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Post - gipoviani

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Altro / SDAT
« il: Agosto 11, 2011, 10:32:37 »
SDAT

La vita è un labirinto dove perde chi esce per primo.
Marsilia ha lo sguardo vuoto. All’improvviso si anima e racconta di quella volta che un bombardamento la sorprese a Livorno. Si salvò solo perché un soldato sconosciuto le si buttò sopra coprendola. Gli dette uno schiaffo, Marsilia, quando le bombe smisero di cadere: il soldato aveva messo le mani dove non doveva. Non rispose al primo schiaffo e nemmeno al secondo e le grida non lo smossero. Era morto così, con la mano fra le cosce di Marsilia.
La vita è un labirinto dove vince chi perde la strada senza smarrire se stesso.
Il suo sguardo si è fatto assente di nuovo.
“A cosa pensa, Marsilia”
“A niente, mica si può pensare sempre a qualcosa” e se ne va.
Fa solo mezzo giro del lungo tavolo che è al centro della sala. Sistema con cura il tappeto che vi è sopra, poi finisce il periplo e torna verso di me.
Mi saluta come se mi avesse appena visto e, con una aria cospiratoria, mi chiede.
“Mi dice come si fa ad uscire da questo posto? Quelle non mi fanno andar via” e indica le suore che vigilano la grande porta che dà sul giardino.
“Fuori c’è mio figlio che m’aspetta, sarà in pensiero. Ieri so’ uscita e non so’ tornata a casa. Starà cercandomi per tutta Poggibonsi”
“Signora Marsilia, mi dispiace, non so come si esce.”
“Nemmeno lei lo sa come s’esce? Però, la facevo più in gamba…”
“Sa che facciamo? S’aspetta che le suore vadano a dormire, ci si vede qui e poi si scappa insieme”
La vita è un labirinto: si cerca continuamente l’uscita ma quando la troviamo è sempre troppo presto.
Ada grida e lancia moccoli, continuamente. Bestemmia e s’arrabbia con Dio e si innervosisce che lui non le risponda.
“LA MAMMA L’ERA MAIALA E IL BABBO BECCO ALLORA GIÙ BOTTE COL BASTONE QUESTE DONNE TUTTE DI MERDA SON SPORCHE E LO PICCHIARONO FINO A FARGLI USCIRE TUTTE LE BUDELLA DA FUORI L’ERAN PUTTANE TUTTE”
Sta quasi sempre in una stanza da sola in compagnia delle sue stesse grida. Racconta storie confuse di amore, morte, violenza.
Come se ricordi di vicende drammatiche venissero prepotentemente a galla nella sua mente e fosse costretta a farli uscire fuori.
Appena mi vede, smette e si fa muta. Sono segreti che non devono essere rivelati.
Vorrei conoscere la sua storia. Vorrei sapere se c’è del vero nei suoi racconti o se il dramma è avvenuto tutto dentro la sua mente.
Vorrei conoscere la vita che ha fatto; da giovane deve essere stata una bella donna. Vorrei sapere chi è la splendida ragazza trentenne, che riesce a nuotare dolce e affettuosa in quel mare di rabbiose bestemmie e che la chiama nonna. E le assomiglia come una goccia d’acqua assomiglia ad un’altra goccia.
Nessun altro parente ho visto mai. Forse neanche lei esiste ed è solo un ologramma dell’Ada del passato.
E anch’io forse mi sto perdendo, ma vorrei mi prendesse per mano e mi portasse a vedere il film della vita di sua nonna e lei fosse la mia personale voce narrante fuori campo e ci fossimo solo noi nella sala all’aperto e lo schermo fosse sotto un cielo stellato in una sera d’estate accarezzata da una fresca brezza. E vorrei ci baciassimo solo dopo la parola FINE.
La vita è un labirinto e usiamo le nostre lacrime per segnare la strada: se qualcuno le asciuga, ci perdiamo.
A Beppino son sempre piaciute le donne. Ma la cosa non è mai stata reciproca, almeno finora. Poche esperienze molte delle quali con professioniste e una moglie noiosa e troppo bigotta per farlo felice. E ora che il sesso è l’ultimo dei suoi problemi, ora che gli tocca continuamente mettere in ordine tutto, dalle sedie ai tavoli, in questo accidenti di posto perché gli altri mettono sempre tutto a casaccio, quella donna lo chiama continuamente. Lo chiama senza dire mai il suo nome.
“Vieni, vieni” le dice dall’altra parte della stanza. E fa segno con la mano.
Che se una volta, una sola santissima volta, l’avesse chiamato Beppino, allora si che l’avrebbe presa con sé per il resto della sua vita.
“Vieni, vieni” quando la portano a tavola.
Una amico una volta gli disse che l’uomo che si fa trovare non è mai veramente amato. “In amor vince chi fugge, Beppino mio” gli diceva il Duccio Guerrieri che di donne ne aveva sempre avute più di quante se ne potesse permettere.
Lui non era mai riuscito a fuggire, erano fuggite sempre prima loro. Anche la moglie se n’era andata prima di lui e l’aveva lasciato solo come un cane, con un figlio che non lo veniva mai a trovare e una figlia che s’era andata a vivere a Messina, pensa un po’.
E l’aveva lasciato con la testa confusa che a volte non si ricordava più nemmeno qual’era bene la differenza fra maschi e femmine. L’amore l’aveva studiato poco e praticato meno e comunque adesso l’aveva bello e dimenticato.
“Vieni, vieni”. Le ripeteva lei.
“Mo’ vengo. Più tardi, ho da fare adesso”. Duccio sarebbe stato orgoglioso di lui.
“Devo sistemare tutte queste seggiole. Mannaggia a chi le sposta sempre”.
E vacci, cazzo, penso io. Falla contenta. Che questo solo l’è rimasto.
Osservo la scena, su l’uscio della porta del salone dove son tutti. Mi sono fermato perché ho sentito la sua voce che chiamava. Non sono entrato indossando il solito sorriso d’ordinanza e recitando il saluto più caloroso che riesca ad interpretare. Mi sono lasciato li, a spiare, non visto, la sua nuova vita.
La vita è un labirinto: non aiuta osservare la fatica di vivere degli altri ma non smettiamo di fare l’errore di aiutarli.
“Gesù, Giuseppe e Maria, ti proteggano sempre”. Sembra un deodorante automatico la Rosina. Appena transiti sufficientemente vicino a lei, emette il suo augurio di tutela divina.
“Finchè c’è la fede c’è tutto” continua poi come a giustificare la ragione del suo provvidenziale intervento.
Buona e dolce la Rosina, ma nessuno le fa mai compagnia. Dove saranno i parenti che magari si son già spartiti l'eredità, perché si fanno pregare per venire a sentirla pregare. E allora ogni tanto parla con me, quando riesce a essere lucida a sufficienza e si emancipa dalle preghiere e dalle richieste di grazia divina.
“Al mi marito gli ho voluto un sacco di bene: per me era un angelo sceso dal cielo”
Beato lui, ho pensato, io che marito son stato anch’io, questa fortuna non l’ho avuta. Sarà perché non sono un angelo e soffro di vertigini e col cielo c’ho poca dimestichezza. E non ho nemmeno la capacità di essere quel diavolo che le donne venerano molto più degli angeli.
“Le nostre tre bambine, quanto gli voleva bene.”
“Era tutto lavoro e famiglia. Ma gli era sempre a giro, faceva il ferroviere, il mi marito”
“Quando tornava dai campi, io gli facevo trovare la tavola apparecchiata. Ma lui prima di mangiare mi dava un bacio e mi diceva che ero la su regina”.
“E poi la domenica andavamo a messa e ci mettevamo nei primi banchi: io, lui e Ascanio il nostro unico figliolo”.
“Il mi marito si che ci sapeva fare: sapeva aggiustare tutto. L’era giornalaio e se li leggeva più lui de’ su clienti i giornali. La sapeva di ogni cosa, il mi povero marito.”
“L’era bravo, tanto bravo. Bastava fossi andata dal parrucchiere, o mi fossi messa un vestito più bello e nemmeno mangiava, ma mi portava in camera, chiudeva la porta chè nostra figlia non entrasse e … lei mi capisce…., vero?”
Invece ci avevo messo un po’ a capire. Prima pensavo fosse colpa mia e avevo sensi di colpa. Non prestavo la dovuta attenzione alle sue parole e sentivo senza ascoltare, finendo per perdermi nei meandri delle sue parole e dimenticarmi i particolari del racconto.
Invece Rosina mi ha fregato. Eppure questo posto che frequento da un po’ . Rosina è riuscita a stupirmi: si inventa ogni volta una storia nuova. In fondo fa sempre quel che noi vorremmo fare, si inventa un nuovo io ad ogni giro. Son convinto che non lo fa per ingannare gli altri o per apparire interessante, Rosina lo fa per se stessa. Si consola inventandosi la vita fantastica che più le piace in quel momento. Gioca a far la narratrice, lei. Mi sa che sono un po’ malato anch’io.
La vita è un labirinto: chissà quante volte passiamo dallo stesso posto e non ce ne accorgiamo.
“Vieni, vie…”, si blocca quando mi vede e il suo viso s’illumina.
La vita di Rita io la conosco, almeno quella ufficiale e quella che mi ha voluto raccontare. Rita l’ho portata io in questo posto una sera di un freddo Febbraio. I vigneti che circondano la casa erano innaturalmente coperti di nebbia, c’era brina fredda sulla parete della chiesa, sugli olivi, sulla cancello di ferro battuto. Una brina che diventava una patina di gelo che stringeva il mio cuore scaldato solo dall’amore dell’angelo che mi accompagnava.
“Andiamo, andiamo” mi dice come prima cosa.
“Andiamo dove, mamma?”
“A Lecce”
Lecce è uno dei tre nomi propri che ancora riesce a maneggiare: Gigi, Rita e Lecce.
E riassume tutti gli altri: casa, gioventù, passato, amori, ricordi: tutto precipitato nella parola Lecce.
Dove non tornerà mai più e se tornasse non se ne accorgerebbe.
E per quanto possa apparire strano, visto che son io che l’ho portata qui: darei un occhio per riportarla a Lecce. Ma non alla città dove entrambi siamo nati e nemmeno alla sua casa dove io sono cresciuto fra le sue pizze con la crusca, le sue lezioni di matematica, il suo sorriso e il suo amore. Ma vorrei portarla alla Lecce che sogna lei.
Mi piacerebbe toglierle, almeno per mezzora, la polvere e le incrostazioni che le bloccano il cervello: restituirle i ricordi, i segreti, le passioni, la sua vita passata. Restituirle i sostantivi, gli aggettivi, i verbi, gli avverbi con cui possa di nuovo raccontarsi la vita.  
Ma quando usciamo fuori dal cancello, la maggior parte delle volte, mi dice:
“Torniamo, ho paura. Torniamo dalle persone”.
Vorrebbe andare a Lecce, ma teme di uscire dal cancello. Sa meglio di me che nella sua Lecce, lei non tornerà più. La sua vita, il suo passato se l’è portata via la SDAT (Senile Dementia of Alzheimer Type) che tiene in ostaggio il suo futuro. E io non posso pagare il riscatto.
La vita è un labirinto.

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Altro / La foto su Facebook
« il: Aprile 16, 2011, 20:43:00 »
“Strano”
Penso leggendo i commenti dei miei ex compagni di classe alla foto del pranzo di classe, poche settimane prima della maturità, che ho postato su facebook. Roba di una trentina di anni fa. E nessuno ricorda chi sia la ragazza parzialmente voltata verso di me che sta fra l’Emanuela in piedi e Tino accucciato in prima fila.
Strano non la ricordino.
Qualcuno di loro storse il naso quando dissi che l’avrei portata e chissà quanti commenti al vetriolo fecero alle mie spalle. Nessuno di loro l’aveva vista prima, nessuno l’avrebbe vista poi.
Ma in quel periodo io e Carmen eravamo insieme tutte le volte che potevamo: ogni separazione mi pareva dolorosa ed eterna.
Capita, a diciannove anni.
Era comparsa un giorno dal nulla. In un corteo di studenti nei giorni tragici del sequestro Moro.  All’improvviso me la vidi accanto.
La notai subito e insieme a me tutti i maschi del corteo.
Non si notavo solo perché era bella ma perché era, come dire, luminosa. L’unica a colori in una foto in bianco e nero.
Aveva qualche anno più di me.
La manifestazione finiva con l’assemblea nell’aula magna dell’università. Feci il mio intervento poi sedetti sulla scalinata ascoltando gli altri.
Lei posò una mano sulla mia e mi guardò. Solo allora notai quanto fossero grandi i suo occhi verdi.. Ci cascai dentro e non riuscì più ad uscirne.
Non era d’accordo con me, mi disse. La violenza fa parte della storia, o lo fai o la subisci, aggiunse. Bloccò i miei tentativi di ribattere, dicendo che doveva andar via.
Se volevo ne potevamo parlare più tardi e mi invitò per la sera nella casa che divideva con altri compagni nel centro in via Idomeneo, vicino a porta Napoli.
Volevo.
Mangiammo una pizza piegata in due, come usava allora, seduti sul suo letto, mentre la voce di Mike Buongiorno che poneva la ferale domanda “Handicap o Cavallino?” arrivava attenuata dall’appartamento accanto.
Per due mesi ci vedemmo tutti i giorni anche se era sempre lei a decidere dove, quando e per quanto.
Avevo molto da imparare in amore. Fu una maestra paziente. Io fui scolaro  molto entusiasta.
Quando le parlai della gita e del pranzo, insistette per venire. Non capii mai bene perché. Non era riuscita ad andare a quella della sua classe, si giustificò.
Al ritorno dalla gita, distesi sul letto in via Idomeneo, mi disse che doveva partire. Le chiesi ancora tranquillo quando sarebbe tornata. Iniziai ad aver paura quando mi disse che non sapeva, cominciai a tremare quando mi resi conto che aveva impacchettato tutte le sue cose liberando la stanza, precipitai nella disperazione quando scorsi i suoi occhi che sapevano di addio.
Non la rividi più.
Dieci giorni prima dell’esame di maturità, mentre annoiavo la Titti parlandole della ginestra di Leopardi, mi cadde l’occhio sul titolo della Gazzetta del Mezzogiorno. In uno scontro a fuoco a Genova con i carabinieri del generale Della Chiesa, una terrorista delle BR era stata colpita a morte. Il suo nome era Carmen Santoro.
Una parte di me si dissolse a Genova con lei.
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 “Papà, allora i tuoi amici si sono accorti del trucco?”
“Shiiii..che sto scrivendo potrebbero leggerci….”
Mia figlia è una maga di Photoshop con cui riesce a fare le cose più difficili. Lavorando su una mia foto e’ riuscita persino a farmi più magro.
Quando le ho chiesto se per scherzo riusciva ad inserire una sconosciuta nella foto di classe, ha detto che sarebbe stato uno scherzo per lei. Nessuno s’accorgerà di nulla, aggiunse. E così è stato: per giorni i miei ex-compagni hanno discusso di una ragazza che non esiste, una ragazza virtuale.
E poi ho raccontato loro una storia incredibile, la storia di Carmen.
“Ma la foto dove l’avevi presa? Era perfetta, abbigliamento dell’epoca, acconciatura anni settanta, il volto che non si vede completamente..”
“In un sito, uno sulla storia del movimento studentesco”.
“Bravo papy, bello scherzo”.
Tecnicamente ho detto la verità, come sempre alle mie figlie.
Solo che il sito dove vi sono ricordi del movimento studentesco è in una scatola di cartone in cima al mio armadio. Fra le altre cose, avevo messo la foto di Carmen e la lettera che mi mandò pochi giorni dopo la sua partenza.
Non la vedevo da quando le avevo detto che non potevo portarla al pranzo di fine anno della III E. C’eravamo messi d’accordo perché nessuno portasse ragazzi o ragazze. Il pranzo era solo per noi,
Al ritorno la cercai inutilmente. In via Idomeneo non c’era nessuno.
Pochi giorni dopo mi arrivò la sua lettera. “Lo so che non sei d’accordo, lo so che in altre circostanze mi avresti addirittura denunciata, ma io entro in clandestinità. Sono stati due mesi splendidi. Ti prego di distruggere questa lettera dopo averla letta, se te la trovano potresti passare dei guai”.
Io invece avevo conservato tutto, la lettera e la foto sopra l'armadio, lei dentro di me.
L'altro giorno, prima di dare la foto a mia figlia, ho finalmente bruciato la lettera.

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