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Post - dorotychecorre

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Sentimentale / Re:Beatrice
« il: Luglio 03, 2012, 08:12:06 »
Anche voi mi siete mancati molto. Grazie mille per il tuo commento, è sempre una gioia per me sapere che mi hai letto con la tua consueta sensensibilità. Grazieancora. Doroty
 

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Sentimentale / Beatrice
« il: Luglio 02, 2012, 23:16:47 »

Beatrice


Beatrice sonnecchiava mentre l’oratore continuava a cantilenare la sua soporifera sapienza. “E’ un uomo attraente”  pensò, tanto per dare ai suoi occhi un valido motivo per rimanere aperti.
“ La cultura Maya, a differenza di quella Azteca…”, non era tanto quello che diceva a non essere interessante ma quella sua fissità da psicofarmaco, da lifting estremo, quell’umettarsi le labbra fuori tempo, nel bel mezzo della frase, che provocava una rovinosa caduta massi delle sue parole, un avvitamento del senso, un punto e a capo sfiancante senza nemmeno l’oasi dei tre puntini: Basta. Me ne vado.
 Beatrice se ne andò, senza riuscire a non farsi notare. Ecco una cosa che proprio non le riusciva: passare inosservata.
Era maldestra, continuamente in rotta di collisione con persone, oggetti, animali e perfino con se stessa. Forse per questo aveva scelto di diventare archeologa
“Mi trovo più a mio agio con i morti che con i vivi” continuava a ripetere, suscitando un’ilarità che non finiva mai di stupirla:
  Che ho detto di tanto divertente? si chiedeva.  Lei era così e il mondo continuava a franarle addosso senza chiederle scusa, anzi, ostinandosi a ripeterle: “E stia un po’ più attenta.”
Beatrice se ne tornò a casa. Aveva ancora  dieci giorni di ferie da dover vivere con i vivi prima di poter tornare ai suoi scavi, nei suoi mondi sotterranei, dove poteva finalmente rallentare e trovare il suo vero ritmo, quel “ maneggiare con cura”  più adatto alla sua sensibilità assorta, visionaria.
Era entrata da poco in casa, una casa enorme dove la sua goffaggine la smetteva finalmente d’inciampare, quando sentì bussare alla porta. Strano, non aspettava visite. Aprì sbadatamente, senza chiedere chi fosse, era curiosa: chi poteva essere a quell’ora?
Cloe era alta 1,20 circa, aveva i capelli rossi, lunghi fino alla cintola dei suoi jeans con le toppe ricamate, le mani a riposo nelle tasche del pullover blu con il cappuccio.
“Mia madre non risponde, posso guardare dal suo balcone se per caso è fuori a stendere i panni?”
Beatrice la guardava come se fosse il fantasma di Ramses II.
“Allora, posso?”
“Certo, certo” e finalmente si spostò per farla entrare.
Proprio in quel momento due carabinieri uscirono dall’ascensore accompagnati da Albino.
“Sei qui Cloe? Questi due signori ti devono parlare” sorrideva Albino, senza riuscire a dissimulare la sua preoccupazione: era chiaramente sconvolto.
La bambina non si mosse. Beatrice continuava ad urtare contro lo stipite della porta nel tentativo di guadagnare qualche centimetro di pianerottolo alla sua visuale. Sarebbero potuti rimanere così per sempre se non fosse intervenuto il portiere:
“Signora Beatrice permettete che entriamo un momento? Non sono cose da dirsi sul pianerottolo”. Sorrideva bonario ma ormai era chiaro a tutti che quel giorno, quel tempo, non era più un tempo qualunque.
Entrarono in casa. Si accomodarono nell’ampio salone abbracciato da una libreria che costeggiava completamente il muro sia in altezza che in lunghezza: un’opulenza letteraria avvolgente. Scorreva una cascata di parole,  silenziosamente, ininterrottamente, da quella parete a terrazze, mentre piccole grotte naturali, dove il fruscio di quell’acqua forse arrivava un pò più smorzato, accudivano antiche  creature di carta.
I carabinieri capirono improvvisamente di trovarsi a casa di un’intellettuale, una scrittrice forse. Si aggiustarono istintivamente il colletto della camicia con il pollice e l’indice a pinza, sollevandosi leggermente sulle punte, quasi all’unisono.
Beatrice e Cloe sedettero sul divano rosso e i carabinieri sulle due poltrone di fronte. Albino preferì una sedia: sudava. Eppure era ottobre, un bell’autunno ambra, bronzo, carminio, oro, stava vivendo silenzioso oltre la finestra chiusa su quell’insolita riunione.
Dal racconto dei due carabinieri gli altri tre appreso qualcosa che li riguardava.
Cloe apprese che non avrebbe rivisto la madre per almeno dieci giorni.
Albino apprese che la signora in questione era scivolata, quella mattina stessa mentre si recava al lavoro, sul suo bell’androne lucido. Zoppicando, si era trascinata  al suo lavoro di colf poco distante, ma una volta lì, era stata immediatamente accompagnata all’ospedale. Frattura multipla, tibia e perone.
Beatrice apprese che la bambina non aveva parenti o amici a cui poter essere affidata durante la degenza della madre: sembrava impossibile ma la signora stessa aveva indicato proprio lei come unica possibile baby-sitter temporanea.
 La donna, argentina, vedova di  un uomo a cui Cloe doveva il colore dei capelli, viveva in Italia da sola, niente parenti, pochi amici. Se Beatrice rifiutava bisognava avvisare i servizi sociali.
Tutti, alla fine di quel breve ordinato resoconto, in un silenzio affollato di parole, guardarono Beatrice.
Albino la supplicò in silenzio di accettare e liberarsi al più presto dei carabinieri. Quella faccenda delle due gocce di cera sull’androne scottava sulla sua coscienza come un pollo sullo spiedo.
Cloe la supplicò in silenzio di accettare. Non voleva che fossero avvisati i servizi sociali, non sapeva nemmeno cosa fossero per la verità, ma la madre le aveva insegnato a non andare con gli estranei e i servizi sociali rientravano in quella categoria.
I carabinieri la supplicarono in silenzio di accettare. Era quasi ora di pranzo dopo tutto, perché complicarsi la vita con tante inutili scartoffie.
Insomma, nel rovescio di quel silenzio si era acceso un tifo da stadio, un clamore di piazze, uno strepito da fan di rock-star: tutti pazzi per Beatrice.
Beatrice si alzò. La ruggine primaverile splendeva sulle foglie umide del platano: pioveva silenziosamente.
Voleva dire di no ma finì col dire qualcosa che sembrava si.
I giorni che seguirono furono più semplici del previsto,  la presenza di Cloe era  solo una leggera increspatura sull’acqua della vita solitaria di Beatrice.
Cloe governava la sua vita di dodicenne con autorevolezza: il tempo, l’igiene personale, i compiti, la strada per andare e tornare da scuola, apparecchiare, sparecchiare, i panni sporchi, le visite alla madre, persino stirare e lavare i piatti avrebbe potuto fare da sola ma la governante di Beatrice non lo avrebbe mai permesso. Cloe allora le faceva  compagnia,  solo lei la capiva perché parlava spagnolo.
Cloe era una presenza leggera, una foglia autunnale luminosa dopo la pioggia, salda come quel vecchio ultimo platano.
Una sera Beatrice stava leggendo, mentre la bambina faceva i compiti seduta dietro l’enorme tavolo barocco situato al centro dell’ampio salone.
Beatrice sollevò lo sguardo dal suo libro e vide che Cloe, assorta, stava cercando qualcosa su di un vecchio vocabolario senza copertina.
Si ritrovò all’improvviso lei, dietro quel tavolo, a otto anni, a fare i compiti sotto la guida del padre.
La stanza avvolta dalla nicotina e il catrame bruciato. La bocca di fuoco dell’ eterna sigaretta del padre le si parò davanti agli occhi con la solita audacia disgustosa. Mellifluo fumo, voce melliflua, apparentemente bonaria ma insolente, apparente amore nell’insolenza delle mani, audaci, oscene.
Fittizio padre, invisibile orco. Le foglie cadevano, gocce silenziose, anche quel pomeriggio d’autunno.
Beatrice piangeva con il libro aperto sulle ginocchia, ancora sospesa tra due vite.
Cloe se ne accorse per caso, così, forse sollevando un attimo la testa o forse il dolore emette qualche suono sommesso, ma insomma, la vide. Corse ad abbracciarla.
Mangiarono la pizza quella sera e bevvero anche la birra, tanto il giorno dopo era domenica. Dovevano solo andare all’ospedale a prendere Isabela, la mamma di Cloe: tornava a casa.
   








PRIMAVERA





Non la smettevano più di discutere sul colore da dare alla parete.
Gli operai avevano appena finito di smontare la libreria, erano visibilmente esausti.
Vinse Cloe, come al solito: la mura bianche e il soffitto rosa. Il divano rosso e quell’enorme tavolo barocco arrogante sembrarono di un altro mondo adesso, niente a che vedere con quel cielo rosa appena immaginato.
Era il dieci marzo, avevano dieci giorni di tempo, Cloe compiva tredici anni il venti di quel mese, stavano preparando la festa di compleanno.
Dopo la festa, Beatrice mise sulla scrivania nuova quella foto regalo di Cloe:era un fiore di loto bianchissimo che emergeva da uno stagno fangoso. 
























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Sentimentale / Re:Isabela
« il: Giugno 09, 2012, 18:11:54 »
Sono veramente commossa dalle vostre parole così potenti, profonde. Grazie di cuore, mi avete dato una grande gioia. Grazie.

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Sentimentale / Re:Isabela
« il: Giugno 09, 2012, 18:10:16 »
Sono veramente commossa per le vostre parole così potenti, profonde. Grazie di cuore, sono veramente molto felice. Grazie.

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Sentimentale / Re: Ludovica
« il: Ottobre 28, 2011, 14:13:42 »
E' proprio quell'azzurro... Che meraviglia avere degli amici di penna come voi. Grazie a tutti. Grazie davvero. Doroty

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Sentimentale / Re: Isabela
« il: Ottobre 28, 2011, 14:12:09 »
Che bel commento, grazie di cuore. Doroty

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Sentimentale / Re: Ludovica
« il: Ottobre 26, 2011, 18:09:17 »
Grazie, ci sei sempre e questo mi da una grande gioia. Grazie

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Sentimentale / Ludovica
« il: Ottobre 23, 2011, 15:52:08 »

Ludovica



Lo guardava vestirsi come un officiante meticoloso. Era seduta sul bordo del letto. Non poteva fare niente per lui così, si mise a seguire la lenta discesa di una goccia d’acqua sui vetri: l’ultimo scroscio di pioggia l’aveva lasciata lì, sola, come un’invitata di una festa finita all’improvviso.
Suo marito uscì mentre lei era ancora seduta sul bordo del letto.
“ Oggi non vado a lavorare”; quella possibilità balenò all’improvviso nella sua mente.
“ Non vengo oggi, ho la febbre” disse al telefono. Si vestì in fretta. Uscì.
Il bar di Luigi era ancora chiuso, da tre giorni ormai,  strano, è scappato anche lui, pensò. L’assenza di Luigi le fece sentire più forte la sua inadeguatezza: anche lei non era dove avrebbe dovuto essere.
Recuperò la sua auto dal garage, si diresse verso il litorale. Non viaggiava su quella strada da molto tempo. Fu felice di ritrovarla intatta, così come l’aveva archiviata nella sua memoria: sei anni sono molti anche per la vita di una strada, sei anni possono cambiare qualunque cosa, bastano anche sei giorni o sei minuti a volte.
Si ritrovò davanti a quella porta. Ci era arrivata senza averlo neanche deciso. I ricordi le vennero subito incontro come cani festosi. Bussò. Attese.
 La vecchia governante aprì, la guardò. Non la vedeva da sei anni. La fece entrare.
“Zia Ester come sta?” chiese
“ Quasi sempre seduta sulla sua poltrona negli ultimi tempi. Non ha niente di particolare, il dottore dice che è solo stanca.”
“Adesso sa di Lorenzo?”
“ No. Mi dispiace per suo fratello signorina, mi è dispiaciuto molto.”
Chiese di vederla.
Percorsero l’ampio corridoio, poi la scala. Oltrepassarono due finestre, aperte sul chiacchierio degli alberi e del vento appena venuto dal mare. Arrivarono davanti ad una porta socchiusa. La governante la guardò per un attimo lunghissimo. Perché era lì? Dopo tanto tempo. Se ne andò.
Dormiva. Di spalle alla porta, rivolta verso la finestra. Zia Ester dormiva. Ludovica le si sedette accanto, meravigliandosi di tutto lo spazio che quel piccolo corpo lasciava vuoto. L’accarezzò a lungo, le raccontò tante cose, a bassa voce, concitatamente, come faceva quando era piccola e non vedeva l’ora di essere consolata.
Zia Ester era bravissima a consolare i bambini cantando:

C’era una volta un drago
 Che cadde dentro un lago
 Fece una capriola
 E si schiarì la gola

La cosa lo fece ridere
Ma ridere di cuore
Non pianse neanche un po’
E il dolore gli passò

Ludovica si assopì e quel sonno fu come un punto alla fine di un lungo periodo. Uscì dal suo tempo per entrare in un tempo rallentato, denso, il tempo in cui viveva zia Ester. Quando si svegliò la vide seduta sulla poltrona di fronte alla finestra ma non guardava fuori, guardava lei e sorrideva, per niente meravigliata di vederla lì.
“Lorenzo non è venuto?”
“No zia Ester, non verrà. Ti va di fare una passeggiata sulla spiaggia?”
“Che ore sono?”
“Mezzogiorno.”
Era bella seduta su quel grande sasso di fronte al mare. C’era stato un tempo in cui Ludovica era talmente piccola da potercisi nascondere dietro, rannicchiata. Lorenzo non la trovava mai quando si nascondeva lì.
“Lorenzo non è venuto?”
“No zia Ester, non verrà.”
 “Ho sognato che Lorenzo era furioso con te perché avevi rotto il violino: lo hai rotto veramente?”
Non suono più. Avrebbe voluto dirglielo. Zia Ester Lorenzo è morto. Il suo violino e il mio violoncello sono chiusi da qualche parte adesso. Lorenzo è morto e con lui zio Valerio, tuo marito. Stesso incidente. Tu non ti ricordi. La notizia della morte di tuo marito, dicevano i medici, ti aveva smarrita. E’ facile smarrirsi senza luce. Le persone come Lorenzo e zio Valerio se ne stanno lì, con quella loro meravigliosa grandezza, con tutta quella luce che gli avanza, leggeri come grappoli di lucciole. Quando si spengono non c’è più rimedio alla notte nel loro mondo, le tenebre divorano velocemente anche l’ultimo avanzo della loro luce. Ci siamo persi in questo buio: io, tu, i miei genitori; a proposito, si sono separati, li vedo poco. Io mi sono messa dentro una vita qualunque, come un vestito tirato su in fretta, il tempo di chiudere una lampo, un lampo, corto circuito di una vita e il dolore piegato piccolo in qualche angolo del cuore, sperando di dimenticarlo lì, sotto un cumulo di altri ricordi.
Zia Ester, sono finalmente qui, a srotolare il mio passato, a ricordarmi chi sono, ho capito che se apro gli occhi la notte si rischiara.
La sentì tremare, capì che doveva riportarla a casa.
La riaccompagnò alla sua poltrona.
“Ludovica”
“Si”
“Lorenzo verrà con te la prossima volta?”
“No zia Ester non verrà”
S’incamminò verso la porta, le sembrava di aver lasciato il filo del suo aquilone.
“Ma io tornerò, non volare troppo lontano perché io ritornerò.”
Zia Ester guardava il mare ora. Un pianeta azzurro apparentemente sempre uguale di cui lei conosceva ogni increspatura. Da qualche tempo stava studiando di quanti colori può essere: azzurro, blu, indaco, cobalto, bianco.
C’era un azzurro, che il mare indossava pochi attimi dopo certe albe. Era poco più di un’ombra: bisognava avere occhi attenti e una certa esperienza per riuscire a scoprirlo. Lei lo aveva visto dopo tanto tempo che scrutava.
Lo vide un giorno e la dolcezza di quella visione non le lasciò dubbi sul nome da dare a quell’azzurro.

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Sentimentale / Re: Isabela
« il: Ottobre 16, 2011, 09:50:36 »
E' la fragilità della condizione umana che mi colpisce e che forse cerco di esorcizzare scrivendo. Grazie per essere passato da qui.

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Sentimentale / Isabela
« il: Ottobre 12, 2011, 14:24:03 »
Isabela

Isabela aveva una figlia di dodici anni, Cloe, e faceva la colf ma non era l’unica cosa che sapeva o avrebbe potuto fare.
 In Argentina era stata architetto. Solo laureata, con nessuna esperienza, ma se lo ricordava molto bene  adesso come si era sentita ad indossare quel nome: architetto. Indimenticabile come la carezza di un vestito di seta o il corpo di un amante avvinghiato al suo: si era sentita desiderata dalla vita, invincibile.
Quell’uomo italiano con i capelli rossi lo aveva conosciuto una sera a Buenos Aires. Stefano, commerciante di vini pregiati, si trovava in quel locale per lavoro, forniture. Quando la sentì cantare si stava avviando all’uscita.
Lei cantava in quel locale per divertirsi, senza nessuna ambizione di notorietà, forse per questo metteva dentro ogni canzone quel diluvio spensierato di energia. La musica accendeva il velluto nero dei suoi occhi, si riversava nelle anche solide e prima d’invadere tutto attorno a lei, esplodeva nel guizzo rosso di quella bocca sfrontata.
Cantava e ballava il flamenco nella terra del tango: tipico del suo carattere imprevedibile.
Stefano aveva quarant’anni, lei venticinque. Un corto circuito di desiderio, assoluto, oscurò tutto il resto e crebbe fino al delirio, all’amore consumato ovunque, ai tentativi inutili di estinguere quella fame.
Si sposarono dopo due anni, dopo tre nacque Cloe. Aveva i capelli rossi.
Stefano la guardava dormire, poi portava con sé per strada, al lavoro, quella piccolezza morbida, quell’odore di borotalco, l’immagine di quella bocca avida attaccata al seno.
Cloe era divenuta uno strato di lui, del suo carattere, del suo nuovo sguardo sul mondo.
Isabela si prendeva cura di “quei due con i capelli rossi” come le piaceva chiamarli ma trovò anche il tempo per aprire un localino; la sera accoglieva avventori a cui piaceva vederla ballare, sentirla declamare poesie e cantare “ Gracias al a vida que me ha dado tanto”.
Cloe cresceva in una grande famiglia di nonni, zii e zie, cugini, amici. Sembrava a suo agio in quel chiacchierio continuo, in quella lingua dolce come una nenia cantata.
Ma il padre per lei era altro: loro erano “quei due dai capelli rossi”, quasi superstiti di un’antica progenie estinta.
Cloe aveva tre anni quando Stefano si ammalò.
Giorno dopo giorno, medico dopo medico, cura dopo cura dopo farmaco dopo speranza dopo tutto, Stefano chiese ad Isabela:
 - Voglio tornare a casa Isabela, portami in Italia.
Si spensero le luci del locale. Si spense la musica. Si spense il chiacchierio argentino.
Lo avrebbe portato ovunque lui volesse. Isabela non aveva più quella furia dentro, quel suo turgore di vita iridescente. Aveva spento il corpo, il cuore, la pelle, qualunque cosa potesse ricordarle che lei era viva e Stefano stava morendo.
Divenne una macchina, incapace di sentire la fatica, giorno e notte si occupava del marito e della figlia. Come un volontario accorso sul luogo di un disastro, scavava nelle macerie della sua esistenza, mortificata da quell’improvviso voltafaccia della vita.
I genitori di Stefano erano morti, era rimasto solo una fratello che gli lasciò la casa dei genitori in via Porto di fronte al mare, e se ne andò a vivere altrove.
Rimasero soli.

Una sera Cloe si era appena addormentata e Isabela stava riordinando in cucina. Sentì Stefano che la chiamava. Accorse.
Era seduto sulla sua poltrona, la pancia gonfiata dalla cirrosi, come una marea che avanza da dentro e dissolve le forme umane, spalancandole come scatole aperte svuotate di vita.
- Stefano sono qui.
Lo accarezzò, gli baciò gli occhi colorati sinistramente dall’ittero, si sedette sul bracciolo della poltrona: guardavano le luci galleggianti sull’acqua del porto.
- Isabela
- Si
- Faresti una cosa per me?
- Certo
- Balleresti come quando ti ho conosciuta?
Isabela sorrise. Era talmente lontana quella ragazza spudorata, faceva quasi fatica a ritrovarla nella sua memoria.
- Isabela, balla per me ti prego.
Capì in quel momento quanto fosse stanca, disperata, con le mani screpolate, il grembiule da cucina, le forcine nei capelli.
- Balla per me, amor de mi vida
Si alzò. Aveva cento anni. Si tolse le scarpe, il grembiule, lasciò andare i capelli, mise su quel vecchio disco, spostò la poltrona verso il centro del salone: il suo proscenio.
Non era mai stata così bella. Lentamente la vita si rimpossessò dei suoi piedi nudi, delle sue gambe, cosce, sesso, natiche, ventre, seni, braccia, collo, bocca e infine, occhi.
Il velluto nero profondo dei suoi occhi si riaccese. La musica ridestava lentamente quel corpo, s’ingrossava dentro di lei, si divertiva ad inarcarla, a scuoterla con lampi di accordi rasgueados, strappati. Era solo musica adesso, solo vita, solo respiro, una cosa sola con quell’uomo che stava danzando con lei ora. S’immaginava in piedi, le cingeva la vita, intrecciava le sue mani, seguiva lo scalpitio fulmineo dei suoi piedi nudi.
La musica li schiacciava uno contro l’altro, li sollevava sul tetto dell’onda sonora e poi giù giù fin nelle viscere della vibrazione, sbalzati fuori solo all’ultimo, all’ultimo momento, nell’ultimo salto, nell’ultimo salto ansante.
Quando la musica tacque, Stefano sembrava assopito. Sorrideva.

















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Sentimentale / Re: Poeta senza nome
« il: Ottobre 08, 2011, 16:17:00 »
Io amo molto gli alberi, credevo di amarli in una maniera speciale ma dopo aver visto i loro sogni fuggire prima che il giorno li spettini... è veramente incantevole il tuo sentimento per gli alberi. doroty

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Sentimentale / Re: Inverno 1949
« il: Ottobre 05, 2011, 16:50:59 »
Provo rispetto per questo tuo pezzo di memoria, un profondo rispetto.

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Sentimentale / Re: Quinta elementare
« il: Ottobre 05, 2011, 16:48:42 »
Le tue storie sono così belle, piene del sapore di un tempo nemmeno tanto lontano eppure così remoto a causa della velocità inaturale impressa ai nostri tempi da una quantità di circostanze e mode e abbagli culturali vari. Mi piacerebbe raccontarle ai miei bambini così tecnologici eppure così assetati di storie e sentimenti non virtuali. Se solo tu mi dessi il permesso...

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Sentimentale / La matta
« il: Ottobre 05, 2011, 16:44:59 »
Glauco


Lo aveva pregato il padrone di casa, la sera prima al telefono:
 - Albino per favore puoi dare una sistemata all’appartamento del terzo piano? Si, quello vuoto. No, l’ho solo fittato, per sei mesi, forse un anno, poi si vedrà. Arrivano fra cinque o sei  giorni, da Milano. Le chiavi ce le hai. Fammi questa gentilezza, poi passo io per ripagare  il tuo disturbo. D’accordo. Ciao.
Lo accolse l’odore di polvere. Non avrebbe saputo spiegare che odore ha la polvere, ma la riconosceva. Gli venne da pensare la polvere è l’inquilina delle case vuote.
Aveva ragione, la polvere si distende nelle assenze, è un’assenza scandita, contrappunto di aria e tempo, abbandono punteggiato dai minuscoli granelli dei pensieri, dalle attese.
Albino rimuoveva quel manto pesante come un incantesimo; liberava il pavimento, lavava i lampadari a gocce ora lucide, come foglie dopo la pioggia, rianimava qualche vecchio mobile spaiato e cadente.
Albino pulendo creava. Non aveva avuto figli,  non sono venuti diceva, come se veramente li avesse attesi sull’uscio di casa. Lustrando generava; dopo che lui aveva pulito, sembrava tutto nuovo, appena nato. Albino generava freschezza.
Quando ebbe finito si fermò un momento a guardare quella casa, ad immaginare i suoi nuovi inquilini: come potevano essere fisicamente? Di cosa avrebbero potuto avere bisogno?
Albino era un uomo gentile e a suo modo ambizioso. I suoi condomini erano persone importanti: un avvocato, un’archeologa, due dottori, un professore, insomma, gente al servizio di grandi cause. Servire loro o a loro, significava entrare a far parte di quella grandezza. Lui era un uomo che dal suo minuscolo punto di osservazione percepiva la vastità e complessità della vita: aveva uno sguardo pieno di meraviglia.
Cercava di spiegare tutto questo ad Elena, sua moglie, ma nei suoi occhi leggeva il limite, era disposta ad aiutarlo ma non ad emularlo.
Elena svolgeva i suoi compiti alacremente, allegramente, tutta la sua vita era una strada dritta come i suoi capelli lunghi raccolti nella crocchia perpetua.
Solo una volta aveva alzato la voce con la vita: per quell’aborto. Suo figlio era venuto nella sua pancia e lei si era sentita piena, da dentro, completa. Poi una notte il dolore, il sangue, tanto sangue, la corsa in ospedale, tutte quelle luci, poi più nulla. Il suo ventre al risveglio era una casa abbandonata.
Un giorno se ne andò al paese, doveva aiutare una cugina a pulire casa perché si sposava.
Arrivò presto, trovò le chiavi nella buca delle lettere come d’accordo con la parente.
Entrò. Le venne incontro una casa completamente vuota, imbiancata da poco, nemmeno un chiodo, l’orma di un quadro, un batuffolo di polvere in un angolo. Niente. Non era pulita era vuota. Elena fu sopraffatta da quel nulla. Quando si accorse che stava piangendo stava già singhiozzando, forse urlando.
Seduta a terra, con il suo bagaglio enormemente piccolo in quello spazio smisurato: la cugina la trovò così.
 Fece finta di nulla, era troppo complicato quello che vedeva in lei in quel momento.
Si salutarono e si misero a pulire.
Albino sentì una fitta alla schiena. Era stanco. Decise che poteva bastare.
Chiuse la porta e se ne tornò a casa. Il pranzo doveva già essere pronto a quell’ora.


Arrivarono il giorno dopo di buon’ora.
A quell’uomo tutti i pacchi sparsi sul pavimento fecero una strana impressione: gli sembrarono treni deragliati i cui vagoni, divelti da qualche brutale forza sconosciuta, nascondevano chissà quali inenarrabili resti. Si addentrò nel labirinto scomposto di custodie di cartone abbottonatissime, nelle loro sciarpe integrali di scotch: pudori incomprensibili di carta gommata. Sospirò, erano troppe. Venne a salvarlo l’armata Brancaleone della Ditta Traslochi. Gli sembrarono uomini primitivi con le carcasse delle loro enormi prede gettate sulle spalle. Non capiva niente di quello che a gran voce non la smettevano di urlarsi: grugniti, urla di guerra, fischi forse di segnalazione, per l’avvistamento di pericoli o di prede succulente.
Un milanese a Salerno, via Porto 106, nel giorno del suo trasloco. Era un uomo piuttosto magro, alto, che riusciva a portare con una disinvoltura ammirevole quel nome che lo sovrastava come un enorme cappello: Glauco, omaggio della mamma a Glauco Mari e alla sua delirante passione giovanile per il teatro.
Nel pomeriggio del giorno dopo aveva già appeso l’ultimo abito. L’efficienza milanese imparata e il gusto minimalista naturale del suo carattere, avevano avuto rapidamente ragione del caos primigenio del giorno prima. Le sue due stanzette più servizi erano sistemate: camera da letto, studio, accessori. Lineare e sufficiente per realizzare la sua missione in quel luogo.
Lo squillo del cellulare lo sorprese:
“Allora, ti sei sistemato?”
“Si, tu a che ora arrivi?”
“Domani mattina, 10\10.30”
“D’accordo.”
“Stai bene?”
“Credo di si. Tu?”
“Sto bene, sto bene.  A domani allora.”
“Ti aspetto.”


Riccardo era il giorno, Glauco la notte, Riccardo il proscenio, Glauco le quinte, Riccardo il fuori, Glauco il dentro di quelle loro vite simbiotiche. Il fatto che fossero fratelli e gemelli era un dettaglio che da solo non poteva spiegare tanto leale attaccamento. Era stato qualcos’altro ad instillare nelle loro anime quel sentimento da commilitoni in trincea.
Lo squillo del cellulare lo irritò, stava guardando il mare ora, non aveva mai avuto un orizzonte di acqua e scaglie di luce, aveva vissuto sempre a Milano a differenza del suo fratello vagabondo.
“Ciao nonna, come stai?”
“Sono un po’ preoccupata per voi”
“Sto bene nonna non ti preoccupare”
“Il nonno parte stasera, arriverà domattina”
“Anche Riccardo”
“Quando andrete lì?”
“Domani”
“Fammi sapere, poi.”
“Si nonna, d’accordo. Ti bacio, ciao.”
Tornò al suo nuovo orizzonte, come a riprendere un dialogo interrotto, come in attesa di qualche rivelazione. Si ricordò del motivo per cui era lì.
Sua madre era matta. Così gli gridavano a scuola quand’era piccolo:  Tu sei matto, come tua madre. Matto! Matto!
Riccardo li prendeva a calci e pugni. Lui niente, rimaneva muto, piangeva solo quando Riccardo le prendeva e lui non sapeva aiutarlo.
Il padre era morto giovanissimo, Glauco se lo ricordava appena, come una parola di un’altra lingua, poco usata, sempre un po’ estranea.
La madre matta era ricca. Ricca e matta.
Tanto matta da svegliarli nel cuore della notte e trascinarli fino all’alba per strada, per sfuggire a chissà quale spettrale creazione della sua mente. Tanto matta da lavarli di continuo, da buttare via il cibo cucinato dalla governante o le buste della spesa se per caso sfioravano il pavimento. Tanto matta. Da convincerli a non raccontare niente delle loro vite: erano vittime di un complotto, i loro nemici volevano dividerli, portargli via la loro bella casa e per fare questo non avrebbero esitato ad ucciderli. Tanto matta.
La realtà per lei era un mondo abitato da forme gelatinose, pronte alla minima pressione a cambiare forma e a rivelare le maschere grottesche dell’orrore, del disfacimento delle loro umane sembianze.
Avevano otto anni Glauco e Riccardo quando la madre fu ricoverata perchè urlava qualcosa per strada. Non la videro più.
Furono estratti dalle sue viscere un’altra volta ma vennero al mondo senza la fiducia. Erano stati addestrati a vivere in un mondo di ombre, di agguati, di nemici invisibili e potenti. Vissero con i nonni, consacratisi al compito di rimetterli al mondo.
Qualche giorno prima il nonno aveva convocato lui e il fratello e all’improvviso la madre era ritornata nelle loro vite.
Glauco guardava il mare ora e le parole del nonno gli tornavano alla mente come quelle scaglie di luce sull’acqua, una pioggerella di luci sparse:

Adesso
          Salerno
                risposata
                                lì
                                  vive

Curata
           sconsigliavano
                                 i medici
                                           d’accordo




Adesso
           vostra madre
                                 lì
                                    una casa



Prendiamo
                  pensateci
                                  lì
                                  una vacanza




Qualche mese
                     vedervi
                                chiesto
                                        vostra madre

Adesso.

Le gocce cadevano senza rumore nella sua mente, nemmeno un tonfo, nessuna resistenza, Glauco era diventato mare ora e i suoi pensieri piccoli rilievi di onde.
Dormì poco quella notte. Disteso sul suo lettino nuovo, accanto a quello vuoto del fratello, permise al passato di rientrare in scena. Si presentarono i suoi ricordi ma gli sembrò di assistere a delle prove generali: non si capiva il senso dell’opera rappresentata. La sua, le loro vite, erano precipitate nell’inesistente di una follia, non c’era una  lingua, un tempo, un’immagine, per poterlo raccontare. C’era solo un grumo che si dipanava e riattorcigliava a comando nella sua mente, senza perdere mai la sua densità oscura, completamente incapace di una rivelazione chiarificatrice.
Esausto, si riaddormentò.

Riccardo era pallido ma guidava, chiacchierava, fumava, raccontava le sue ultime mirabolanti imprese sentimentali: tutto assieme. Glauco si lasciava invadere dalla vivace presenza del fratello, completamente sedotto dai suoi gesti e dalle sue parole infilate una dietro l’altra con la disinvolta svagatezza di sempre.
Arrivarono, infine.
Nel vialetto antistante la villetta videro parcheggiata l’auto del nonno, era già lì.
Glauco e Riccardo scesero dall’auto, camminavano vicini, lentamente, le mani in tasca, in silenzio.
Erano attesi. Li accolse un uomo di media statura, bruno, con un sorriso incerto, come di chi non conosce le usanze per quell’evento. D’altra parte i due giovani uomini che si ritrovò davanti non lo incoraggiarono a continuare nella sua cordiale condotta. D’altra parte era la prima volta che quell’uomo vedeva i figli di sua moglie.
Lei era in piedi, nell’atrio subito dopo la porta, i capelli scuri raccolti a crocchia, due piccole perle bianche ai lobi, lo sguardo liquido come reso umido dal vento, il naso dritto e sottile alla fine del quale si aprivano due piccole fosse che s’intuivano morbide al tatto, e più giù, la bocca, serrata, come un uccello con le ali raccolte. In attesa.
Furono lasciati soli.

Riccardo e il nonno partirono dopo due settimane. Glauco rimase, gli piaceva quella casetta vicino al mare, vagheggiava d’acquistarla. Avrebbe pensato il nonno a sostituirlo al lavoro, era pur sempre il suo capo. Riccardo tornò ai sui progetti umanitari: destinazione Bruxelles, poi chissà.
Glauco andava spesso a trovare quella donna, sua madre, e quando tornava a casa, scriveva lettere.

“ Caro Riccardo,
è tardi ma le luci del porto prorogano all’infinito l’illusione che la notte sia remota. Sono qui, slegato da tutto quanto fino a ieri mi sembrava indispensabile: lavoro, amici, amore. Sono qui, attaccato alla vita con un unico ormeggio, una fune rimasta nascosta tra le altre in tutti questi anni, creduta smarrita per sempre e adesso unico attracco, unico sentiero capace di ricondurmi a casa. Sono sereno.
 Bonifico questo pezzo del mio cuore con nuovi ricordi, mi lascio attraversare dall’amore di questa donna ritrovata, miracolosamente, alla fine di una irreparabile tempesta.
E tu? No, non parlare se non puoi, non mi rassicurare, non mi nutrire più della tua forza. Io sono al sicuro, in pace con me stesso, grazie a te che mi hai accompagnato fin qui. Sono la tua vittoria, il tuo omaggio alla vita, come una dedica incisa sulla prima pagina di un libro bellissimo.
Abbi cura di te. Ti aspetto. Ti aspettiamo.
Con infinito affetto. Glauco”.






















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Sentimentale / Re: La fontanella lungo il corso
« il: Ottobre 05, 2011, 16:42:46 »
Che coraggio!! Bravo, detesto i prepotenti. Doroty

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