratteri, le persone e la vita nel suo dispiegarsi fra bene e male, realtà e finzione, verità e falsità. Per anni, la classe, ogni classe si trasformava in laboratorio di vita, si vivevano drammi e gioie, si scherzava e si piangeva e sempre con la stessa intensità. I rapporti erano pari, ci si confidava alla pari, con volontà e desiderio di esprimersi ed essere espressi. E tutti vivevano di colori, pennelli,
matite, immagini, fogli. E gli oggetti stessi vivevano di vita propria, prendevano significato, si animavano come natura viva. Esisteva l'intesa, l'ascolto, la voglia di capire e sapere.
Io ho respirato quell'aria, fin da piccola lo accompagnavo, si entrava insieme prima del suono della campana, un saluto a chi sedeva all'ingresso, la firma sul registro e poi lungo le scale che portavano al secondo piano in fondo al quale c'erano due grandi aule da disegno. Prima che arrivassero i ragazzi, Vincenzo si accertava del materiale che avrebbe dovuto dare casomai qualcuno venisse sprovvisto. Il suono della seconda campana annunciava l'ingresso a scuola dei ragazzi. E i ragazzi entravano, eccome, precipitandosi e facendo a gara a chi arrivava per primo in aula. E poi piano, piano entravano gli altri, fino al completo. Dopo un breve parlottare tra loro ragazzi di questioni in sospeso, Vincenzo esordiva con una frase ogni volta diversa e sempre dal tono umoristico, per attirare la loro attenzione. E quindi il dialogo cominciava e l'avventura si presagiva interessante. Si verificava puntualmente un botta e risposta fatto di brio e risate, e le pareti dell'aula stessa risuonavano degli echi.
E in mezzo ai colori, pennelli e matite si parlava di tutto, dell'arte e della vita, di se stessi e degli altri naturalmente e senza forzature. E quelle ore così trascorse passavano velocemente e quando il suono della campana ne segnava la fine, ci si sentiva colti alla sprovvista e si faceva fatica ad andare via e cambiare pagina. Io ho respirato quell'aria. Mi sono nutrita di quell'atmosfera e ho vissuto quei dialoghi e quell'esserci in modo consapevole.
Oggi è passato del tempo da quando, piccola, mi aggiravo in quell'aula ascoltando e odorando.  I  sogni, gli ideali e le aspettative  oggi non sono più.
Tutto  è un purgatorio, dove  ci sono  solo vittime, vittime della società, del sistema, dell'obbligo. La mattina, ogni mattina, quegli adolescenti, gli stessi che spesso sono “senza” famiglia, bocciati già dalla vita, perdenti senza aver neanche combattuto, come anime costrette a scontare gli anni della loro vita,  quegli adolescenti entrano in purgatorio, alle loro spalle si chiudono i cancelli, il suono di una campana scandisce la loro permanenza all'interno di un luogo in cui regna l'ozio, dove non ci sono stimoli, dove non c'è interesse, dove le pareti trasudano muffa. I colori hanno ceduto il posto alle parole nere, le sedie e i banchi sgangherati risultano ostili e gli appendiabiti sono inesistenti, e cartelloni, disegni e carte geografiche lì, appesi, muti chissà da quanti anni.
Tutto grida, ogni mattina, per tutto il giorno e in ogni dove riecheggia l'urlo di disperazione, la voglia di evasione e la ricerca di qualcosa oltre ogni umano limite, da qualunque altra parte e soprattutto fuori di là. E' il grido dell'adolescente che si muove impazzito tra i banchi come un animale in gabbia, che chiede aiuto ridendo come un ossesso in faccia a chiunque, che cerca il suo ruolo offendendo con le parole e i gesti e dando pugni chiusi contro armadi e porte. Il suo cuore sanguina e le sue lacrime scorrono invisibili mentre mostra il suo disprezzo.
La mattina, ogni mattina l'insegnante si sveglia al nuovo giorno, si veste di coraggio, varca la soglia della scuola e sconta anch'egli la sua condizione, ma sa già che non insegna più ormai da tanto tempo, perché non c'è  scuola, ci sono solo interessi senza interesse.
Ogni mattina dunque,  non insegnanti e  non alunni si guardano gridando ognuno il loro dolore e sforzandosi di sopravvivere.
Si sta in piedi barcollando, brancolando annientati dal vuoto che opprime e  costretti a sbranare quell'unico osso divisibile fra tanti e come cani famelici ci si aggira per i corridoi con gli occhi sgranati, le labbra secche, senza più nessun ideale né desiderio, attendendo solo che quell'unica campana finalmente scandisca la fine dell'incubo che ogni giorno si è costretti a vivere e subire.
Tutto ormai è cruda realtà.

LeD

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Re: Quella scuola
« Risposta #1 il: Marzo 07, 2011, 19:56:46 »
Tutto  è un purgatorio, dove  ci sono  solo vittime, vittime della società, del sistema, dell'obbligo. La mattina, ogni mattina, quegli adolescenti, gli stessi che spesso sono “senza” famiglia, bocciati già dalla vita, perdenti senza aver neanche combattuto, come anime costrette a scontare gli anni della loro vita,  quegli adolescenti entrano in purgatorio, alle loro spalle si chiudono i cancelli, il suono di una campana scandisce la loro permanenza all'interno di un luogo in cui regna l'ozio, dove non ci sono stimoli, dove non c'è interesse, dove le pareti trasudano muffa. I colori hanno ceduto il posto alle parole nere, le sedie e i banchi sgangherati risultano ostili e gli appendiabiti sono inesistenti, e cartelloni, disegni e carte geografiche lì, appesi, muti chissà da quanti anni.
Tutto grida, ogni mattina, per tutto il giorno e in ogni dove riecheggia l'urlo di disperazione, la voglia di evasione e la ricerca di qualcosa oltre ogni umano limite, da qualunque altra parte e soprattutto fuori di là. E' il grido dell'adolescente che si muove impazzito tra i banchi come un animale in gabbia, che chiede aiuto ridendo come un ossesso in faccia a chiunque, che cerca il suo ruolo offendendo con le parole e i gesti e dando pugni chiusi contro armadi e porte. Il suo cuore sanguina e le sue lacrime scorrono invisibili mentre mostra il suo disprezzo.
La mattina, ogni mattina l'insegnante si sveglia al nuovo giorno, si veste di coraggio, varca la soglia della scuola e sconta anch'egli la sua condizione, ma sa già che non insegna più ormai da tanto tempo, perché non c'è  scuola, ci sono solo interessi senza interesse.
Ogni mattina dunque,  non insegnanti e  non alunni si guardano gridando ognuno il loro dolore e sforzandosi di sopravvivere.
Si sta in piedi barcollando, brancolando annientati dal vuoto che opprime e  costretti a sbranare quell'unico osso divisibile fra tanti e come cani famelici ci si aggira per i corridoi con gli occhi sgranati, le labbra secche, senza più nessun ideale né desiderio, attendendo solo che quell'unica campana finalmente scandisca la fine dell'incubo che ogni giorno si è costretti a vivere e subire.
Tutto ormai è cruda realtà.

Ho letto con particolare interesse perchè sto cercando di fare il prof di storia e filosofia.
C'è tutto quello che dici tu, ma dalla mia poca esperienza dico che è l'insegnante a mutare le cose.
Una volta varcata la soglia dell'aula se ci metti impegno e passione i ragazzi ti seguiranno e potranno condividere col loro prof la voglia e la gioia di imparare.
sono una persona INGESTIBILE e INDIGESTIBILE

.Mya

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Re: Quella scuola
« Risposta #2 il: Marzo 07, 2011, 22:21:36 »
Aveva realizzato un'idea vivendola giorno dopo giorno, aveva respirato il sacrificio e ne era stato ripagato con la stima

Una frase che proprio in questo momento è stata bella da leggere.
Complimenti per tutto il racconto, così dettagliato, così trasparente :rose:
E adesso aspetterò domani per avere nostalgia,
signora Libertà, signorina fantasia.

carpediem

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Re: Quella scuola
« Risposta #3 il: Marzo 07, 2011, 23:32:49 »
La storia di quella scuola, purtroppo somiglia a quella di molte altre: tanta gloria e storia e tanti sogni cresciuti con l'avvicinarsi del traguardo del diploma divenuto sempre più inutile ai fini del lavoro, da perdere ogni reale riferimento con la vita e con gli stessi sogni. E' morta la scuola perchè non ci sono più veri insegnanti o non ci sono più insegnanti perchè è morta la scuola? Di una cosa sono certo: la curiosità dei ragazzi è sempre viva; se arrivano a trasformarsi in non alunni, è colpa degli altri.

presenza

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Re: Quella scuola
« Risposta #4 il: Marzo 08, 2011, 00:00:12 »



Ho letto con particolare interesse perchè sto cercando di fare il prof di storia e filosofia.
C'è tutto quello che dici tu, ma dalla mia poca esperienza dico che è l'insegnante a mutare le cose.
Una volta varcata la soglia dell'aula se ci metti impegno e passione i ragazzi ti seguiranno e potranno condividere col loro prof la voglia e la gioia di imparare.
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Te lo auguro di cuore, di riuscire a "condividere" la voglia e la gioia di imparare con i tuoi studenti. E' vero, è l'insegnante a mutare l'ordine, in questo caso, il disordine delle cose... ma in una scuola ormai ridotta alla fame, affatto supportata dalla società e dalle famiglie con le quali il dialogo dovrebbe essere sempre attivo, e dove il messaggio che si vuol dare stride con le risposte che si suole trovare all'esterno... allora bisogna avere solo molta forza e coraggio.