Autore Topic: Scienza e relativismo  (Letto 8797 volte)

Doxa

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Re:Scienza e relativismo
« Risposta #30 il: Febbraio 06, 2013, 11:30:12 »
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L’individuo è un essere sociale per natura non per scelta, perciò ha bisogno della comunicazione interpersonale, che si svolge entro ideali cerchi concentrici: la famiglia, l’ambiente in cui vive, quello scolastico e poi quello lavorativo,  le amicizie, ecc..  L’individuo prende entro ogni cerchio comunicativo gli elementi necessari alla propria evoluzione.

Poiché gli esseri umani hanno la vocazione a vivere in società con altri, hanno in comune un insieme di beni da perseguire e di valori da difendere. Tali elementi vengono denominati  “bene comune”,  inteso nei suoi aspetti esteriori: economia, sicurezza, giustizia sociale, educazione, accesso al lavoro, ricerca spirituale ed altri. E un “Bene” di tutti e di ciascuno: esprime la dimensione comunitaria.

La società organizzata  per il bene comune dei suoi cittadini  risponde ad un’esigenza della natura sociale dell’individuo. La legge naturale appare allora come l’orizzonte normativo, perché definisce l’insieme dei valori per una società.

Quando ci si colloca nell’ambito sociale e politico, i valori non possono essere più di natura privata, ideologica o confessionale, ma riguardano tutti i cittadini,  si fondano sulle loro  esigenze.

Tale ordine naturale della società al servizio della persona è connotato da quattro valori che disegnano i contorni del bene comune che la società deve perseguire, cioè: la libertà, la verità, la giustizia e la solidarietà . Questi quattro valori corrispondono alle esigenze di un ordine etico conforme alla legge naturale. Se una di queste viene a mancare,  si tende al potere del più forte.

La libertà è la prima condizione di un ordine politico accettabile: la libertà di seguire la propria coscienza, di esprimere le proprie opinioni e di perseguire i propri progetti.

Senza la ricerca ed il rispetto della verità, non c’è società ma la dittatura del più forte. La verità, che non è proprietà di nessuno, è in grado di far convergere gli esseri umani verso obiettivi comuni. Se la verità non si impone da sé, il più abile impone la sua verità ed anxhe questa diventa relativa. 

Senza giustizia c’è il sopruso, la violenza. La giustizia suppone che si cerchi sempre ciò che è giusto, e che il diritto sia applicato con l’attenzione al caso particolare, poiché l’equità è il massimo della giustizia.

Infine, è necessario che la società sia regolata in modo solidale, assicurando il reciproco aiuto e la responsabilità per la sorte degli altri e facendo in modo che i beni di cui la società dispone possano rispondere ai bisogni di tutti.

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Re:Scienza e relativismo
« Risposta #31 il: Febbraio 07, 2013, 15:09:47 »
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La legge  morale naturale  è il fondamento per l’etica universale ed è alla base dell’ordine sociale e politico, perciò esige un’adesione non di fede ma di ragione, spesso oscurata da interessi contraddittori o da pregiudizi.

Il concetto di legge naturale è filosofico e non una lista di precetti immutabili,  come tale consente il dialogo nel rispetto delle convinzioni religiose di ciascuno.

La legge naturale viene espressa nel diritto naturale quando si considerano le relazioni di giustizia tra gli individui, tra questi ed il potere costituito o nei diritti soggettivi della persona, esempi: il rispetto e l’integrità della vita, la libertà religiosa e di opinione, il diritto di fondare una famiglia e di educare i figli secondo le proprie convinzioni, il diritto di associarsi con altri, di partecipare alla vita della comunità, ecc..

Il diritto può essere definito come il complesso delle norme di legge e consuetudini che ordinano la vita di una società in un determinato momento storico.

Il diritto naturale, o meglio la teoria del diritto naturale postula l’esistenza di princìpi eterni ed immutabili nella natura umana. La traduzione di tali princìpi in norme giuridiche o leggi forma il diritto positivo,  che è il diritto effettivamente vigente  in uno Stato.
 
Non sempre c’è l’accordo sui princìpi universali ispiratori delle norme giuridiche: le religioni monoteiste, assertrici del diritto naturale, tendono ad identificarlo con i princìpi dettati dai loro testi sacri (Antico Testamento, Vangeli, Corano); gli studiosi laici si basano anche su altri princìpi, come la giustizia, l’equità, ecc.. 

Il  “positivismo giuridico” si contrappone al  trascendente diritto naturale ed asserisce che il diritto è soltanto quello positivo, che s’identifica con le norme che regolano la vita sociale per la pacifica convivenza.

I positivisti spostano Il diritto (e i princìpi che ne stanno alla base)  dal trascendente all'immanente, dal dominio della natura a quello della cultura.

Il metodo adottato dai giuspositivisti è induttivo: non esistendo princìpi universali ed eterni, i princìpi su cui si basa il diritto vengono ricavati per induzione (cioè per astrazione) dalle norme giuridiche particolari e contingenti. Invece i giusnaturalisti usano il metodo deduttivo per avere norme particolari da princìpi universali.

I fautori del positivismo giuridico  hanno qualcosa in comune con quelli del  naturalismo giuridico: essi rientrano tutti nella categoria filosofica dei "realisti", ossia di coloro che pensano alla realtà (ed anche al diritto) come ad un "dato" oggettivo, esterno, e come tale indipendente dall'osservatore.

Le tesi "realiste" sono  però contestate dai filosofi relativisti, i quali pensano che un'osservazione "oggettiva" e "distaccata" della realtà non sia possibile, e che l'osservatore, interpretando la realtà, la influenzi necessariamente, perciò ogni analisi è "soggettiva": l’osservatore non si limita ad "osservare" ma mentalmente  "(ri)crea" la  sua realtà.

Una concezione teorica più moderna, che vuole superare le contraddizioni citate, è  offerta dal costruttivismo , che si è imposto alla fine del XX secolo, soprattutto tra i teorici anglosassoni. Secondo il costruttivismo gli individui  mentre osservano la realtà la modificano nella propria mente. Lo stesso meccanismo psicologico  influenza il giurista o  il giudice, seppur ancorati  entrambi alle norme esistenti, vengono influenzati dalla loro personalità nell’interpretazione ed applicazione al caso concreto. 

Per i relativisti  le leggi  non interpretano la legge naturale, ma sono espressioni della la volontà del potere legislativo, detenuto sia da una singola persona, come avviene nei regimi assoluti, sia da più persone, come avviene nei regimi democratici, in cui il popolo delega alcune persone a legiferare secondo la propria volontà, tenendo conto della conformità delle leggi non ai princìpi morali, ma alla volontà  dei cittadini,  o, nei casi di diversità di opinioni, della maggioranza.
 


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Re:Scienza e relativismo
« Risposta #32 il: Febbraio 12, 2013, 11:53:43 »
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Il pontefice Benedetto XVI si è dimesso. E mi dispiace.

Voglio rendergli omaggio in questo post trascrivendo  ciò che disse l’allora cardinale  Joseph Ratzinger contro la “dittatura del relativismo” il 18 aprile 2005 nella basilica di San Pietro  in occasione della “Missa pro eligendo romano pontifice”. 

“…Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero... La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde - gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf Ef 4, 14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie.”

Non sono d’accordo con lui nel considerare il relativismo “il lasciarsi portare qua e là da qualsiasi vento di dottrina” e comprendo il suo “sogno” irrealizzabile di avere l’umanità dipendente dal magistero della Chiesa cattolica. Infatti Ratzinger prosegue dicendo: “Noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. É lui la misura del vero umanesimo. “Adulta” non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo. É quest’amicizia che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità. Questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo. Ed è questa fede - solo la fede - che crea unità e si realizza nella carità. San Paolo ci offre a questo proposito – in contrasto con le continue peripezie di coloro che sono come fanciulli sballottati dalle onde – una bella parola: fare la verità nella carità, come formula fondamentale dell’esistenza cristiana. In Cristo, coincidono verità e carità. Nella misura in cui ci avviciniamo a Cristo, anche nella nostra vita, verità e carità si fondono. La carità senza verità sarebbe cieca; la verità senza carità sarebbe come “un cembalo che tintinna” (1 Cor 13, 1).

Ed ancora: "Abbiamo ricevuto la fede per donarla ad altri – siamo sacerdoti per servire altri. E dobbiamo portare un frutto che rimanga. Tutti gli uomini vogliono lasciare una traccia che rimanga. Ma che cosa rimane? Il denaro no. Anche gli edifici non rimangono; i libri nemmeno. Dopo un certo tempo, più o meno lungo, tutte queste cose scompaiono. L’unica cosa, che rimane in eterno, è l’anima umana, l’uomo creato da Dio per l’eternità. Il frutto che rimane è perciò quanto abbiamo seminato nelle anime umane – l’amore, la conoscenza; il gesto capace di toccare il cuore; la parola che apre l’anima alla gioia del Signore."

Nulla da eccepire sulla sua fede e dottrina teologica. Nella sua mitezza c’è la fermezza della sua fede. Perciò lo ammiro. Ma essere un’autorità morale e dotto teologo non basta nel mondo contemporaneo globalizzato, non solo economicamente.
« Ultima modifica: Febbraio 12, 2013, 11:59:02 da dottorstranamore »

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Re:Scienza e relativismo
« Risposta #33 il: Febbraio 13, 2013, 11:13:30 »
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Nell’epoca della scienza e della tecnica ha ancora senso parlare di creazione divina dell’universo ?

Il 12 febbraio 2007 ci fu un congresso internazionale sulla legge morale naturale, organizzato dalla Pontificia Università Lateranense. In tale occasione il pontefice Benedetto XVI disse  ai partecipanti che “viviamo un momento di straordinario sviluppo nella capacità umana di decifrare le regole e le strutture della materia e nel conseguente dominio dell’uomo sulla natura. Tutti vediamo i grandi vantaggi di questo progresso e vediamo sempre più anche le minacce di una distruzione della natura per la forza del nostro fare. C’è un altro pericolo meno visibile, ma non meno inquietante: il metodo che ci permette di conoscere sempre più a fondo le strutture razionali della materia ci rende sempre meno capaci di vedere la fonte di questa razionalità, la Ragione creatrice.” (il papa si riferisce a Dio, ovviamente il Dio dei cristiani, Gesù Cristo)

Il papa ha poi argomentato sulla “lex naturalis” (la legge morale naturale), che ha come  principio “fare il bene ed evitare il male”. “E’, questa, una verità la cui evidenza si impone immediatamente a ciascuno. Da essa scaturiscono gli altri principi più particolari, che regolano il giudizio etico sui diritti e sui doveri di ciascuno. Tale è il principio del rispetto per la vita umana dal suo concepimento fino al suo termine naturale, non essendo questo bene della vita proprietà dell’uomo ma dono gratuito di Dio. Tale è pure il dovere di cercare la verità, presupposto necessario di ogni autentica maturazione della persona. Altra fondamentale istanza del soggetto è la libertà. Tenendo conto, tuttavia, del fatto che la libertà umana è sempre una libertà condivisa con gli altri, è chiaro che l’armonia delle libertà può essere trovata solo in ciò che è comune a tutti: la verità dell’essere umano, il messaggio fondamentale dell’essere stesso, la lex naturalis”, dalla quale “ scaturiscono, insieme a diritti fondamentali, anche imperativi etici che è doveroso onorare.

Nell’attuale etica e filosofia del diritto, sono largamente diffusi i postulati del positivismo giuridico. La conseguenza è che la legislazione diventa spesso solo un compromesso tra diversi interessi: si cerca di trasformare in diritti interessi privati o desideri che stridono con i doveri derivanti dalla responsabilità sociale. In questa situazione è opportuno ricordare che ogni ordinamento giuridico, a livello sia interno che internazionale, trae ultimamente la sua legittimità dal radicamento nella legge naturale, nel messaggio etico iscritto nello stesso essere umano. La legge naturale è, in definitiva, il solo valido baluardo contro l’arbitrio del potere o gli inganni della manipolazione ideologica. La conoscenza di questa legge iscritta nel cuore dell’uomo aumenta con il progredire della coscienza morale. La prima preoccupazione per tutti, e particolarmente per chi ha responsabilità pubbliche, dovrebbe quindi essere quella di promuovere la maturazione della coscienza morale. E’ questo il progresso fondamentale senza il quale tutti gli altri progressi finiscono per risultare non autentici. La legge iscritta nella nostra natura è la vera garanzia offerta ad ognuno per poter vivere libero e rispettato nella propria dignità.”

"Non tutto ciò che è scientificamente fattibile è anche eticamente lecito. La tecnica, quando riduce l’essere umano ad oggetto di sperimentazione, finisce per abbandonare il soggetto debole all’arbitrio del più forte. Affidarsi ciecamente alla tecnica come all’unica garante di progresso, senza offrire nello stesso tempo un codice etico che affondi le sue radici in quella stessa realtà che viene studiata e sviluppata, equivarrebbe a fare violenza alla natura umana con conseguenze devastanti per tutti. L'apporto degli uomini di scienza è d’importanza primaria. Insieme col progredire delle nostre capacità di dominio sulla natura, gli scienziati devono anche contribuire ad aiutarci a capire in profondità la nostra responsabilità per l’uomo e per la natura a lui affidata. Su questa base è possibile sviluppare un fecondo dialogo tra credenti e non credenti; tra teologi, filosofi, giuristi e uomini di scienza, che possono offrire anche al legislatore un materiale prezioso per il vivere personale e sociale.”

Condivido l’argomentazione di Benedetto XVI sul valore inalienabile della “lex naturalis”  e la sua importanza per l’ordine sociale. Invece mi allontano  da lui quando discetta su temi religiosi, come nell’udienza generale dello scorso 6 febbraio.

So bene che alle udienze di quel genere partecipano persone di ogni strato sociale e culturale e so bene che la Chiesa esprime il suo magistero a strati, uno dei quali è destinato alle persone che hanno bisogno di credere nell’incredibile, di sperare nell’al di là. Allora il tema del’insegnamento papale cambia, come mercoledì della scorsa settimana.

Benedetto XVI ha ricordato che nel primo versetto della Bibbia c’è scritto che  “In principio Dio creò il cielo e la terra”, e tale convinzione è anche nel Credo, ma molti individui non accettano la dipendenza da Dio, anzi la subiscono “come un peso da cui liberarsi”. Ovviamente gli evoluzionisti non accettano il creazionismo divino.

Citando ancora la Genesi, il Pontefice ha voluto evidenziare un altro insegnamento offerto dal libro dei racconti della creazione, quello del peccato originale. Il primo peccato dell’uomo fu quello di scegliere  se stesso contro il volere di Dio. Nella prima parte di questo libro, ha detto Ratzinger, viene descritto il giardino con l’albero della conoscenza del bene e del male ed il serpente (cfr 2,15-17; 3,1-5). “Il giardino ci dice che la realtà in cui Dio ha posto l’essere umano non è una foresta selvaggia, ma luogo che protegge, nutre e sostiene; e l’uomo deve riconoscere il mondo non come proprietà da saccheggiare e da sfruttare, ma come dono del Creatore, segno della sua volontà salvifica, dono da coltivare e custodire, da far crescere e sviluppare nel rispetto, nell’armonia, seguendone i ritmi e la logica, secondo il disegno di Dio. Il serpente è una figura che deriva dai culti orientali della fecondità, che affascinavano Israele e costituivano una costante tentazione di abbandonare la misteriosa alleanza con Dio. Alla luce di questo, la Sacra Scrittura presenta la tentazione che subiscono Adamo ed Eva come il nocciolo della tentazione e del peccato. Che cosa dice infatti il serpente? Non nega Dio, ma insinua una domanda subdola: «È vero che Dio ha detto “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino?” (Gen 3,1). In questo modo il serpente suscita il sospetto che l’alleanza con Dio sia come una catena che lega, che priva della libertà. La tentazione diventa quella di costruirsi da soli il mondo in cui vivere, di non accettare i limiti dell’essere creatura, i limiti del bene e del male, della moralità.”


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Re:Scienza e relativismo
« Risposta #34 il: Febbraio 14, 2013, 09:08:56 »
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Il filosofo Umberto Galimberti nel suo ultimo libro (che ho già citato in un precedente post in questo topic)  “Cristianesimo. La religione dal cielo vuoto”  riprende alcune parti  di un suo precedente testo  (“Orme del sacro”) e definisce la sua opinione sul cristianesimo, a cui riconosce di aver dato un’anima all’Occidente.

Nel capitolo dedicato a “Dio e la sua inconciliabilità con la morale” ha scritto che  per emanciparsi  dal “timor di Dio”  gli individui “hanno inventato la Ragione, che è un sistema di regole che consente di distinguere il vero dal falso e, con la Ragione, la morale che consente di discernere il bene dal male.”

Ne è un esempio la biblica disobbedienza di Adamo ed Eva verso Dio. I due, tentati dal serpente, nel giardino dell’Eden presero il “frutto proibito” dall’albero della conoscenza del bene e del male (menzionato nella Genesi assieme all’albero della vita), ma quell’infrazione del divieto causò il peccato originale.   

Secondo Galimberti la proibizione divina impediva ad Adamo ed Eva di conoscere la differenza tra il bene e il male.

Quel Dio è lo stesso Dio  che si colloca al di là del comandamento morale, perché chiese ad Abramo di uccidere il figlio Isacco come prova della sua fedeltà. Questo “mito” evidenzia la sospensione teleologica dell’etica. Il comando divino confligge con la legge morale e l’affetto paterno.

Ma si può omologare il giudizio di Dio al giudizio che gli individui danno delle loro azioni ed esprimono nella distinzione tra bene e male ?  Dio è al di là della morale, perché è al di là di ciò che gli uomini giudicano vero o falso, bene o male, essendo queste distinzioni frutto della ragione umana che procede per differenze, mentre il Dio biblico è indifferenziato.

Non ci sarebbe bisogno di Dio se il suo giudizio fosse sovrapponibile  a quello previsto dalle leggi umane che calcolano colpe e pene. Non si può omologare il giudizio di Dio al giudizio degli individui, altrimenti i suoi criteri morali sarebbero uguali a quelli degli uomini.

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Re:Scienza e relativismo
« Risposta #35 il: Febbraio 15, 2013, 12:02:16 »
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Ne “L’origine dell’uomo” (1871) Charles Darwin propose una spiegazione dei comportamenti morali umani. Per lui derivano da istinti sociali innati che si sviluppano  nella prole insieme alle facoltà intellettuali durante la prima infanzia, periodo in cui si comincia ad apprendere le regole della convivenza con le altre persone. 

Per  molti anni la sua ipotesi rimase sterile, poi i progressi delle neuroscienze , della biologia evolutiva, della genetica, della paleoantropologia e dell’etologia cognitiva hanno dimostrato la validità della teoria darwiniana. 

Gli studi e le ricerche sullo sviluppo morale, che comprendono sia il giudizio morale sia il comportamento morale, hanno avuto nell’ultimo trentennio una notevole estensione, assumendo il carattere di un campo specifico di indagine e teorizzazione.

I primi studi sistematici furono dello psicologo, biologo e pedagogista svizzero Jean Piaget (1896 – 1980) che su questo tema nel 1932 pubblicò  il libro “Il giudizio morale del bambino”, riferito alla capacità dell’infante di valutare se un’azione è  moralmente lecita. Egli era convinto che alla base della moralità vi sia la nozione di regola, la quale indica il comportamento corretto nelle varie situazioni.

Un settore dove è possibile osservare se le regole vengano rispettate dai bambini è il gioco, che Piaget definisce “gioco di regole”. I bambini più grandi le seguono con più rigore e sono più consapevoli dei motivi per cui esse vanno osservate.
 
Basandosi sull'osservazione delle regole dei giochi e su interviste riguardanti azioni come rubare o mentire, questo psicologo scoprì che anche la moralità può considerarsi un processo evolutivo.

La prima morale del bambino è quella dell'obbedienza, e il primo criterio del bene è, per i più piccoli, la volontà dei genitori. Questo spiega perché la morale della prima infanzia venga denominata eteronoma.

Il bambino considera le norme immodificabili e sa che le regole non possono essere trasgredite, altrimenti viene punito, perciò sviluppa la sua morale aderendo alle regole, che applica nei comportamenti quotidiani: in famiglia, a scuola, con i coetanei e con gli estranei. 

Gli studi di Piaget e quelli del filosofo e pedagogista americano John Dewey sulla morale,  furono sviluppati successivamente dallo psicologo statunitense Lawrence Kohlberg (1927 – 1987), che nel 1957 pubblicò le sue ricerche nel libro titolato: “Lo sviluppo dei modi del pensiero morale e delle possibilità di scelta tra i 10 ed i 16 anni”.

Per Kohlberg la capacità di un individuo di ragionare sulle questioni morali si sviluppa in una sequenza a 6 fasi, ed è fondamentale il parallelismo tra gli stadi dello sviluppo intellettivo e quelli dello sviluppo del pensiero morale. Egli ritiene che tale sviluppo derivi dal progressivo ampliamento della comprensione delle caratteristiche delle azioni sociali proprie e degli altri.

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Re:Scienza e relativismo
« Risposta #36 il: Febbraio 24, 2013, 09:26:31 »
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Lo scambio emotivo ed affettivo del bambino con la madre o con la persona addetta al suo accudimento (caregiver) gli  favoriscono l'interiorizzazione delle competenze morali, che inizialmente sono collegate alle attività fisiologiche, come il ritmo sonno-veglia e l'alimentazione, successivamente si riferiscono alla regolazione dei processi interattivi.

In seguito i genitori comunicano ai figli le prime regole morali e sociali, spiegano loro cosa possono o non possono fare. Successivamente intervengono nella sua educazione altre agenzie educative:  l’asilo, la scuola, la Chiesa, ma anche  il gruppo dei pari.

L’’interiorizzazione delle norme, delle regole e dei valori  influiscono sul modo di agire, sul comportamento sociale, sui giudizi morali. 

Nell’individuo il criterio di giudizio deriva dalla “legge morale naturale” e dalla sua “coscienza”, detta “coscienza morale” nella Costituzione pastorale “Gaudium et  spes”: nel 16/esimo paragrafo c’è scritto che “Nell'intimo della coscienza l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell'intimità del cuore: fa questo, evita quest'altro. […]
“Quanto più, dunque, prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità.”

Jean Piaget distinse due fasi principali nel del giudizio morale:

la prima fase, indicata come “moralità eteronoma” (fino ai 6-7 anni), è  caratterizzata dall’applicazione delle regole imposte al bambino dai genitori, da altri familiari e dalla scuola;
 
la seconda fase è quella della “moralità autonoma”, fondata sull’adesione del bambino alle norme, alle regole ed ai valori dell’ambiente sociale in cui vive.

L’individuo impara le norme di comportamento morale attraverso l’osservazione e l’imitazione,  le esperienze positive e negative. 

Sigmund Freud era convinto che la formazione della coscienza morale dipendesse dalla costituzione del Super-Io, se questo è troppo rigido, l’Io ha difficoltà a strutturarsi e si creano nell’individuo le disposizioni per un orientamento nevrotico della personalità; in caso contrario, l’Io, incapace di sopportare discipline,assume atteggiamenti antisociali.

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Re:Scienza e relativismo
« Risposta #37 il: Marzo 01, 2013, 10:49:34 »
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Il distacco della morale dalla religione iniziò con il filosofo e giurista olandese Hugo Grotius (1583 – 1645), conosciuto in Italia come Ugo Grozio, considerato il fondatore del diritto internazionale basato sul diritto naturale, che prevede l'esistenza di un diritto universalmente valido fondato su una peculiare idea di Natura.

Grozio nel 1625 pubblicò un suo saggio titolato “De iure ac pacis”  nel quale scrisse che i princìpi universali  che derivano  dalla natura razionale dell’umanità costituiscono il diritto naturale, da lui considerato “una norma della retta ragione la quale ci fa conoscere che una determinata azione, secondo che sia o no conforme alla natura razionale, è moralmente necessaria oppure immorale, a prescindere da Dio autore della Natura. 

Nel ‘600 la morale era  ancora connessa con la volontà di Dio creatore, da cui venivano fatte derivare le regole di comportamento. Invece per la teoria groziana le norme dettate dalla ragione sono valide  a prescindere da Dio.  Attraverso tale approccio egli laicizzò il diritto sottraendolo alla tutela della teologia.

Il passaggio da una morale fondata sulla religione ad una morale fondata sulla natura ha l'elaborazione più compiuta con Immanuel Kant, il quale non elimina Dio, ma anche per lui non è il presupposto della morale.

La legge naturale si manifesta al credente o  al non credente, mediante l’attività raziocinante, che induce l’individuo a distinguere il bene dal male. 

Ogni sistema morale è basato sul concetto di bene e male, ma è difficile trovare nelle diverse culture due sistemi morali che concordino esattamente su questo concetto. Segno della estrema difficoltà a trovare un consenso universale. Bene e male sono relativi al tempo, all'ambiente, alle persone: ieri era un male quello che oggi è diventato un bene, e viceversa.

C’è la relatività storica nel praticare il bene e nell'evitare il male, ma  è indubbio che esiste per l'individuo di ogni tempo ed ogni cultura ciò che è "bene"  e ciò che è "male". Però l’etica laica, a differenza di quella religiosa, riconosce la varietà e la relatività culturale e storica delle affermazioni morali e di promuovere l’universalità di alcune regole.  Non ha criteri basati su testi cosiddetti “sacri”, non ha tradizioni da venerare o rappresentanti terreni della divinità che impongono la propria verità anche a chi non la condivide.

Il filosofo Karl Marx sosteneva che in ogni società la morale in vigore è quella delle classi dominanti. La classe borghese, detentrice dei mezzi di produzione materiale, detiene anche l'ideologia che giustifica questo possesso.  Per conseguenza il disordine morale non è collegato alle scelte individuali difformi dall'ordine sociale, ma è già dentro l'ordine sociale stesso.
« Ultima modifica: Marzo 01, 2013, 10:59:46 da dottorstranamore »

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« Risposta #38 il: Marzo 05, 2013, 10:13:50 »
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Il senso morale o coscienza è il più nobile di tutti gli attributi
dell’uomo e lo spinge senza la minima esitazione a rischiare la
propria vita per quella del suo simile, o spinto dal profondo senso
del diritto o della giustizia, a sacrificarla per qualche grande causa.

(Charles Darwin)

Nell'ambito della morale esistono due correnti fondamentali: quella laica e quella religiosa.

La morale laica è  formata da un insieme di valori che permettono la coesione di una società, senza il condizionamento religioso  e con un ruolo “al di sopra delle parti” accettabile da tutti. Essa deriva dal “secolarismo”, fenomeno  sociale che in Occidente ha allontanato l'individuo dal sacro e dal tradizionale sistema di valori di riferimento, basati sulla morale religiosa, rivolta a tutto l’agire dell’individuo.

La morale religiosa viene indagata dalla teologia morale e dalla filosofia etica.

La teologia morale ha la sua origine ed il suo fine nell’esperienza di fede, vuol rendere comprensibile la fede alla ragione,  esamina il significato, i valori e le norme dell’agire umano; aiuta il credente ad acquisire la consapevolezza delle proprie esigenze morali, lo aiuta a capire cosa deve fare per corrispondere al volere divino.     

Prima del Concilio Vaticano II la morale cattolica era di tipo precettistico e dipendente dalla prassi penitenziale.  Poi ci fu la crisi socioculturale della morale cattolica.

Tra la fine degli anni '60 e gli inizi degli anni '70 dello scorso secolo  il modello etico tradizionale cattolico fu contestato dalle giovani generazioni e dal femminismo, perché ancorato a valori tradizionali considerati immutabili, al principio di autorità, cui spetta stabilire ciò che è bene e ciò che è male.

Negli anni '70 dalla concezione etica di bene e di male si passò a quella politica di giusto ed ingiusto. Negli anni '80  si passò alla soggettività, alla valorizzazione dell’identità e della dignità personale, alla rivalutazione della sessualità, al rispetto delle differenze dell’altro, alla religiosità non solo formale ma sostanziale, vissuta con impegno.
 
Ma i limiti della soggettività sono l'individualismo e il relativismo morale.

Il relativismo sostiene che i nostri giudizi morali dipendono dal contesto in cui sono espressi. Ciò significa che un’azione  può essere considerata giusta in relazione ad una determinata cultura, ed ingiusta rispetto ad un’altra.

Esistono numerose morali che impediscono l’adozione di una morale universale ed  un solo sistema normativo.

La lettera enciclica  del pontefice Giovanni Paolo II “Veritatis splendor” (6 agosto 1993) esprime la posizione della Chiesa cattolica sulla condizione dell’individuo davanti al bene ed al male e sul ruolo della Chiesa nell’insegnamento morale. Risponde alle questioni di teologia morale riguardanti la capacità dell'individuo di discernere il bene, l'esistenza del male, il ruolo della libertà umana e della coscienza, del  peccato, l'autorità del magistero della Chiesa cattolica come guida.

L’enciclica contesta il relativismo morale e riafferma  la preesistenza di una verità morale, od ordine morale oggettivo, a cui l'individuo deve, con atteggiamento di obbedienza e subordinazione, rifarsi sempre nella formulazione dei giudizi morali. (? eeek)

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Re:Scienza e relativismo
« Risposta #39 il: Marzo 07, 2013, 14:51:15 »
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Etica

In questo topic nel 13/esimo post ho detto  che morale ed etica sono due lemmi concettualmente diversi, anche se spesso vengono  considerati sinonimi.

Il concetto di “morale” inteso come moralità, comprende regole di vita e di comportamento  che si basano su norme sociali  e valori condivisi in un determinato periodo storico.

Per  il filosofo  e storico scozzese David Hume (1711 – 1776) il criterio di distinzione tra bene e male non può essere deciso prima dell’azione, ma deve essere giudicato soltanto in funzione delle conseguenze che l’azione ha. L’utilità sociale è il metro di giudizio.

Invece nel concetto di etica c’è un contenuto filosofico, perché studia e valuta la morale, le norme condivise in una società,  esamina i fondamenti oggettivi e razionali che permettono di dare uno status deontologico ai comportamenti degli individui.
 
Il lemma etica deriva dal latino “ethica”; questa parola a sua volta  scaturisce  dai termini d’origine greca “etiké” (che fa riferimento al comportamento dell’individuo) ed “ethos”, che significa abitudine, consuetudini in una comunità.

L'etica può essere:

valutativa:
1) questa azione è giusta o sbagliata?
2) azioni di questa categoria sono giuste o sbagliate?
3) quali sono gli atteggiamenti o disposizioni buone (virtù)?

Descrittiva: se descrive i valori e le norme che governano la vita degli individui,  oppure l’omogeneità o la difformità dei singoli comportamenti nei confronti dell’ethos vigente in una comunità  in un determinato periodo storico

normativa (o prescrittiva): se stabilisce princìpi generali per l’agire moralmente corretto. Un atto è  moralmente corretto se non danneggia altri. 

L'etica normativa o applicata è quello della bioetica, nata come disciplina autonoma dopo che si è affermata la tendenza a dotare ospedali e istituti di ricerca biomedica di "comitati etici" variamente composti.
 
Le strutture fondamentali dell’etica normativa sono:

teleologiche (il lemma teleologia  è di origine greca ed è composto da due parole: “télos”, che significa fine, scopo, e “lógos”, =  ragionamento, discorso; è la dottrina filosofica del finalismo, che concepisce l’esistenza di una finalità non solo nella comune attività volontaria dell’individuo indirizzata alla realizzazione di uno scopo, ma anche nelle sue  azioni involontarie ed inconsapevoli che realizzano un fine.

Le strutture teleologiche dell’etica normativa hanno origine dall’”Etica nicomachea” di Aristotele.  Sono le etiche del bene o del valore (il bene è ciò che ha valore) od anche etiche del fine (perché il bene o valore scelto rappresenta il fine cui deve essere orientata la condotta umana).

Sono dette anche “consequenzialistiche” perché un’azione non è giusta in sé o per le intenzioni, ma diventa giusta in base alle conseguenze concrete che produce.

Le etiche teleologiche non sono delle guide dell’agire, ma funzionano come criterio di giudizio a posteriori, perciò  costringono a mirare al risultato migliore possibile, attenendosi alle regole socialmente condivise.

deontologiche ( dal lemma “deontologia”, che deriva dal greco "deon", significa "dovere"). Per deontologia s’intende l’insieme delle teorie etiche che si contrappongono al consequenzialismo, il quale determina la bontà delle azioni dai loro scopi; invece la deontologia afferma che fini e mezzi sono interdipendenti, perciò un fine giusto  dipende dall’utilizzo di giusti mezzi.   
Esistono azioni intrinsecamente giuste o sbagliate, indipendentemente dalle intenzioni o conseguenze. Il giudizio è espresso sull’azione compiuta e sul fatto che essa sia conforme o meno a norme e doveri.

Riguardo alla questione se sia prioritario il bene o il giusto, vi sono diverse teorie:

il liberalismo preferisce  l’autonomia del giusto rispetto al bene, per cui un’azione  è doverosa se  è conforme ad una norma giusta e se scelta in base ai princìpi di giustizia.

Per il comunitarismo la giustizia non è una questione di regole e procedure, ma qualcosa che concerne il comportamento delle persone rispetto ai propri simili, la giustizia è una virtù della persona.

Comunque penso sia illusorio immaginare che il giusto possa prescindere dal riferimento al bene.

Nuvolone

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Re:Scienza e relativismo
« Risposta #40 il: Marzo 07, 2013, 19:59:35 »
Abbiamo capito, Stranamore ! Se sei tanto convinto che il relativisto è entrato così intensamente in tutte le menti e in tutti i cuori, e che non tramonterà mai, perché ti affanni tanto a parlarne? Perché tanta propaganda?  :mah: ... 
« Ultima modifica: Marzo 07, 2013, 20:02:28 da Nuvoletta »

Doxa

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Re:Scienza e relativismo
« Risposta #41 il: Marzo 08, 2013, 08:26:55 »
Non propagando, metto in ordine i miei appunti virtuali e li scrivo come post nel forum per chi vuol leggerli. Sono consapevole di essere nozionistico, pertanto noioso, ma tale modalità di scrittura mi soddisfa perché a volte posso esprimere le mie opinioni.

Mia attenta lettrice oggi è la festa della donna perciò dono la mimosa a te ed alle altre signore del forum

« Ultima modifica: Marzo 12, 2013, 17:49:26 da dottorstranamore »

Doxa

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Re:Scienza e relativismo
« Risposta #42 il: Marzo 12, 2013, 17:55:39 »
Bioetica

Bioetica: è una parola composta di origine greca, formata da “ethos” (= comportamento, consuetudine) e “bios”  (= vita, organismo vivente con ciclo vitale che prevede la riproduzione della specie e la fine della vita).

Il lemma bioetica con l’attuale significato fu usato per la prima volta dall'oncologo statunitense Van Rensselaer Potter (1911-2001), Lo utilizzò nel 1970 in un articolo pubblicato sulla rivista dell'Università del Wisconsin "Perspectives in Biology and Medicine" con il titolo “Bioetica: la scienza della sopravvivenza”. Questo studioso scrisse l’articolo per  promuovere la riflessione  etica collegata alle problematiche dello sviluppo tecnologico e scientifico.

Successivamente alla bioetica venne assegnata l'indagine delle questioni suscitate dal progredire dalla ricerca biologica e medica, esaminate dal punto di vista dei valori e delle norme vigenti in una società. 

Attualmente la bioetica è la scienza interdisciplinare che studia gli aspetti etici e morali della vita e della salute;  coinvolge filosofia, filosofia della scienza, medicina, biologia, genetica, embriologia, religione, diritto ed altri rami del sapere.

Tematiche tipiche della bioetica riguardano l’aborto, l’accanimento terapeutico, l’utilizzo delle cellule staminali, la clonazione, la contraccezione, l’eutanasia, l’ingegneria genetica, la procreazione assistita, la sperimentazione clinica dei farmaci, la sterilizzazione, i trapianti d’organo, il suicidio.

Per alcune religioni, compreso il cristianesimo, la morte non rappresenta la fine della vita, ma un cambiamento, che avviene con modalità e significati diversi  a seconda della dottrina specifica.

I cristiani condividono la convinzione che la nostra vita, il creato dipendano da Dio, per  conseguenza ci sono problemi che coinvolgono la bioetica. Quella cattolica (contenuta nei documenti del magistero della Chiesa e negli studi della comunità scientifica che ad essa fa riferimento) ha come paradigma la sacralità ed indisponibilità della vita: ogni essere umano ha il diritto/dovere alla vita dal momento del suo concepimento a quello della sua morte naturale: l’individuo non è proprietario della sua vita perché gli è stata data da Dio, perciò sacra. L’indisponibilità della vita è connessa con la proibizione dell’aborto, l’illeceità del suicidio ed il rifiuto dell’eutanasia.

Invece la bioetica laica non considera  di origine divina la vita umana e consente agli individui di decidere sul proprio corpo. La visione laica, a differenza di quella cattolica,  non vuole imporsi a coloro che aderiscono a valori diversi. La libertà della ricerca, l'autonomia delle persone, l'equità, sono per i laici dei valori irrinunciabili.

Il professor Umberto Veronesi, oncologo, ha una visione critica della bioetica religiosa;  egli crede che questa impedisca di ragionare, perché la religione è integralista. “Scienza e fede non possono andare insieme –ha affermato l’oncologo- perché la fede presuppone di credere ciecamente in qualcosa di rivelato nel passato, una specie di leggenda che ancora adesso persiste, senza criticarla, senza il diritto di mettere in dubbio i misteri e dogmi che vanno accettati o meglio subìti.”   

Doxa

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Re:Scienza e relativismo
« Risposta #43 il: Marzo 14, 2013, 11:12:32 »
Bioetica/2

Nel 2009  l’Agenzia   italiana  del farmaco” (Aifa)  diede il parere favorevole all’utilizzo   della pillola  abortiva “Ru 486” (che  era già  commercializzata  in altre nazioni),  purché  in aderenza alla legge 194  che riguarda le interruzioni volontarie di gravidanza.  La decisione causò molte polemiche tra  politici,  ambiente scientifico  e quello  della Chiesa cattolica.

Dal Vaticano ci furono  molte proteste. Monsignor Elio Sgreccia, presidente emerito della “Pontificia Accademia per la Vita”, disse: “Per chi pratica l’aborto con la RU 486 e per chi lo prescrive c’è la scomunica, come per chi pratica l’aborto chirurgico”, perché  giuridicamente è un delitto  e moralmente è peccato.


Monsignor  Rino Fisichella, all’epoca presidente effettivo  della Pontificia Accademia della Vita, disse che la Chiesa non può assistere in maniera passiva a quanto avviene nella società. E quello che sta avvenendo è la banalizzazione della vita. L’introduzione del farmaco abortista non tiene conto degli aspetti etici, del messaggio distorto sul valore della vita che si dà alle nuove generazioni.  La pillola “Ru 486”  è una tecnica abortiva che sopprime una vita ed ha conseguenze canoniche per i credenti.

Il timor di Dio, le leggi, le norme e le regole sociali condizionano l’agire umano per paura delle sanzioni e la punizione dei comportamenti illeciti. 

Anche il centro di ateneo di bioetica dell'Università Cattolica,  scrisse in una nota che tra le cause del ricorso all’aborto la più rilevante non è quella economica, ma quella culturale, che ha portato al disimpegno della società, alla scomparsa della figura e della corresponsabilità paterna, che ha accettato una linea di indifferenza che di fatto conduce alla solitudine esistenziale delle madri che decidono di abortire.

Invece l’onorevole Livia Turco, che era capogruppo del partito democratico nella commissione “Affari sociali” della Camera dei deputati  disse:  "Spero che adesso finisca la crociata contro un farmaco che in realtà era una crociata contro le donne e i medici. Il timore di privatizzare e banalizzare l'interruzione di gravidanza e di lasciare le donne sole nasconde la sfiducia nei confronti delle stesse donne e dei medici. Ora è necessario garantire che questa metodica abortiva sia utilizzata nel modo più appropriato e nell'ambito della legge 194." 

Nella diatriba intervenne pure il poeta e filosofo Guido Ceronetti, il quale in “Insetti senza frontiere” scrisse: "Una coscienza che riflette non può che astenersi dal propagare la specie. Chi ha vera coscienza non può tollerare l'eccesso, lo straripare di dolore in un mondo dominato dalla dismisura umana, e frenare, limitare le nascite è innanzitutto un puro atto di compassione. I molti figli sono il frutto dell'ignoranza, dell'insensibilità morale e della bigotteria. L'incremento demografico provatevi a predicarlo nei reparti oncologici. Dare soldi perché si facciano figli è lo stesso che trafficare bambini.”

La popolazione mondiale ha superato i sei miliardi e mezzo di individui: una crescita inarrestabile che provoca povertà, mortalità infantile, peggioramento delle condizioni ambientali.

Doxa

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Re:Scienza e relativismo
« Risposta #44 il: Marzo 15, 2013, 14:36:46 »
Bioetica/3

Eutanasia: parola composta di origine greca:  significa “buona morte”, che può essere provocata con farmaci tossici (eutanasia attiva diretta) oppure con farmaci utilizzati per alleviare la sofferenza ed hanno come effetto secondario il decesso (eutanasia attiva indiretta). 

L'eutanasia è  detta passiva quando  è provocata dall'interruzione o l'omissione di un trattamento medico necessario alla sopravvivenza dell’individuo; è volontaria se eseguita su richiesta del soggetto in grado di intendere e di volere, oppure  mediante “testamento biologico”; non volontaria nei casi in cui non sia il soggetto ad esprimere tale volontà ma un terzo indicato.

Non si configura come eutanasia il rifiuto dell’accanimento terapeutico. Il medico, nei casi in cui la morte è imminente ed inevitabile, è legittimato (in Italia sia dalla legislazione che dal proprio codice deontologico) ad interrompere o rifiutare trattamenti gravosi per il malato e sproporzionati rispetto ai risultati che è lecito attendersi. Il secondo comma dell’art. 32 della nostra Costituzione afferma che: “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge“. In base a tale principio l’individuo capace di intendere e di volere non può essere costretto ad un trattamento sanitario seppure indispensabile alla sopravvivenza. Anche da un punto di vista etico la rinuncia ad un intervento necessario alla sopravvivenza si configura come suicidio e non come eutanasia.

Nel suicidio assistito l’individuo sceglie di togliersi la vita somministrandosi  da solo le sostanze in modo autonomo e volontario, secondo indicazione medica. 

L’eutanasia è tema di vivace dibattito internazionale e di controversie per motivi etici e religiosi, scientifici e legislativi.

Fu il filosofo inglese Francis Bacon  a creare il neologismo "eutanasia", usato nel saggio  “Progresso della conoscenza”, pubblicato nel 1605. In tale libro Bacon invita i medici a non abbandonare i malati inguaribili, e ad aiutarli a soffrire il meno possibile fino alla morte, che comunque doveva avvenire in modo naturale e non provocata.

Nel nostro tempo l’eutanasia volontaria è considerata da molti un fondamentale principio democratico: l’individuo deve essere padrone del suo corpo; se una grave malattia lo fa soffrire molto, nonostante la terapia contro il dolore, deve essere libero di decidere il proprio decesso.  Per un soggetto può essere insostenibile anche la sofferenza psichica conseguente alla perdita della propria indipendenza: se non ha la possibilità di vivere in modo dignitoso, se non vuole la sua vita soltanto “vegetativa” e non vuole dipendere dall’aiuto altrui per lungo tempo.

La Chiesa cattolica è contro l'eutanasia,  la considera  equivalente all'omicidio od al suicidio.

Nella Costituzione pastorale “Gaudium et spes”, emanata dal Concilio Ecumenico Vaticano II nel 1965, viene citata l’eutanasia nell’ambito dei diritti ed i valori inerenti la persona.

Il 5 maggio del 1980 la “Sacra Congregazione per la dottrina della fede”  ha pubblicato la “Dichiarazione sull’eutanasia”, in cui riafferma la sacralità della vita umana e dice che nessuna autorità può imporre l’eutanasia, perché si vìola  la legge divina. Ma se un malato è non credente perché deve accettare l’imposizione religiosa ? Perché la gerarchia vaticana deve condizionare lo Stato italiano a non emanare una legge specifica come in altri Stati e indirettamente costringe al suicidio violento tante persone che non vogliono soffrire ?

Nell’anno 2000 la Pontificia Accademia della Vita  tornò sull’argomento dicendo:”Nell'immediatezza di una morte che appare ormai inevitabile e imminente "è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita" (cfr Dich. su Eutanasia, parte IV), poiché vi è grande differenza etica tra "procurare la morte" e "permettere la morte": il primo atteggiamento rifiuta e nega la vita, il secondo accetta il naturale compimento di essa.”

Il filosofo inglese David Hume nella raccolta di scritti morali (pubblicati anonimi nel 1777 dopo la morte dell’autore), contesta la morale religiosa e la sua pretesa di limitare la libertà individuale inculcando il timore dell’inferno, la speranza della vita eterna nel paradiso