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Post - gipoviani

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15 minuti per creare / Re:note
« il: Aprile 15, 2012, 12:14:44 »
Se in 15 minuti hai scritto una così bella storia, figurariamoci cosa potresti fare prendendoti qualche minuto in più.
CS6PBDM

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Altro / Re:In Autunno
« il: Aprile 15, 2012, 10:07:47 »
Veramente bello

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Altro / Re:I tre Arturi
« il: Aprile 15, 2012, 10:06:33 »
Grazie nihil e ziaci, sono contento vi sia piaciuto.

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Altro / Re:I tre Arturi
« il: Aprile 15, 2012, 10:02:26 »
Bellissimo. Mi hai fatto venire in mente una cosa mia (forse non così bella). La posto anche per te (In Autunno, lo metto anch'io in altro). Bravissimo. (il mio è pura invenzione, però).

Ho letto in Autunno e hai ragione son simili volendo catturare lo stesso stato d'animo. Ed è molto bello, peraltro.
Anche il mio racconto è una miscela di realtà e invenzione, con l'ambizione di essere "vero".
Grazie

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Altro / I tre Arturi
« il: Aprile 13, 2012, 19:38:53 »
“Buono lo sciù, Commendatore ?”
Lo sciù? Caspita, non sapevo facessero ancora gli sciù all’Alvino, penso, riponendo incuriosito il giornale sotto il sole di Piazza Sant’Oronzo.
Mi giro per cercare con lo sguardo il commendatore che ha mangiato l’enorme bignè pieno di crema e panna della mia infanzia. Doveva essere quel signore in gessato grigio scuro con un’aria demodé che ho intravisto prima di sedermi. Lo vedo nel tavolino in fondo a destra, ha un qualcosa di familiare anche se il volto è parzialmente coperto da quella che mi è sembrata una copia di un vecchio numero della Gazzetta del Mezzogiorno.
Che fortuna essere qui, che fortuna che abbiano sdoganato il caffè Alvino. Quando ero giovane da questo posto non volevo e non potevo passare. Era un covo di picchiatori fascisti della peggior risma e io in un locale del genere non ci sarei mai entrato e, se ci fossi entrato, probabilmente non me ne avrebbero fatto uscire, almeno con tutte le mie ossa intere.
Ma è un po’ che abbiamo smesso di giocare a rossi e neri e anche i fascisti, come le mezze stagioni, non sono più quelli di una volta. Il locale ha cambiato gestione e mi posso godere tranquillo il mio espressino freddo. E’ già primavera, il sole comincia a scaldare e le donne a mostrare parti di sé. Senza i cappotti a coprire le gambe, senza pesanti maglioni a nascondere il seno, è un piacere vederle attraversare la piazza con le gonne leggere che ondeggiando promettono di più.
Sono in vacanza e non solo dal lavoro. Sono in ferie dall’altro me, quello che ha un’altra vita, in un’altro posto. E torno nella città dove son nato e che amo come solo gli emigranti possono fare. Mi sono preso pochi giorni di ferie e ho appuntamento con il notaio.
Ho trovato un acquirente per il terreno in campagna che i miei acquistarono quando ero piccolo con il sogno di ristrutturare l’antica casa colonica e mettersi a coltivare la terra per diletto quando fossero andati in pensione. La ristrutturazione era venuta uno splendore, l’architetto aveva recuperato quanto più possibile la struttura tradizionale aggiungendoci tutte le comodità e le attrezzature di una casa moderna. Intorno c’erano quasi 20 mila metri quadri di terreno fertile, la metà uliveto e la meta vigna con un piccolo frutteto e uno spazio ampio per l’orto. Mio padre aveva anche iniziato a farci il vino e l’olio. Poi si ammalò e poco dopo morì. Mia mamma aveva continuato ad andarci senza curare molto la campagna. Con mia moglie e le mie figlie l'abbiamo utilizzata come casa delle vacanze visto che era a solo 10 chilometri dal mare. Per tanti anni anch’io avevo coltivato il sogno di tornarci e farne la mia casa. Avevo avuto la possibilità di trasferirmi con il lavoro, ma mia moglie non volle, non ho mai capito bene perché visto che anche lei era originaria di queste parti. Ora sono separato con le figlie grandi, ma oramai il tempo dei sogni è finito, non ho più la forza e la voglia di cambiare vita. Mi offrono tanti soldi e accettare mi pare l'unica cosa saggia da fare.
Dopo una passeggiata per il corso e una immancabile visita in piazza del Duomo, prendo via Palmieri, sbuco a Porta Napoli, passo dall’Arco di Prato e raggiungo la villa comunale facendo il più classico dei peripli della mia giovinezza. Più o meno la stessa strada che facevo quando tornavo da scuola.
Così arrivo dal mio barbiere. Frequento questo locale da quarant’anni o forse più. E prima ci andava mio nonno e mio padre. Oramai ci vado solo poche volte all’anno. Mi fa i capelli sempre, Mario, o come si dice da queste parti, mesciu Mario. Quando mio nonno mi ci ha portò la prima volta, lui era il ragazzo di bottega e per fargli far pratica gli fecero tagliare i capelli al bambino. Da allora sempre lui; prima, quando ancora vivevo qui, è capitato che i capelli me li tagliasse qualcun altro quando lui era occupato. Ora che vivo altrove, e vengo qui quando capita, mesciu Mario è un rito e se non è libero, aspetto o ripasso.
Quando mesciu Mario appenderà le forbici al chiodo, un ulteriore cordone ombelicale con la città dove son nato si spezzerà. E allora avrò già venduto la campagna.
Son quarant’anni che vengo qui, ma non so nulla di mesciu Mario e lui molto poco di me. Solo che non vivo più qui, ma fuori, al Nord e che insegno qualcosa in qualche posto. E lo ha capito sentendo le rare telefonate di lavoro che mi è capitato di ricevere mentre ero sotto le sue forbici.
“Professore, i capiddhi nu li sannu tagghiare addu stai tie”. Mi ha detto una volta che ha trovato i miei capelli mal tagliati, con quella abitudine tutta meridionale di unire il titolo referente, professore, al tu più familiare.
Non gli ho mai detto di essergli rimasto sempre fedele: ogni tanto i capelli me li taglio anche su, al Nord, ma cambio sempre posto. Non perché, come dice lui, non li sappiano tagliare, ma perché non voglio avere un altro Mario, solo parrucchieri occasionali.
“Professore, bene arrivato”, mi dice appena entrato. “Accomodati sulla poltrona, finisco la barba al commendatore e rriu”.
Nella sedia accanto col viso coperto di schiuma un signore anziano aspetta. Intravvedo i pantaloni di gessato grigio. Che strano penso, ancora c’è qualcuno che viene a farsi la barba dal barbiere. Mi sembrano gli stessi pantaloni del tizio al bar.
Il taglio di capelli è sempre un’esperienza un po’ mistica. Senza occhiali non ho un gran rapporto con il mondo esterno e sto con gli occhi chiusi, immerso in un mondo tutto mio, mentre mesciu Mario, armeggia fra i miei capelli con pettine, forbici e mani. Per abbandonarmi realmente devo fidarmi di chi gioca con la mia testa. E questo capita solo con mesciu Mario.
Finito il taglio, Mario prende un specchietto e riflettendo l'immagine su quello grande di fronte alla poltrona mi fa vedere la nuca, caso mai pensassi che dietro non li avesse tagliati o me li avesse colorati di bianco-rosso per dispetto.
Pago e vado via. E' un po’ che mi ripropongo di chiedergli se, per caso, non abbia intenzione di chiudere a breve, ma neanche stavolta lo faccio. Ho troppo paura della risposta.
Sono passate da poco le dieci e nel mio progetto originale dovrei avviarmi verso casa, ma vedo l’ingresso della villa e come seguendo un richiamo ci entro. Erano anni che non venivo in villa. Quando avevo delle figlie in età da giocare alla villa, questa era chiusa per i lavori di ristrutturazione, altre volte l’ho solo attraversata di passaggio per andare altrove. Eppure da bambino ci venivo spessissimo. La scuola elementare Cesare Battisti che tanto malvolentieri frequentavo è proprio di fronte ad una delle entrate della villa comunale. Ora è tutto cambiato e come potrebbe essere diversamente; son passati quarant’anni, Non c’è più la gabbia con la lupa, triste e spelacchiato inquilino della villa, e anche la vasca con le paperelle è tutta diversa da quella della mia infanzia.
Ma trovo la panchina che non vedevo da secoli. Non è materialmente la stessa panchina, ovviamente, ma è nello stesso identico posto, di fronte ad uno spazio rettangolare circondato da un’alta siepe dove i bambini andavano - chissà se lo fanno ancora? - a giocare a pallone usando cartelle e giacche per delimitare le porte. La siepe nasconde l’improvvisato campo di calcio a chi sta seduto in panchina che sente solo il vociare allegro, nervoso o irato dei bambini che lottano per vincere la partita.
Mi siedo e immediatamente, senza inserti pubblicitari, parte il film del ricordo. Facevo la quarta elementare, era, come oggi, primavera e la voglia di scuola piuttosto scarsa. Dei ragazzi più grandi mi invitarono a giocare a pallone, gli serviva un giocatore per arrivare ad otto. Benché non avessi ancora mai nargiato, come si diceva allora da queste parti, marinare la scuola, non ci misero molto per convincermi. La partita era avvincente e, se anche ero più piccolo, mi facevo onore. Per evitare un goal certo della squadra avversaria spazzai davanti alla mia porta con tutta la forza che allora avevo e il pallone volò oltre la siepe. La regola non scritta di tutti i campi di calcio improvvisati vuole che sia il giocatore che ha calciato il pallone ad andare a recuperalo.
Usciì dallo stretto varco nella siepe che è posto proprio di fronte alla panchina e un brivido gelido mi percorse il corpo accaldato. Non ebbi il tempo di girarmi per rientrare dentro che mio nonno alzò gli occhi dal giornale e mi vide. Notai nei suoi occhi prima stupore, poi delusione infine collera. Nulla disse ma mi fece cenno di sedere vicino a lui sulla panchina. Obbedii anch’io in silenzio, avevo già capito che in alcuni casi, meno si dice meglio è. Con calma piegò il giornale, lo posò sulla panchina si girò verso di me e mi tirò uno schiaffo forte sul viso. Io non piansi, abbassai gli occhi, mi guardai attentamente le scarpe e dopo pochi istanti mi girai verso di lui e lo abbracciai forte. Solo allora iniziai a piangere. Lui fu sorpreso ma ricambiò l’abbraccio, mi carezzò il capo e partì con la ramanzina.
Iniziò con l’importanza della studio e della scuola. Più studi e più sarai libero di fare quello che vuoi da grande. Se studi sarai libero di decidere come vivere la tua vita, se sei ignorante saranno sempre gli altri a decidere per te.
Finì con il valore della lealtà: ero stato sleale nei confronti dei miei genitori, avevo tradito la loro fiducia. Mi pensavano al sicuro a scuola e io ero a fare il vagabondo con dei ragazzi di strada. Avevo tentato di prenderli in giro. E con le persone a cui si vuol bene non si fa, non si fa proprio. Era il rispetto per la parola data quello che fa di una persona, una persona per bene. Sarebbe rimasto un segreto fra noi se io avessi promesso di non farlo più.
Promisi e mantenni la promessa. Non lo feci più e rimase per sempre un segreto.
Un vociare di bimbi e un pallone di cuoio rovinato che rotola verso la mia panchina mi distoglie dai ricordi. Mi alzo, prendo il pallone ed entro nel campetto di calcio attraversando l’aiuola. Consegno  il pallone ai ragazzi. Se ne avessi il coraggio, farei come Claudio Bisio in molti films: mi toglierei la giacca posandola sulla siepe e inizierei a giocare con i ragazzi che allegri mi accoglierebbero. Ma non sono Bisio e non siamo in un film.
Esco dalla siepe e rimango di sasso: c’è mio nonno seduto sulla panchina. Indossa un vestito gessato grigio e un sorriso cordiale.
“Finalmente”, mi dice “è tutto il giorno che ti vengo dietro”. E, come allora, mi fa segno di sedere accanto a lui. Mi piacerebbe vedere la faccia che faccio, ma non ci sono specchi nella villa.
Un pensiero tremendo mi assale.
“Nonno, sono morto, per caso?”
“Morto? E perche mai?”
“Allora sto sognando o sono impazzito?”
“Questo non lo so. Comunque prima fammi parlare che non abbiamo molto tempo. Poi mi potrai fare tutte le domande che vuoi. Ti ricordi di quella volta che ti sorpresi che avevi nargiato a scuola?”
“E come potrei dimenticarlo?”
“Ti ricordi la promessa che mi facesti?”
“L’ho rispettata, nonno. Sia da ragazzo che da adulto, ti giuro che mi sono sempre sforzato di essere leale, con tutti”
Il nonno era sempre stato e, a questo punto lo è tuttora, una delle poche persone con cui sentivo sempre la necessità di discolparmi. Come se non riuscissi mai a raggiungere lo standard che mi chiedeva.
“Lo so. Ho seguito la tua vita e so che sei una persona per bene. Ma so anche che adesso sei inquieto e infelice. Vorrei aiutarti”
E il nonno come sempre riesce a sorprendermi. Non l’avevo ammesso nemmeno con me stesso: sono profondamente infelice. Pensavo fosse colpa solo degli anni che passano, inesorabili.
Il pallone vola di nuovo oltre la siepe e un bambino paffutello con dei riccioli biondi e dei calzoni corti del tutto fuori moda, corre a prendere il pallone.
Mio nonno lo chiama.
“Vieni, Arturo. Ti voglio presentare un mio amico”
Il bambino si avvicina, sorride e quel sorriso lo tradisce perché me lo fa riconoscere.
“Vedi, anche lui si chiama Arturo. Qui siamo tre Arturi”
Arturo mi porge educatamente la mano e dice:
“Allora potremmo fare la tavola rotonda”.
Ride e lo accompagniamo nel riso solo per cortesia. Non sono mai stato granché come battutista.
Gli do un buffetto sul viso e lo vedo tornare a giocare.
Si volta e saluta.
“Ciao nonno e ciao altro Arturo”.
“Ecco”, chiosa mio nonno “ora è arrivato il momento di essere leale con lui”.
“Aspetta Arturo, hai la scarpa slacciata” fa mio nonno, e prima che io possa dire qualcosa, si alza e gli va dietro. Entra nella siepe.
Sono turbato e chi non lo sarebbe al posto mio. Ora che torna, mio nonno mi deve spiegare tante cose.
Ma il tempo passa e lui non torna. Allora entro anch’io nella siepe.
Ma il campo di calcio non c’è come non ci sono più mio nonno e Arturo. Ci sono dei giochini per bimbi piccoli di legno, altalene, scivoli, un fossato con della sabbia. E genitori a giocare felici coi figli. Si sono tutti girati verso di me, non capiscono perché sia passato dalla siepe, quando dalla parte opposta lo spazio dei giochini dei più piccoli è aperto e accessibile facilmente. Sospettano losche ragioni.
Il mio cellulare suona e mi libera dall’imbarazzo.
“Professore, sono la segretaria del Notaio Mancuso. Il notaio ha sistemato le ultime cose e dice che il rogito si potrebbe fare già questa sera, se lei crede”.
Imbambolato non rispondo.
"Professore, pronto, mi sente?".
“Si signora la sento. Volevo dirle, ecco, cioè... Insomma ho cambiato idea, mi scusi con il notaio, ma ho deciso di soprassedere alla vendita almeno per il momento. Avvertirò io gli acquirenti. Se c’è da pagare qualcosa me lo faccia pure sapere”
E mi avvio verso casa pensando a cosa potrei piantare immediatamente nell’orto.

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Umoristico / Re:L'amore ai tempi di Facebook
« il: Aprile 03, 2012, 19:27:57 »
brava

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Umoristico / Re:Gigi Riva non si tocca
« il: Aprile 03, 2012, 19:20:04 »
veramente piacevole

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Quanti giorni saranno passati da quando sei andata via? E quante ore e quanti minuti ho già vissuto senza te?
Non sono mai stato bravo in matematica e non li so contare. Ma se li avessi qui tutti quei minuti li mescolerei ai secondi e li imbottiglierei, come faceva la nonna con la salsa di pomodoro. Li cuocerei a bagnomaria e poi li avvolgerei in una manta per tenerli al caldo. E mi durerebbero fino alla fine dei giorni.
E quando avessi voglia di te mi basterebbe prendere una bottiglia. Appena aperta, sentirei il tuo profumo, con un cucchiaio riassaggerei il tuo sapore. I giochi di colore se stendessi la salsa sulla pasta bianca mi ricorderebbero il chiaro oscuro che faceva il tuo corpo nudo nei pomeriggi d’estate quando t’addormentavi dopo l’amore. Quanto tempo passavo seduto a guardarti  e il mio sguardo gareggiava con la luce fioca che traspariva dalle persiane socchiuse giocando a chi ti accarezzava più lievemente perché non ti svegliassi.

Quanti giorni saranno passati da quando sei andata via? E quante ore e quanti minuti ho già vissuto senza te?
Se li avessi qui, impasterei ore, minuti e secondi e ci farei dei mattoni. E costruirei la casa in campagna che non abbiamo avuto mai, con il camino che non ci ha scaldato mai. Con quella scala in legno che una volta disegnasti su di un foglio di carta e che io senza dirti niente misi da parte, sperando che un giorno l’avremmo costruita veramente. Una casa di mattoni forte e robusta, così quando il lupo arriverà potrà soffiare quanto vuole ma la casa rimarrà in piedi. E noi dentro potremo fare i porcellini per tanto tempo ancora.

Quanti giorni saranno passati da quando sei andata via? E quante ore e quanti minuti ho già vissuto senza te?
Se li avessi qui, li ridurrei in polvere, li mescolerei col mio dolore, aggiungerei tutta la mia rabbia e ci farei della polvere da sparo. E costruire dei proiettili e caricherei tutte le armi che ho. E maledirei il destino che non mi ha dato armi e proiettili per sparare al lupo e ucciderlo la prima volta che ho visto che da lontano ti guardava con malizia. E se avessi avuto più mira e se avessi avuto più coraggio. Se solo ci avessi creduto di più.

Quanti giorni saranno passati da quando sei andata via? E quante ore e quanti minuti ho già vissuto senza te?
Se li avessi qui, li mescolerei con l’acqua del nostro mare e li farei diventare olio, da mettere negli ingranaggi del tempo per farlo andare più veloce. Perché se il tempo corre, io corro da te.
Anni son passati (3 anni, 344 giorni, 8 ore, 23 minuti, 5 secondi) da quando il tempo ha cominciato a rallentare. Lo stesso tempo che mi pareva correre veloce quando stavamo insieme. Ora il tempo non sa come passare, forse anche lui fugge da me, pietoso.

Quanti giorni saranno passati da quando sei andata via? E quante ore e quanti minuti ho già vissuto senza te?
E quanto durerà la mia condanna ancora?

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Sentimentale / Re:Piazza Grande: dedicato a Lucio
« il: Marzo 17, 2012, 11:08:00 »
Ho sempre fatto il gioco di inventarmi la vita delle persone che si intravedono di sfuggita una sola volta nella vita. Fermo al semaforo, mi chiedo dove vadano, cosa le preoccupi, quale gioia stiano per avere, da quale dolore cerrchino di fuggire. E ogni tanto le scrivo le storie che invento sperando qualcuno le legga. Sicchè grazie di averle lette e son contento vi sian piaciute.

Daltraparte
"noi corriamo sempre in una direzione, ma qual sia e che senso abbia chi lo sa...
restano i sogni senza tempo, le impressioni di un momento,
le luci nel buio di case intraviste da un treno:
siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno..."
 


Per rimanere sempre in casa di un poeta emiliano
 

 

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Sentimentale / Piazza Grande: dedicato a Lucio
« il: Marzo 02, 2012, 21:11:53 »
Rosso. Di nuovo rosso e il semaforo di piazza grande è famoso per durare un’eternità. Io sto qui e li vedo.
Una  coppia sulla settantina attraversa l’incrocio con in mano le borse a rete della spesa. Si tengono sottobraccio. Lei gli parla e lui sorride. Stanno parlando della cena che fra un po’ lei inizierà a preparare. Oggi è Sabato e il nipote passa la notte da loro così la figlia e il genero giocano un po’ a fare i fidanzati. Al nonno tocca invece giocare interminabili partite a rubamazzo e mangiare carne macinata e pasta al burro. Fino a quando lui non si addormenterà sul divano guardando il cartone animato, l’ultimo successo Pixar uscito in DVD, che adesso spunta colorato dalla  borsa della nonna. Allora il nonno lo prenderà in braccio e lo metterà a letto nella stanza della figlia dove ci sono ancora Francesco De Gregori e il Che appesi al muro che lo guarderanno dormire. Spegnerà la luce, accosterà la porta, tornerà nel salotto. La troverà che si sta finendo di vedere il cartone animato regalando alla TV quello splendido sorriso che dopo tanti anni ancora gli riscalda il cuore. Gli piacerà indugiare li a guardarla senza esser visto fino a che lei volgerà lo sguardo su di lui invitandolo con la mano a sedersi vicino a lei. La raggiungerà sotto il plaid di morbida lana merinos che le ha regalato per natale.  E come sempre si sentirà immensamente fortunato.
Davanti al Cinema Italia, un ragazzina di poco più di tredici anni aspetta, chiaramente nervosa. Fra meno di dieci minuti, inizierà il film: Harry Potter e i doni della morte, parte seconda. Lui dovrebbe essere già qui. L’ha invitato a vedere il film insieme. Lei è cresciuta con Harry, Ron ed Ermione.  I primi quattro libri, suo padre li ha letti per lei sedendosi per terra sul tappeto davanti al suo letto, la sera, prima di addormentarsi. Gli altri li ha letti da sola perché era cresciuta e perché suo padre non dormiva più con loro. Non vede il padre da più di un mese. Da quando si sono trasferiti nella villa del nuovo fidanzato della mamma. Gli hanno detto che è stato fuori per lavoro, ma lei teme che abbia ricominciato a bere. Il cellulare vibra: è arrivato un sms. Lo legge, sorride divertita, ma poi sul viso le si disegna uno sguardo deluso e preoccupato, non era la notizia confortante che aspettava. Forse lui non ha capito quanto l’ultimo film della saga fosse importante per lei, quanto fosse importante vederlo insieme: i maschi non sempre capiscono certe sottigliezze.  Ma lui era sempre stato diverso. Sta per andar via, da sola non guarderà certamente il film. Si gira  lo vede, il suo viso s’illumina e, come la ragazzina che è, gli corre incontro. Lui si è fermato ad aspettarla e ha allargato le braccia per accoglierla. Il mio papà pensa lei abbracciandolo forte e ricaccia le lacrime indietro. Non è il momento di piangere, hanno una missione da svolgere, con l’aiuto di Harry Potter devono sconfiggere il signore oscuro, una volta per sempre.
Un uomo su di un piccolo, vecchio ciclomotore ha il cestino pieno di rose. E’ cingalese, preoccupato, infreddolito e stanco. Sicuramente ha già fatto un altro lavoro durante il giorno e ora vuole guadagnare qualche soldo in più vendendo le rose alle coppie al ristorante o a quelle che passeggiano per la piazza. Pensa alle cinque figlie che stanno al suo Paese e alla moglie che le sta crescendo. La grande è proprio brava e l’anno prossimo andrà all’Università. I suoi compaesani non capiscono perchè voglia farla studiare, perchè mandarla da sola in una grande città a studiare all’università insieme a tutti quei maschi. Ma lui non lavora in un paese straniero che non lo ama e dove subisce umiliazioni e insulti solo per costruirsi una casa bella o per avere un pezzo di terra da coltivare. Lui lo fa solo per comprare un futuro migliore alle sue figlie. Con cinque rose compra un libro di testo, se vende mille rose paga la rata delle tasse universitarie. Così potranno vivere nel loro Paese e non essere costrette a emigrare come aveva fatto lui. Sarebbe tornato, prima o poi, e sarebbero stati tutti insieme. Solo questo pensiero gli dà la forza di tenere gli occhi aperti e di ripartire una volta scattato il verde.
Oramai è tardi, la notte si avvicina. Io mi preparo i miei cartoni vicino all’entrata dei fornitori del grande magazzino. Dove trovo quasi sempre una scatola con della roba da mangiare: Simona che gestisce il bar del negozio me la prepara tutti i giorni. Io mangio e le auguro tutto il bene possibile. So che un giorno mi addormenterò fra i cartoni e quando il sole sorgerà di nuovo io continuerò a dormire e dormirò anche quando tramonterà di nuovo. Allora anch’io troverò pace e sarò tornato a casa. 

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Sentimentale / Re:Cento
« il: Gennaio 31, 2012, 08:35:56 »
altri cento di questi racconti

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Il fondo del bicchiere era nuovamente asciutto, ma avevo ancora sete. La bocca era amara ma sempre meno dell’umore.
Che cazzo ci facessi in questo locale di lap dance dei poveri in un paesino sperduto della provincia pugliese, Dio solo lo sa.
Ricordo che cercavo un posto con fica e alcool. Ma orami avevo bevuto tanto che le donne non le vedevo più. Troppo per tornare a casa in auto.
Mi sentivo osservato.
Qualche anno fa avrei chiamato papà e lui mi avrebbe riportato a casa: la mamma mi avrebbe fatto qualcosa di caldo con cui avrei vomitato l’anima e dopo mi sarei addormentato come un bambino. Lei mi avrebbe rimboccato le coperte e spento la luce.
Ma a quarantadue anni non abbiamo più la faccia di chiamare la mamma o quando, come nel mio caso, ce l’avremmo anche avuta, non abbiamo più la mamma. E mio padre è nei caraibi con la sua barca a vela e una fidanzata trentenne.
Avrei dormito in macchina: era una calda notte di settembre e si poteva fare.
Quell’uomo era un po’ che mi guardava. Il suo viso non mi era nuovo. Forse un omosessuale in cerca di compagnia, la sua strategia era consolare i delusi dalle donne. Con me aveva colto nel segno; stradeluso e schifato, ecco cos’ero. Ed ero li a vedere femmine in vendita per sentirmi quello che comprava le donne.   
Gli uomini non mi erano mai piaciuti e quella sera non ero certo in vena di esperimenti.
“E’ la prima volta che vieni qui, vero?”
Non l’avevo sentito avvicinarsi. Ero proprio andato. Non vi nego che un po’ mi spaventai quando me lo trovai accanto.
“Tu non sei come gli altri che vengono qui a vedere un po’ di pelo e a comprare un po’ di sesso. Tu ti vuoi estrarre un dente che ti duole e pensi di farlo con il whiskey”
“La verità è grappa, il whiskey non mi piace” dissi.
“Hai qualcuno che ti venga a prendere, non puoi certo guidare conciato così”.
“Chiama un amico, un parente, qualcuno”.
“Non voglio che mi vedano così e non ho parenti. Pensavo di dormire in macchina”
“Io ho finito di lavorare e abito qui vicino. Puoi dormire sul divano”.
Lo guardai con diffidenza.
“Non sono gay. Ma mi piace offrire una mano tesa e un divano a chi ne ha bisogno”.
Eppure mi sembrava di conoscerlo.
Senza sapere come, mi ritrovai seduto su di un vecchio divano verde con i braccioli consumati con una bevanda rossa in mano che odorava di salsa.
“Succo di pomodoro, fa bene se sei strafatto di alcool.”.
“Almeno a me fa bene”, disse. “E io sono ubriaco spesso, quando non lavoro.”
Iniziò a arrotolarsi una sigaretta. Per farlo si era messo di profilo per non far cadere il tabacco o quel che era. Fu allora che lo riconobbi.
“E quando non bevo, fumo. Ne vuoi ? E’ roba buona. Non quella geneticamente modificata che ti sballa subito, questa è roba biologica. Viene direttamente dal centro America. Ti culla e ti abbraccia come una donna che ti ama.”
L’accese e me la passò. Tirai una bella boccata e sentì il fumo caldo entrarmi dentro. Tossì e un conato di vomito mi sconquassò e dovetti correre in bagno. Vomitai.
Tornai sul divano disfatto.
“Tu sei il mimo dorato di piazza Garibaldi” gli dissi dopo che mi fui un po’ ripreso, “quello tutto dipinto di giallo con una cinepresa e ogni tanto fa finta di fare delle riprese. Sta sempre fermo anche quando gli mettono le monete nel recipiente di latta.”
Annuì e mi passò quel che era rimasto della prima canna, mentre si preparava la seconda. Feci solo un altro tiro e gliela restituì mentre le palpebre si facevano pesanti.
Proprio allora cominciò a parlare. Io un po’ lo sentivo e un po’ no. Trovavo a stento la forza di interloquire, sebbene non sembrava far tanto caso a ciò che dicevo io. Era un fiume in piena.
E dire che temevo facesse domande su di me e sul dente che volevo togliermi, come aveva detto lui. Non mi sarebbe dispiaciuto raccontare ad un estraneo di come una stronza che ancora amavo alla follia mi avesse condotto alla rovina. I miei amici si erano stufati di sentire la storia e io di sentire sempre lo stesso consiglio: “Mandala al diavolo”.
Ma lui mi aveva preceduto e parlava, parlava, parlava. Ogni tanto mi passava la sigaretta arrotolata, ma io il più delle volte rifiutavo: ero già partito per il mondo dove non esistevano né pavimenti né soffitti e le cose bastava desiderarle per averle.
Mi svegliai che era giorno fatto. Il mimo d’oro non c’era più, la poltrona dove l’avevo visto arrotolarsi quella che mi era parsa un’infinità di canne era inondata di sole che proveniva dalla finestra alle mie spalle. La luce mi pugnalava la testa rendendo insopportabile l’emicrania, ma era anche calda e rassicurante.
Il mondo continua anche dopo una sbornia, sembrava dire. 
Mi alzai e feci una lunga e doverosa visita al bagno.
Puoi sapere tanto di una persona vedendo cosa legge mentre è seduto sul gabinetto.
Il mimo d’oro leggeva Topolino e la settimana enigmistica. Un mix accettabile. Era un uomo ordinato e previdente tanto che la penna con cui risolveva cruciverba e altri giochi era legata al ripiano con una cordicella. Temeva forse che se gli fosse venuto in mente l’affluente di destra del Po, sette lettere, e non l’avesse scritto subito, la volta prossima l’avrebbe trovato prosciugato.
Il mio ospite non era neanche in cucina. Ma vicino alla caffettiera c’era un suo biglietto. “Buon giorno, sono al lavoro, alla sagra del vino. La macchinetta del caffè è già pronta. Alla prossima”.
Avrà fatto anche il mimo per campare, ma era un gran signore, con tutto quello che aveva passato.
Già, aveva avuto una vita drammatica, una storia familiare complicata, ma non mi ricordavo niente, annegato com’ero nella grappa e nelle canne.
Come quando ci si sveglia sicuri di aver avuto un incubo tremendo ma i particolari del sogno si sono persi nei meandri della mente e sono svaniti con la luce del giorno. Ti rimane solo un retrogusto di dolore nell’anima che sparisce con la prima cosa bella che ti capita al mattino: il sorriso della tua donna o la canzone che ti piace che passa alla radio.
Anche la sua storia si era dissolta al mattino. Ma sapevo che aveva sofferto.
La giornata era proprio calda: una splendida domenica mattina.
La mia Altea XL era ancora lì. L’avevo comprata cinque anni prima, quando pensavo che l’avremmo potuta imbottire di figli e bagagli. Negli ultimi mesi l’avevo riempita solo di lacrime e ammaccature. Le ammaccature rimediate spesso per la rabbia e la fretta quando la seguivo per vedere dove andava. Non vi sorprenda, per lei ho fatto anche di peggio. Le lacrime quando scoprivo dove andava e con chi stava. Ma non l’avevo mai portata né all’autolavaggio né dal carrozziere.
Carrozziere…..si accese una scintilla. Il mimo d’oro prima di fare il mimo era un carrozziere e viveva in un paesino del Veneto.
Come capita anche nei sogni una parte del racconto mi tornò alla mente.
“Stavo per chiudere la carrozzeria, quando mio fratello mi telefonò chiedendomi di aspettarlo in officina; sarebbe arrivato quando fosse stato certo di trovarmi solo. Non mi sorpresi più di tanto, lui era fatto così: faceva sempre cose strane e a volte si cacciava in qualche guaio. Ma era mio fratello maggiore: erano rimasti solo noi due. I nostri genitori  erano morti abbastanza giovani e benché fossi più piccolo, gli avevo fatto da padre e madre.
Capì che questa volta la storia era ben più seria quando vidi la macchina ammaccata sulla parte anteriore destra e le macchie di sangue, malamente cancellate, sulla carrozzeria.
Mi raccontò che non l’aveva visto, probabilmente stava facendo jogging sul ciglio della strada, lui stava armeggiando per cercare un cd e quando aveva alzato gli occhi era troppo tardi. Aveva visto il suo viso schiacciarsi sul parabrezza.
Ed era scappato in preda al panico, spaventato anche perché aveva bevuto un paio di spritz e qualche bicchiere di vino a pranzo con gli amici. Non era ubriaco, mi giurò, ma sarebbe sicuramente risultato positivo al test alcolemico. 
Lo pregai e ripregai di tornare su suoi passi, avrebbe dovuto ammettere di non essersi fermato, ma sarebbe stato compreso. Magari l’uomo non si era fatto poi così male. Mi disse che non era così semplice. Dopo l’incidente era andato a casa, aveva chiuso la macchina in garage, aveva preso la moto ed era tornato sul luogo dell’incidente. C’era già la polizia, ma nessuna ambulanza, solo un lenzuolo bianco steso su di un corpo ai bordi della strada.
Come potevo non aiutarlo? Come facevo ad andare a trovare mia mamma al cimitero se non l’avessi fatto? In fondo oramai quell’uomo era morto e niente lo poteva riportare in vita”.

Suonò il mio cellulare. Lo presi dalla tasca. “Stronza Chiamata” recitava il display.
Non rispondere, non rispondere, per carità, disse l’io saggio.
Risposi. L’io saggio non vinceva mai quando c’era di mezzo lei.
“Devo andare qualche giorno al mare. Potresti occuparti tu di Oreste mentre son via?”
Fra le tante cose che avevo supinamente accettato c’era stata anche quella di chiamare Oreste il gatto che non volevo nemmeno prendere. Io avrei adottato volentieri un cane.
“In ricordo della Grecia” , aveva detto. La vacanza in Grecia l’aveva fatta senza di me con due sue amiche pochi mesi prima che ci sposassimo. Un raro rigurgito di spirito di autodifesa mi aveva impedito di domandare ulteriori spiegazioni.
Era già assurdo che lei me chiedesse di tenerle il gatto, fu ancora più assurdo che io le dicessi di si.
“Una cosa che non avrei mai fatto per qualunque cifra mi avessero offerto, la feci per amore” così aveva detto il mimo d’oro.
Io, se avessi un euro per tutte le fesserie che ho fatto per amore, sarei ricco, pensai.
“Passai la buona parte della notte di sabato e la giornata di domenica ad aggiustare la macchina.. Quando la prese, nessuno avrebbe detto che era stata coinvolta in un incidente. Imposi una sola condizione; gli avrei liquidato la sua quota della carrozzeria che ci aveva lasciato nostro padre e lui avrebbe dovuto far avere, in qualche modo, i soldi ai parenti dell’uomo. Era un modo per tacitare la mia coscienza più della sua.
Non volli mai sapere nulla della vittima: il nome, l’età, se aveva famiglia, niente. Fortunatamente mi avevano detto che non era del Veneto e che si trovava da quelle parti solo perché era venuto in visita a degli amici. Ma mai lo dimenticai, come non dimenticherò mai il pomeriggio successivo quando arrivarono i carabinieri a chiedermi se fosse venuto qualcuno a portarmi un’auto con danni compatibili con l’incidente. Sapevo bene che non erano altro che indagini di routine, tre anni prima erano venuti per pormi la stessa domanda. Ma tre anni prima non avevo mentito. Quando se ne andarono, corsi in bagno a vomitare. Dopo la pausa pranzo non tornai in officina. Rimasi in casa e mi ubriacai per la prima volta.
Dopo, i rapporti con mio fratello mutarono, lui capì che in me qualcosa era cambiato. Prima aveva lavorato in un bar a Vicenza  poi si era trasferito in Liguria. Io ero rimasto a Schio nella carrozzeria che era stata di nostro padre. L’alcool mi aveva causato dei problemi, ma avevo frequentato gli alcolisti anonimi ed ero riuscito a tener il problema sotto controllo se non a sconfiggerlo del tutto. Arrivammo a non vederci quasi mai e a sentirci solo per le feste comandate, poi neanche per quelle.
Quasi sei anni dopo, mi arriva una strana telefonata. Una donna mi dice che lei e mio fratello si stanno per sposare. Sa che io e lui non ci frequentiamo e non siamo in buoni rapporti. Non sa perché e mio fratello non ha voluto dirle di più. Ma lei vorrebbe che il matrimonio fosse un occasione per ricominciare ad avere un rapporto. Per questo mi ha chiamato, senza che lui lo sapesse. Sarebbe stata una cerimonia intima e lei desiderava che io ci fossi. Mi sembrò una donna dolce e matura: mio fratello era stato fortunato. Pensai che forse potevamo metterci il passato alle spalle.”

Non potete immaginare quanto mi stesse antipatico Oreste, un persiano altezzoso e prepotente. A chi assomigliava, secondo voi? Non c’era dubbio che si prendesse gioco di me.
E avevo appena promesso di dargli da mangiare e pulirgli la cacca. Quanto ci avrebbe goduto. Mi avrebbe guardato di sguincio, come usava fare lui, e i suoi occhi avrebbe detto “Povero scemo, ti ha sempre fatto fare quello che voleva” .
Ed era vero; come quella volta che mi convinse a fare l’amore in tre. Io, lei e un amico, anche se, in verità, io più che altro guardai. La cosa che mi fece più male non fu osservare la loro performance, quanto scoprire poco dopo che era un bel po’ che si allenavano per conto loro. 
A volte l’amore ci rende stupidi, ciechi o forse se siamo stupidi e ciechi non dovremmo innamorarci mai.
Anche il mimo d’oro era stato cieco. Anche lui era stato tradito.
La moglie di mio fratello era ancora migliore di quanto avessi pensato. Poco meno di quarant’anni, una figlia di dieci. Un viso allegro e aperto sul quale ogni tanto calava uno ombra di tristezza, un’aria di robusta sicurezza del tutto prima di alterigia e prepotenza. Una donna come quelle di una volta, si sarebbe detto. Donne che reggevamo le sorti della casa e della famiglia, prendevano le decisioni importanti, donne che comandavano senza regnare. Proprio quella che ci voleva per mio fratello.
Mio fratello non fu sorpreso di vedermi. Pochi giorni prima della cerimonia, lei lo aveva informato. Un’altra prova della sua saggezza: niente teatrini alla De Filippi. Ma lo vidi preoccupato e teso per tutto il tempo. Dopo la cerimonia in comune, andammo in non più di una trentina al ristorante. Mio fratello volle che mi sedessi vicino a lui. Il più bel pranzo di nozze a cui abbia mai assistito. Leggero e commovente insieme.
Gli sposi dopo il pranzo partivano per una piccola crociera ai Caraibi. Io me ne tornavo a Schio. Ci salutammo e finalmente lo vidi sollevato. Dopo poco più di mezzora di viaggio mi accorsi che avevo dimenticato il soprabito che ignaro del clima piacevole della costiera ligure avevo portato con me. Mi dispiacque e tornai indietro. Quando arrivai al ristorante non c’era più nessuno. Presi il soprabito e stavo andando via quando vidi seduta al tavolo a fumarsi una sigaretta quella che mi era stata presentata come la migliore amica della sposa, che era seduta accanto a me durante il pranzo.
Aveva avuto un guasto alla sua auto e mi offrii di darle un passaggio. Accettò ben volentieri. Durante il tragitto fra le altre cose iniziò a farmi un ritratto molto carino di mio fratello e di come fosse stato importante nella vita della sua amica. Le aveva permesso di uscire da un periodo tremendo seguito alla morte del marito.
Arrivati sotto casa sua, mi invitò a salire per un ultimo bicchiere. Le sembrò sicuramente strano che rifiutassi, in fondo le avevo fatto una corte discreta per tutto il pranzo. Probabilmente dovette credere alla scusa che non mi sentivo bene, perché sudavo ed ero completamente fuori di me, distrutto e di nuovo perso. Avevo bisogno di bere, di attaccarmi alla bottiglia ma da solo.
Le avevo fatto delle domande precise per essere sicuro di non essermi sbagliato. Speravo in una strana e improbabile serie di coincidenze, ma le sue risposte era quelle che temevo ma non volevo. 
Non arrivai a Schio. Mi fermai in uno squallido albergo a Genova e ricomincia a bere.

Avevo deciso di ucciderlo. Avrei ucciso Oreste. Girai diversi ferramenta chiedendo del veleno per topi. A tutti chiedevo se poteva essere pericoloso per un  gatto. Buttai quelli comprati da commessi che mi dissero, probabilmente mentendo, che i gatti non l’avrebbero mai assaggiato e mi tenni il prodotto sul quale il negoziante mi aveva invitato a star molto attento ad eventuali animali domestici.  Misi due o tre pillole di veleno in mezzo ai croccantini perché ne assumessero l’odore e potessero trarre in inganno quel antipatico di Oreste e aspettai di tornare la seconda volta. Lei l’avrebbe trovato morto al suo ritorno.
Non mi sentivo orgoglioso del mio progetto omicida, ma ero eccitato dal fatto che finalmente anch’io avrei modificato il corso della sua vita. Se avesse capito che ero stato io sarebbe stata la mia vendetta, altrimenti l’avrei anche potuta consolare.
La sera prima decisi di andare a ringraziare il mimo d’oro. Comprai una bottiglia di Ferrari che avremmo potuto scolarci insieme e un libro illustrato sulle più belle coste salentine per invogliarlo a venire a farsi un bagno con me. L’ultimo bagno prima dell’arrivo del generale autunno.
Bussai a casa ma nessuno mi aprì. Andai allora nel vicino locale notturno dove c’eravamo incontrati. Quando non lo vidi nemmeno lì, andai al bancone a chiedere di lui. Mi resi conto che in realtà non sapevo il suo nome e allora chiesi del mimo d’oro alla barista che serviva in topless. Distratto dai suoi seni piccoli e perfettamente rotondi non sentì la domanda con cui aveva risposto alla mia e fu costretta a ripetermela.
“Eri un suo amico?”.
“lo conoscevo, non bene ma lo conoscevo”.
“E’ morto ieri: stavolta ha esagerato con l’alcool, le pastiglie e il fumo”.
“Come è possibile?” dissi stupidamente,” L’ho visto solo Sabato scorso” .
Tornai alla macchina e iniziai a piangere. Era destino che quel volante si dovesse sempre bagnare delle mie lacrime.
Non l'avevo ringraziato, il Mimo d’oro.
Ma si può ? Si può sposare la vedova dell’uomo che si è messo sotto con l’auto? Si può tenere per mano una bimba sapendo che le hai ucciso il babbo? Neanche la mamma lo avrebbe perdonato. Non potevo nemmeno dirglielo io, ma non potevo vederli più. Allora sono sparito e ho cominciato a vivere in strada. La verità che avrei dovuto gridare, l’ho nascosta, ma mi sono nascosto con lei”
E alla fine quella realtà così pesante l’ha ucciso.
E forse non era stato un incidente, come non era un caso che mi avesse raccontato tutta la storia il poco prima di morire.
I croccantini erano sul sedile posteriore con le pillole di veleno che non avevo utilizzato. Buttai tutto in un cassonetto.
Scrissi un sms alla stronza: “Me ne vado, non posso pensare ad Oreste”.
E partì direzione mare.
Arrivai a Tricase, luogo che amavo. Ci ho passato tutti i mesi estivi quando ero ragazzo. Un posto carico di ricordi, di speranze tradite e di promesse mancate. Era il posto giusto per fare quello che volevo fare.
Il telefono continuava a suonare e il display a recitare, “Stronza chiamata”.
Parcheggiai, scesi e mi avviai verso uno scoglio a strapiombo sul mare che i locali chiamavano "lu pustu de li pacci" per il numero di persone che lo aveva usato per lasciare prematuramente questo mondo.
Il telefono che tenevo stretto nella mia mano ancora vibrava.
Il mare era una tavola, scuro, silenzioso. Accogliente. Sarebbe bastato un passo.
Sollevai il piede sinistro, piegai la spalla destra lievemente all’indietro e feci su un lancio degno del miglior lanciatore della Major league di baseball.
Il telefono partì e quando sentii il tonfo, godetti come un pazzo. Sicuramente stava ancora suonando quando affondò nell’acqua.

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Sentimentale / Re:Oreste
« il: Gennaio 09, 2012, 10:20:04 »
Mi è piaciuta. Ad un cero punto ho pensato che avesse un risvolto giallo (alessandra che aveva fatto sparire marzia) invece è una bella storia romantica. Una cosa buffa: sto scrivendo una storia dove c'è un gatto che si chiama oreste; che coincidenza curiosa  :mah:

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Sentimentale / Re:La favola della vigilia di natale
« il: Gennaio 06, 2012, 09:30:00 »
Pochi giorni prima di Natale, io e mia figlia appena maggiorenne eravamo in un negozio di giocattoli. Vicino alla cassa erano esposte tante piccole statuette  di plastica dura con i personaggi dei cartoni Disney.
"Ti ricordi papà quanto mi spaventava piccuame?" E indica la regina della favola di Biancaneve, il primo cartone, che forse improvvidamente le facemmo vedere alla tv. Lei la chiamava "piccuame" facendo una forte crasi dalla parte finale della classica formula: Specchio, specchio, ....". Io le mostro il pupazzetto con la regina trasformata in vecchina con la mela in mano. "No, papà, a me spaventava la regina" e prende in mano la replica della regina che contendeva a Biancaneve il titolo di più bella del reame. Come sempre è l'ambiguità a spaventare di più, come altre volte non ho capito mia figlia.
Lei sta attraversando un periodo particolare: l'angoscia adolescenziale, la paura di crescere e delle cose che cambiano, il timore per il domani, spesso sembrano bloccarla e le immalinconiscono l'umore in modo evidente.
Così ho pensato di regalarle per Natale il pupazzetto che tanto la spaventava insieme ad una lettera che grazie ad una storia fantastica vuole augurarle di sconfiggere i demoni e affrontare serena il futuro.
Era pensata come una cosa squisitamente privata, ma quando il forum è ripartito mi è piaciuto condividerla con la mia comunità di scrittori/lettori.


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Sentimentale / La favola della vigilia di natale
« il: Gennaio 05, 2012, 11:44:05 »
C’era una volta una strega cattiva, ma cattiva, cattiva, cattiva. C’era anche una bimba brava, ma brava, brava, brava. S’incontrarono in una storia strana, ma così strana che una vigilia di Natale si raccontò da sola.
Era la prima volta che la storia faceva da sé senza nessuno che la narrasse. Il racconto risultò confuso, alcune cose rimasero non dette e l’intera vicenda non fu mai del tutto chiara. E quando le campane di mezzanotte posero fine alla vigilia, la storia smise di raccontarsi e si dissolse col fumo dell’ultima candela rimasta accesa.
Prima di andar via, la storia disse che la strega era a sua volta vittima di un incantesimo. Costretta ad essere cattiva e a nutrirsi d’odio dalla cieca malvagità di uno stregone a cui aveva liberato il merlo. E lui per dispetto aveva resa una strega cattiva lei che era una donna che amava gli animali e non poteva sopportare di vederli in gabbia. Nessuno conosceva il vero nome della strega: lo stregone mise in giro la voce che si chiamasse Grimilde, mentre per altri era solo la “vecchia della mela”.
Anche quest’incantesimo, tuttavia, poteva essere rotto, come tutti gli incantesimi che si rispettino. Bastava solo che la persona giusta facesse la cosa giusta al memento giusto.
La storia che si racconta da sé disse che la bimba era così brava che si era creato un  mondo fantastico in cui non era per niente brava e da cui aveva eliminato tutti gli angoli e le zone d’ombra. In questo mondo irreale non c’era posto per i cattivi e tanto meno per le streghe malvagie che offrivano mele avvelenate. Ma la bimba era brava, ma così brava che aveva capito, lei e solo lei, il nome della strega. L’aveva trovato nascosto in una frase che solo all’apparenza era un rituale magico, ma che molto più probabilmente era un’inconsapevole richiesta di aiuto.
“Specchio, specchio delle mie brame…..”.
La bimba e la strega non si erano mai più incontrate dopo la prima terribile volta: la bimba l’aveva cacciata fuori dalla sua vita, non entrava mai nel suo quartiere e stava per abbandonare la città e la nazione dove viveva la strega per non correre il rischio di imbattersi in lei.
La storia non chiarì come successe che un giorno straordinario di un anno eccezionale la strega e la bimba brava si incontrarono. Ma la storia ci raccontò che furono attimi di grande tensione: la bimba brava aveva paura, la strega godeva nel vederla spaventata.
La strega avanzò brandendo il suo sguardo come una spada affilata, la bimba brava indietreggiò con le gambe che tremavano.
Ma questa volta, nessuno sa perché, la bimba non scappò, ma sollevò la mano e indicando la strega disse:
“Vattene, piccuame”.
Fu come se si fossero aperte le porte del cielo. L’incantesimo era stato rotto: il vero nome della strega era stato pronunciato. La storia qui torna ad raccontarsi in modo confuso e lacunoso e non sappiamo cosa accadde poi.
Dovremmo forse aspettare la vigilia del prossimo Natale per ritrovare la storia che si racconta da sé e farcelo spiegare. Sappiamo però che la strega cattiva ora non è più cattiva e nemmeno strega. Una piccola statuetta di plastica; è tutto quel che rimane in ricordo del brutto periodo nel quale lei era costretta ad essere strega e la bimba brava ad aver paura
Non sapendo come la storia avrebbe finito di raccontarsi ma sapendo che la bimba è brava, ma anche amata, amata, amata, il finale non può essere diverso dal classico “E vissero tutti felice e contenti”.
O almeno questo è l’unico vero regalo che vorremmo per questo Natale e per tutti quelli che verranno

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