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Post - dorotychecorre

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Sentimentale / Re:Ludovica
« il: Febbraio 04, 2014, 11:19:27 »
Anche voi mi siete mancati molto. Grazie. Felice di essere di nuovo qui con voi. Doroty

2
Sentimentale / Ludovica
« il: Febbraio 04, 2014, 07:29:32 »

Ludovica


Lo guardava vestirsi come un officiante meticoloso. Era seduta sul bordo del letto. Non poteva fare niente per lui così, si mise a seguire la lenta discesa di una goccia d’acqua sui vetri: l’ultimo scroscio di pioggia l’aveva lasciata lì, sola, come un’invitata di una festa finita all’improvviso.
Suo marito uscì mentre lei era ancora seduta sul bordo del letto.
“Oggi non vado a lavorare”; quella possibilità balenò all’improvviso nella sua mente.
“Non vengo oggi, ho la febbre” disse al telefono. Faceva la segretaria in un centro diagnostico. Si vestì in fretta. Uscì.
Il bar di Luigi era ancora chiuso, da tre giorni ormai,  strano, è scappato anche lui, pensò. L’assenza di Luigi le fece sentire più forte la sua inadeguatezza: anche lei non era dove avrebbe dovuto essere.
Recuperò la sua auto dal garage, si diresse verso il litorale. Non viaggiava su quella strada da molto tempo. Fu felice di ritrovarla intatta, così come l’aveva vista l’ultima volta, quella sera: 365 giorni sono molti anche per la vita di una strada, in un anno può cambiare qualunque cosa, basta anche un giorno o un  minuto a volte.
Il mare quella mattina guardava placido le sue onde ricorrersi sul bagnasciuga. Ludovica lo conosceva bene, conosceva i suoi umori e la sua forza.  Mentre lo guardava dallo specchietto retrovisore, provò la stessa gioia incredula di chi ritrova una persona amata creduta persa per sempre.
Ludovica amava il mare. Aveva trascorso tutte le vacanze della sua infanzia alla casa al mare di zia Ester e zio Valerio, con suo fratello Lorenzo. Non avevano cugini, i loro zii non avevano figli e i loro genitori erano sempre alle prese con i lavori in corso del loro matrimonio sempre da riparare. Glieli affidavano volentieri durante il periodo estivo.
Zia Ester allora era una donna di trentacinque anni, piccola di statura con un corpo sottile: piccole caviglie, piccoli polsi, piccole dita. Una miniatura armonica. Negli occhi neri, uno sguardo malinconico, come un presagio o una notte di fine estate.
Zio Valerio la sovrastava, era un uomo altissimo, poderoso.  Un ingegnere edile con la passione per le immersioni subacquee.
Le favole che raccontava ai suoi nipoti erano tutte ambientate in Malaysia, erano le storie vere delle sue immersioni in quella terra in cui era ritornato mille volte,  dove aveva scattato miriadi di fotografie e ne aveva tappezzato tutte le case in cui aveva vissuto. Voleva ricrearsi attorno quel mondo sommerso in cui si sentiva pacificato e fluido, lui, così spigoloso e inarrivabile che quando parlava dei fondali marini si commuoveva di un’emozione arresa. I bambini, grazie a lui, conoscevano il pesce mandarino che compie la sua danza proprio sotto la superficie dell’acqua, i coralli di Sipadan e gli squali dalla pinna bianca, le seppie giganti e i grossi pesci pappagallo dalla fronte gibbosa.
La casa degli zii era enorme. Ogni suo frammento  si animava all’arrivo dei bambini, la loro energia era una corrente sanguigna che scorreva dalla cantina alla soffitta polverosa.
Il pavimento sconnesso con le piastrelle di ceramica blu con ancora qualche pretesa di bellezza, le cassapanche addossate ai muri con i loro lucchetti penzolanti invitanti, un vago alito di naftalina, l’orlo di ragnatela sul bracciolo di una sedia a dondolo: questo, ai loro occhi, apparve, la prima volta che videro quella soffitta; un vecchio grammofono con il suo collo lungo di dinosauro e la bocca spalancata, e al centro della stanza, uno specchio, con le lentiggini di ruggine come orme di piccoli baci depositati dal tempo. Ludovica aveva otto anni, Lorenzo sei. Si guardarono nello specchio quel giorno e furono  come trasportati altrove, forse nel doppiofondo segreto del tempo. Era una  malia sconosciuta quella che animò le loro azioni da quel momento in poi.
Quando ritornarono a guardarsi attorno, ormai abituati alla fioca luce di una lampadina avvolta in una barba di polvere compatta, erano fuori dal loro tempo. Aprirono una vecchia cassapanca. Dentro c’era una carta a fiori sbiadita. La cassa era piena di vecchi abiti.
Ludovica trasse dal ventre di quel relitto e li indossò un cappellino nero con la veletta a pois dello stesso colore, un tubino di velluto con una rosa a mò di fibbia sulla cintola; il fratello scavando accanto a lei, trovò un paio di scarpe decolté, tacco a spillo, e in una scatola di latta adagiata sul fondo, una lunga collana di perle bianche. Sotto, piegati e avvolti in una busta trasparente, dei guanti candidi, lunghi come due braccia di panna lucida.
Eccola, davanti allo specchio, con la mano destra aperta sul cuore: Ludovica.
“Lorenzo metti un disco sul grammofono “ gli chiese di fingere.
“ Che cos’è il grammofono?”
Glielo indicò languida con un cenno della piccola mano guantata.
“Tu metti questi”  un cappello nero e una cravatta a rombi grigi e neri.
Danzavano davanti allo specchio, caracollanti e spavaldi, padroni  di quel loro tempo fuori dal tempo, perfettamente a loro agio nell’enormità di quegli abiti fuori misura.

“Zia Ester abbiamo giocato con i vestiti in soffitta”.
“Me ne sono accorta, avete lasciato tutto in disordine; le patatine scottano fate piano”.
“Ci sei andata anche tu?”
“Si vorrei fare una fotografia a quel vecchio grammofono, ci facciamo un bel quadro, vi piace l’idea? Anzi, ne facciamo due e uno lo regaliamo al vostro maestro  di musica, che ne dite?”
“E’ più bello lo specchio”.
“Come mai ti piace quel vecchio specchio?”
“Non lo so, chiedi a Ludovica”.
“Perché lo specchio parla”.
Ridevano, felici di poter dire tutto quello che gli passava per la testa. Con i genitori non sarebbe stato possibile.
“Lo specchio parla, interessante, e cosa dice?”
Soffocavano le risate riempiendosi la bocca di patatine fritte.
“Lo specchio si conserva le persone”.
“Come le fotografie vuoi dire?”
“Sì”.
“Se ci passi davanti lui poi si ricorda e se ci passi dopo tanto tempo lui poi ti fa vedere com’eri”.
“Meraviglioso, avevamo uno specchio magico in soffitta e non lo sapevamo, dovrò informare zio Valerio appena tornerà”.
“Ma non fa vedere tutti, solo quelli belli, non si ricorda mica di tutti”.
“Di te si ricorderà Lorenzo, perché secondo me sei proprio bello”.
“Ma perché tu sei zia Ester“.
E scoppiarono in una risata con uno spruzzo pirotecnico, alto, di patatine e d’infanzia.

Erano passati trent’anni da allora; quei due bambini avevano vissuto gran parte della loro vita, dei loro sogni, giochi, conquiste, compleanni, vittorie, sconfitte, a casa degli zii, al riparo dalla disfatta dei loro genitori.


Ludovica si ritrovò davanti alla porta di quella casa. Ci era arrivata senza averlo neanche deciso. I ricordi le vennero subito incontro come cani festosi. Bussò. Attese.
 La vecchia governante aprì, la guardò. Non la vedeva da un anno. La fece entrare.
“Zia Ester come sta?” chiese.
 “Quasi sempre seduta sulla sua poltrona negli ultimi tempi. Non ha niente di particolare, il dottore dice che è solo stanca.”
“Adesso sa?”
“No. Mi dispiace per suo fratello signorina, mi è dispiaciuto molto.”
Chiese di vederla.
Percorsero l’ampio corridoio, poi la scala. Oltrepassarono due finestre, aperte sul chiacchierio degli alberi e del vento appena venuto dal mare. Arrivarono davanti ad una porta socchiusa. La governante la guardò per un attimo lunghissimo. Ludovica era di nuovo lì. Dopo tanto tempo. Se ne andò.
Dormiva. Di spalle alla porta, rivolta verso la finestra. Zia Ester dormiva. Ludovica le si sedette accanto, meravigliandosi di tutto lo spazio che quel piccolo corpo lasciava vuoto. L’accarezzò a lungo, le raccontò tante cose, a bassa voce, concitatamente, come faceva quando era piccola e non vedeva l’ora di essere consolata.
Zia Ester era bravissima a consolare i bambini cantando:

C’era una volta un drago
 Che cadde dentro un lago
 Fece una capriola
 E si schiarì la gola

La cosa lo fece ridere
Ma ridere di cuore
Non pianse neanche un po’
E il dolore gli passò.

Ludovica si assopì e quel sonno fu come un punto alla fine di un lungo periodo. Uscì dal suo tempo per entrare in un tempo rallentato, denso, il tempo in cui viveva zia Ester.
Sognò, in un dormiveglia sudato. Era di nuovo piccola, correva su di una scala, era la casa di zia Ester, la riconobbe dal grande quadro con la foto del grammofono appesa nel salone subito a destra dell’ingresso.
Correva, contava le scale otto nove dieci… quindici, aprì. La porta della soffitta si spalancò, lei entrò, di nuovo concitata, non diede  il tempo ai suoi occhi di abituarsi al buio né alle sue mani di cercare l’interruttore della luce, inciampò, riuscì a non cadere, saltellando recuperò l’equilibrio, trovò l’interruttore e una luce fioca inondò volenterosamente la stanza lasciandone  comunque la metà in penombra.
Era lì davanti finalmente, davanti allo specchio.  Era quello che stava cercando. Affannata per la corsa guardava,  respirando velocemente, la sua immagine riflessa. Vedeva un vestito a fiori rossi, gialli, un corpetto stretto su di una gonna ampia a pieghe. I calzini bianchi con il merletto sull’orlo e le scarpette rosse con la cinghietta a forma di farfalla. Il cerchietto rosa nei capelli biondi a caschetto e gli occhi pieni di lacrime.
Chiamava qualcuno guardando dentro lo specchio, come se si aspettasse di vederlo comparire all’improvviso sorridendo: “Dai non piangere, volevo solo farti uno scherzo”. Aveva già sognato quella scena molte volte.

 Si svegliò. La  vide seduta sulla poltrona di fronte alla finestra ma non guardava fuori, guardava lei e sorrideva, per niente meravigliata di vederla lì.
“Ciao. Lorenzo non è venuto?”
“No zia Ester.  Come stai? Ti va di fare una passeggiata sulla spiaggia?”
“Che ore sono?”
“Non lo so”.


Camminavano lentamente, sul lungomare.
“ Non sono venuta a trovarti prima perché i tuoi dottori mi hanno detto che dovevi riposare. Adesso come stai?”
“Lorenzo non è venuto?”  Rispose, come se non avesse proprio sentito.
“No, zia Ester.  Non verrà”  aggiunse, sentendosi quasi colpevole.
“Non avete concerti da studiare?“

Non suono più . Lorenzo è morto. Il suo violoncello e il mio violino sono chiusi in soffitta, a casa tua.
“No, adesso no. Cosa fai tutto il giorno, viene a trovarti qualcuno?”
La guardò con un sorriso che chiedeva la sua complicità, forse. Stiamo in silenzio, sono tanto stanca.
Camminavano così, vicine, appoggiate l’una all’altra, come due tessere spaiate di un puzzle inghiottito dal vento.
 “Ho sognato che Lorenzo era furioso con te perché avevi rotto il violino: lo hai rotto veramente?”
Non suono più. Avrebbe voluto dirglielo. Zia Ester Lorenzo è morto. Il suo violino e il mio violoncello sono chiusi adesso. Lorenzo è morto e con lui zio Valerio, tuo marito. Stesso incidente. Tu non ti ricordi. La notizia della morte di tuo marito, dicevano i medici, ti aveva smarrita. E’ facile smarrirsi senza luce. Le persone come Lorenzo e zio Valerio se ne stanno lì, con quella loro meravigliosa grandezza, con tutta quella luce che gli avanza, leggeri come grappoli di lucciole. Quando si spengono non c’è più rimedio alla notte nel loro mondo, le tenebre divorano velocemente anche l’ultimo avanzo di quello splendore. Ci siamo persi in questo buio: io, tu, i miei genitori; a proposito, si sono separati, li vedo poco. Io mi sono messa dentro una vita qualunque, come un vestito tirato su in fretta, il tempo di chiudere una lampo, un lampo, corto circuito di una vita e il dolore piegato piccolo in qualche angolo del cuore, sperando di dimenticarlo lì, sotto un cumulo di altri ricordi.
Zia Ester, sono finalmente qui, , a ricordarmi chi sono, perché ho capito che se apro gli occhi la notte si rischiara.
La sentì tremare, capì che doveva riportarla a casa.
La riaccompagnò alla sua poltrona.
“Ludovica”.
“Sì?”
“Lorenzo verrà con te la prossima volta?”
“No, zia Ester.  Non verrà”, aggiunse a bassa voce.
S’incamminò verso la porta, le sembrava di aver lasciato il filo del suo aquilone.
“Ma io tornerò, non volare troppo lontano perché io ritornerò.”
Salì in soffitta, la porta era socchiusa. Entrò. Cercò le custodie dei loro strumenti, le trovò quasi subito. Le portò accanto alla specchio, le aprì.
Accarezzò le corde , una ad una, le riconosceva dallo spessore, con una familiarità intima, straziante. Le lasciò così, le custodie aperte, di nuovo esposte all’oltraggio del tempo e della polvere. Sarebbe stata costretta a tornare per occuparsi, ogni volta, di quello che rimaneva.
Uscì. Era ora di tornare a casa. Francesco la stava aspettando.

Zia Ester guardava il mare ora. Un pianeta azzurro apparentemente sempre uguale di cui lei conosceva ogni increspatura. Da qualche tempo stava studiando di quanti colori può essere: azzurro, blu, indaco, cobalto, bianco.
C’era un azzurro, che il mare indossava pochi attimi dopo certe albe. Era poco più di un’ombra: bisognava avere occhi attenti e una certa esperienza per riuscire a scoprirlo. Lei lo aveva visto dopo tanto tempo che scrutava.
Lo vide un giorno e la dolcezza di quella visione non le lasciò dubbi sul nome da dare a quell’azzurro.













     


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Sentimentale / Re:Quante come me...
« il: Ottobre 20, 2012, 19:21:16 »
Il racconto è molto bello e poi mi è piaciuta la presenza del mare che io amo molto. Brava. A presto.
 

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Sentimentale / Re:Ludovica ( nuova versione)
« il: Ottobre 20, 2012, 19:11:36 »
Sei molto gentile, grazie. Doroty

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Sentimentale / Ludovica ( nuova versione)
« il: Ottobre 18, 2012, 19:49:45 »

 


Ludovica



Lo guardava vestirsi come un officiante meticoloso. Era seduta sul bordo del letto. Non poteva fare niente per lui così, si mise a seguire la lenta discesa di una goccia d’acqua sui vetri: l’ultimo scroscio di pioggia l’aveva lasciata lì, sola, come un’invitata di una festa finita all’improvviso.
Suo marito uscì mentre lei era ancora seduta sul bordo del letto.
“ Oggi non vado a lavorare”; quella possibilità balenò all’improvviso nella sua mente.
“ Non vengo oggi, ho la febbre” disse al telefono. Faceva la segretaria in un centro diagnostico. Si vestì in fretta. Uscì.
Il bar di Luigi era ancora chiuso, da tre giorni ormai,  strano, è scappato anche lui, pensò. L’assenza di Luigi le fece sentire più forte la sua inadeguatezza: anche lei non era dove avrebbe dovuto essere.
Recuperò la sua auto dal garage, si diresse verso il litorale. Non viaggiava su quella strada da molto tempo. Fu felice di ritrovarla intatta, così come l’aveva
vista l’ultima volta, quella sera : 365 giorni sono molti anche per la vita di una strada, in un anno può cambiare qualunque cosa, basta anche un giorno o un  minuto a volte.
Il mare quella mattina mostrava il suo volto più pudico, sembrava capace solo di guardare le onde ricorrersi sul bagnasciuga,. Non era così. Lei lo sapeva, lo conosceva bene cioè conosceva i suoi umori e la sua forza.  Mentre lo guardava dallo specchietto retrovisore provava la stessa tenerezza incredula di chi ritrova una persona amata creduta persa per sempre.
Ludovica amava il mare. Aveva trascorso tutte le vacanze della sua infanzia alla casa al mare di zia Ester e zio Valerio, con suo fratello Lorenzo. Non avevano cugini, i loro zii non avevano figli e i loro genitori erano sempre alle prese con i lavori in corso del loro matrimonio sempre da riparare. Glieli affidavano volentieri durante il periodo estivo.
Zia Ester allora era una donna di trentacinque anni, piccola di statura con un corpo sottile: piccole caviglie,piccoli polsi, piccole dita. Una miniatura armonica. Negli occhi neri, uno sguardo malinconico, come un presagio o una notte di fine estate.
Zio Valerio la sovrastava, era un uomo altissimo, poderoso.  Un ingegnere edile con la passione per le immersioni subacquee.
Le favole che raccontava ai suoi nipoti erano tutte ambientate in Malaysia, erano le storie vere delle sue immersioni in quella terra in cui era ritornato mille volte,  dove aveva scattato miriadi di fotografie e ne aveva tappezzato tutte le case in cui aveva vissuto. Voleva ricrearsi attorno quel mondo sommerso in cui si sentiva pacificato e fluido, lui così spigoloso e inarrivabile che quando parlava dei fondali marini si commuoveva di un’emozione infantile e arresa. I bambini conoscevano il pesce mandarino che compie la sua danza proprio sotto la superficie dell’acqua, i coralli di Sipadan e gli squali dalla pinna bianca, le seppie giganti e i grossi pesci pappagallo dalla fronte gibbosa.

La loro era una casa enorme. Ogni suo frammento  si animava all’arrivo dei bambini, la loro energia era una corrente sanguigna che cominciava a scorrere dalla cantina e via via accresceva il suo impeto in altezza fino ad arrivare, come un’onda di vetro frantumata in mille schegge liquide, nella soffitta polverosa.
Il pavimento sconnesso con le piastrelle di ceramica blu con ancora qualche pretesa di bellezza, le cassapanche addossate ai muri con i loro lucchetti penzolanti invitanti, un vago alito di naftalina l’orlo di ragnatela sul bracciolo di una sedia a dondolo, un vecchio grammofono con il suo collo lungo di dinosauro e la bocca spalancata, e al centro, di quel luogo misterioso come una terra dimenticata, uno specchio, con le lentiggini di ruggine come orme di piccoli baci depositati dal tempo: questo, ai loro occhi , apparve, il primo giorno che la videro, quella soffitta.
Ludovica aveva otto anni, Lorenzo sei. Si guardarono nello specchio e furono  come trasportati altrove, forse nel doppiofondo segreto in cui erano precipitate tutte le immagini fino ad allora fugacemente riflesse. Era una  malia sconosciuta quella che animò le loro azioni da quel momento.
Quando ritornarono a guardare  attorno, ormai abituati alla fioca luce di una lampadina avvolta in una barba di polvere compatta, erano fuori dal tempo. Aprirono una vecchia cassapanca. Dentro c’era una carta a fiori sbiadita. La cassa era piena di vecchi abiti.
Ludovica trasse dal ventre di quel  relitto un cappellino nero con la veletta a pois dello stesso colore, e poi un tubino di velluto con una rosa a mò di fibbia sulla cintola; il fratello scavando accanto a lei sotto il velo invisibile del tempo trovò un paio di scarpe decolté, tacco a spillo e in una scatola di latta adagiata sul fondo,  una lunga collana di perle bianche. Sotto, piegati e avvolti in una busta trasparente, dei guanti candidi, lunghi come due braccia di panna lucida.
Eccola, davanti allo specchio, con la mano destra aperta sul cuore: Ludovica.
-   Lorenzo metti un disco sul grammofono – gli chiese di fingere.
-   Che cos’è il grammofono?
Glielo indicò languida con un cenno della piccola mano guantata.
-   Tu metti questi- un cappello nero e una cravatta a rombi grigi e neri.
Danzavano davanti allo specchio, caracollanti e spavaldi, padroni  di quel loro tempo fuori dal  tempo, perfettamente a loro agio nell’enormità di quegli abiti fuori misura.

-   Zia Ester abbiamo giocato con i vestiti in soffitta
-   Me ne sono accorta, avete lasciato tutto in disordine; le patatine scottano fate piano
-   Ci sei andata anche tu?
-   Si vorrei fare una fotografia a quel vecchio grammofono , ci facciamo un bel quadro, vi piace l’idea? Poi la regaliamo al vostro maestro  di musica, che ne dite?
-   E’ più bello lo specchio
-   Come mai ti piace quel vecchio specchio?
-   Non lo so,chiedi a Ludovica
-   Perché lo specchio parla
Ridevano, felici di poter dire tutto quello che gli passava per la testa. Con i genitori non sarebbe stato possibile.
-   Lo specchio parla, interessante, e cosa dice?
Soffocavano le risate riempiendosi la bocca di patatine fritte.
-   Lo specchio si conserva le persone
-   Come le fotografie vuoi dire
-   Si
-   Se ci passi davanti lui poi si ricorda e se ci passi dopo tanto tempo lui poi ti fa vedere com’eri
-   Meraviglioso, avevamo uno specchio magico in soffitta e non lo sapevamo, dovrò informare zio Valerio appena tornerà
-   Ma non fa vedere tutti, solo quelli belli, non si ricorda mica di tutti
-   Di te si ricorderà Lorenzo, perché secondo me sei proprio bello
-   Ma perché tu sei zia Ester-
E scoppiarono in una risata con uno spruzzo pirotecnico, alto, di patatine e d’infanzia.

Erano passati trent’anni da allora; quei due bambini avevano vissuto gran parte della loro vita, dei loro sogni, giochi, conquiste, compleanni, vittorie, sconfitte, a casa degli zii, al riparo dalla disfatta senza resa dei loro genitori.


Ludovica quel giorno si ritrovò davanti alla porta di quella casa. Ci era arrivata senza averlo neanche deciso. I ricordi le vennero subito incontro come cani festosi. Bussò. Attese.
 La vecchia governante aprì, la guardò. Non la vedeva da un anno. La fece entrare.
“Zia Ester come sta?” chiese
“ Quasi sempre seduta sulla sua poltrona negli ultimi tempi. Non ha niente di particolare, il dottore dice che è solo stanca.”
“Adesso sa ?”
“ No. Mi dispiace, anche per suo fratello signorina, mi è dispiaciuto molto.”
Chiese di vederla.
Percorsero l’ampio corridoio, poi la scala. Oltrepassarono due finestre, aperte sul chiacchierio degli alberi e del vento appena venuto dal mare. Arrivarono davanti ad una porta socchiusa. La governante la guardò per un attimo lunghissimo. Ludovica era di nuovo lì. Dopo tanto tempo. Se ne andò.
Dormiva. Di spalle alla porta, rivolta verso la finestra. Zia Ester dormiva. Ludovica le si sedette accanto, meravigliandosi di tutto lo spazio che quel piccolo corpo lasciava vuoto. L’accarezzò a lungo, le raccontò tante cose, a bassa voce, concitatamente, come faceva quando era piccola e non vedeva l’ora di essere consolata.
Zia Ester era bravissima a consolare i bambini cantando:


C’era una volta un drago
 Che cadde dentro un lago
 Fece una capriola
 E si schiarì la gola

La cosa lo fece ridere
Ma ridere di cuore
Non pianse neanche un po’
E il dolore gli passò

Ludovica si assopì e quel sonno fu come un punto alla fine di un lungo periodo. Uscì dal suo tempo per entrare in un tempo rallentato, denso, il tempo in cui viveva zia Ester.

Sognò, o forse ricordò, in un dormiveglia sudato. Era di nuovo piccola, correva su di una scala, era la casa di zia Ester, la riconobbe dal grande quadro con la foto del grammofono appesa nel salone subito a destra dell’ingresso.
Correva, contava le scale otto nove dieci … quindici, aprì. La porta della soffitta si spalancò, lei entrò, di nuovo concitata, non diede  il tempo ai suoi occhi di abituarsi al buio né alle sue mani di cercare l’interruttore della luce, inciampò, riuscì a non cadere, saltellando recuperò l’equilibrio, trovò l’interruttore e una luce fioca inondò volenterosamente la stanza lasciandone  comunque la metà in penombra.
Era lì davanti finalmente, davanti allo specchio.  Era quello che stava cercando. Affannata per la corsa guardava  respirando velocemente la sua immagine riflessa. Vedeva un vestito a fiori rossi, gialli, bianchi, le spalline larghe, un corpetto stretto su di una gonna ampia a pieghe. I calzini bianchi trasparenti con il merletto sull’orlo e le scarpette rosse con la cinghietta attaccata ad un bottone a farfalla. Il cerchietto rosa nei capelli biondi a caschetto, a onde  morbide arruffate dalla corsa, e gli occhi pieni di lacrime.
Chiamava qualcuno guardando dentro lo specchio, come se si aspettasse di vederlo comparire all’improvviso sorridendo: - Dai non piangere, volevo solo farti uno scherzo-

 Si svegliò la vide seduta sulla poltrona di fronte alla finestra ma non guardava fuori, guardava lei e sorrideva, per niente meravigliata di vederla lì.
“ Ciao. Lorenzo non è venuto?”
“No zia Ester.  Come stai? Ti va di fare una passeggiata sulla spiaggia?”
“Che ore sono?”
“Non lo so”.


Camminavano lentamente, sul lungomare.
-   Non sono venuta a trovarti perché i tuoi dottori mi hanno detto che dovevi riposare. Adesso come stai?-
“Lorenzo non è venuto?” Rispose, come se non avesse proprio sentito.
“No zia Ester.  Non verrà.”  Aggiunse, sentendosi quasi colpevole.
-   Non avete concerti da studiare?-

Non suono più . Lorenzo è morto. Il suo violoncello e il mio violino sono chiusi in soffitta, a casa tua.
-   No, adesso no. Cosa fai tutto il giorno, viene a trovarti qualcuno?-
La guardò con un sorriso che chiedeva la sua complicità, forse.
 Stiamo in silenzio, sono tanto stanca.
Camminavano così, vicine, appoggiate l’una all’altra come due tessere spaiate di un puzzle inghiottito dal vento.
 “Ho sognato che Lorenzo era furioso con te perché avevi rotto il violino: lo hai rotto veramente?”
Non suono più. Avrebbe voluto dirglielo. Zia Ester Lorenzo è morto. Il suo violino e il mio violoncello sono chiusi adesso. Lorenzo è morto e con lui zio Valerio, tuo marito. Stesso incidente. Tu non ti ricordi. La notizia della morte di tuo marito, dicevano i medici, ti aveva smarrita. E’ facile smarrirsi senza luce. Le persone come Lorenzo e zio Valerio se ne stanno lì, con quella loro meravigliosa grandezza, con tutta quella luce che gli avanza, leggeri come grappoli di lucciole. Quando si spengono non c’è più rimedio alla notte nel loro mondo, le tenebre divorano velocemente anche l’ultimo avanzo di quello splendore. Ci siamo persi in questo buio: io, tu, i miei genitori; a proposito, si sono separati, li vedo poco. Io mi sono messa dentro una vita qualunque, come un vestito tirato su in fretta, il tempo di chiudere una lampo, un lampo, corto circuito di una vita e il dolore piegato piccolo in qualche angolo del cuore, sperando di dimenticarlo lì, sotto un cumulo di altri ricordi.
Zia Ester, sono finalmente qui, , a ricordarmi chi sono, perchè ho capito che se apro gli occhi la notte si rischiara.
La sentì tremare, capì che doveva riportarla a casa.
La riaccompagnò alla sua poltrona.
“Ludovica”
“Si”
“Lorenzo verrà con te la prossima volta?”
“No zia Ester.  Non verrà”Aggiunse a bassa voce.
S’incamminò verso la porta, le sembrava di aver lasciato il filo del suo aquilone.
“Ma io tornerò, non volare troppo lontano perché io ritornerò.”
Salì in soffitta, la porta era socchiusa. Entrò. Cercò le custodie dei loro strumenti, le trovò quasi subito. Le portò accanto alla specchio, le aprì.
Accarezzò le corde , una ad una, le riconosceva dallo spessore, con una familiarità intima, straziante. Le lasciò così, le custodie aperte, di nuovo esposte all’oltraggio del tempo e della polvere. Sarebbe stata costretta a tornare per occuparsi, ogni volta, di quello che rimaneva.
Uscì. Era ora di tornare a casa. Francesco la stava aspettando.

Zia Ester guardava il mare ora. Un pianeta azzurro apparentemente sempre uguale di cui lei conosceva ogni increspatura. Da qualche tempo stava studiando di quanti colori può essere: azzurro, blu, indaco, cobalto, bianco.
C’era un azzurro, che il mare indossava pochi attimi dopo certe albe. Era poco più di un’ombra: bisognava avere occhi attenti e una certa esperienza per riuscire a scoprirlo. Lei lo aveva visto dopo tanto tempo che scrutava.
Lo vide un giorno e la dolcezza di quella visione non le lasciò dubbi sul nome da dare a quell’azzurro.








     



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Sentimentale / Re:Il peccato e i peccatori
« il: Settembre 29, 2012, 14:52:37 »
Un finale assolutamente inatteso e per questo efficacissimo. Bravo, l'ho letto d'un fiato. Doroty

7
Sentimentale / Re:Alina
« il: Settembre 29, 2012, 08:53:13 »
Grazie. Non è necessario essere una donna per condividere delle emozioni che sono di tutti anche se il modo di viverle è diverso. Grazie per aver letto il mio racconto.
P.S. E poi, secondo me, il vero protagonista di questa storia è Luigi. Punti di vista... A presto.

8
Sentimentale / Re:Alina
« il: Settembre 28, 2012, 21:25:02 »
Ne sono sicura, ti sento molto vicina e affine. Un caro saluto. Doroty

9
Sentimentale / Re:Alina
« il: Settembre 28, 2012, 18:16:11 »
Sono una donna che per tanto tempo è stata etichettata come " un maschiaccio" con tutta la mia sensibilità nascosta ben bene dentro i miei vestiti informi e così via. Poi scrivendo sono diventata coraggiosa, mi sono innamorata del mio essere donna e mi piace esplorare anime femminili perchè ho ancora tanto da scoprire. Grazie per essere passata da qui. Doroty

10
Sentimentale / Re:I remember
« il: Settembre 26, 2012, 10:08:24 »
Fino ad ora non sapevo niente di te che sei così gentile da leggere sempre le mie storie e lasciarmi dei commenti preziosi. Leggendo queto tuo testo mi è sembrato di incontrarti. Descrivi un mondo dotato di senso mentre oggi è molto difficile rimanere lucidi e comprendere dov'è " l'imbroglio", dov'è l'equivoco. Raccontalo sempre questo tuo mondo, racconta di quella ragazza, mi è sembrata di vederla, che lo voleva cambiare quel suo mondo, abbiamo tutti bisogno di ricordarci quale forza dirompente abbiano l'amore e la passione nel trasformare i cuori delle persone e quindi il corso della storia. Grazie, mi ricorderò anch'io di quella signora seduta su di una nuvola. Doroty

11
Sentimentale / Re:Alina
« il: Settembre 25, 2012, 22:45:56 »
Grazie di cuore per la tua infinita pazienza, sei una lettrice preziosa.Grazie. Doroty

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Sentimentale / Alina
« il: Settembre 25, 2012, 11:00:21 »
                   



Alina


Quella notizia in prima pagina Luigi non l’aveva ancora letta.

Era un bar accogliente il suo, fasciato dalla musica jazz di cui amava il sound vellutato, dalle chiacchiere dei numerosi avventori, dall’arcobaleno dei cocktails, dalla vista, proprio di fronte, delle barche sulla spiaggia: sembrava la siesta di enormi cetacei a riposo, fuori dal mondo come sogni mai realizzati.

La notizia era sul quotidiano lasciato aperto, su quel tavolino, l’ultimo in fondo al locale.

Di Luigi appena entravi vedevi il sorriso, poi i capelli neri lunghi sul collo. Aveva mille di tutto: parole, risate, mani; dirigeva da solo l’orchestra del suo bar, una Dixieland caciarona e goliardica.
Solo qualche volta, in certe ore del tramonto, Luigi guardava le barche capovolte sulla spiaggia, immobile, pensando a chissà cosa, a chissà chi.
Si sedette a leggere il giornale nel pomeriggio. Il bar quasi deserto era un ventre vuoto, mentre un incantesimo di silenzio lo avvolgeva.
Avevano ferito una prostituta, in un paese a 700 km. da lì; Alina Dubrovsna. La foto. L’efferatezza. L’edificio della notizia costruito piano su piano. Lui si era fermato alla fotografia, appena sotto l’urlo del titolo. Quell’immagine aveva spalancato la porta dei suoi ricordi e si era ritrovato seduto ad un altro tavolo, di un altro bar, a leggere un altro giornale: Breslavia, agosto 2000, primo mattino, ultimi giorni di ferie.


Era rimasto solo, gli amici con cui era partito, erano ritornati in Italia il giorno prima. Lui aveva deciso di restare un’altra settimana, voleva vagabondare senza orari, senza nessuno con cui dover continuamente negoziare mete  o altro.
Quella mattina, si era alzato presto, alloggiava all’ostello Meleczani adesso. Era un luogo caldo e informale, le stanze si raggiungevano salendo una scala di legno mentre la hall era in realtà un grande salone organizzato ad angoli: l’angolo del computer, l’angolo della lettura. Lui li chiamava così. Era un via vai di gente continuo, Luigi si sentiva a suo agio in quel luogo, all’Art Hotel, dove aveva alloggiato con gli amici, si era sentito a disagio, gli alberghi non gli piacevano.
Quella mattina aveva deciso di visitare il vecchio edificio della Hala Targova, all’interno del quale si teneva il mercato: alimentari, salumi, dolci, frutta e verdura, si presentarono ai suoi occhi, colorandoli di un arcobaleno fresco che sembrava chiamarlo. Le bancarelle si contendevano la sua attenzione, al pari dei venditori che lo invitavano,dicendo chissà cosa, a provare le loro mercanzie profumate. Luigi sapeva solo dire Dziekje, grazie, e continuava a ripeterlo, veramente grato perché sentiva che quella città gli si stava finalmente concedendo, con i colori del suo cibo, le voci che parlavano quell’idioma impossibile, irto di consonanti eppure dolce nell’intonazione, gli odori forti provenienti dai ristoranti e dai pub disseminati ovunque, continui attracchi accoglienti accanto all’acqua dell’Oder, che, silenziosa, scorreva a poca distanza da lì.
Percorso tutto il mercato, a destra dell’entrata, trovò il Bar Mleezny, dalla sua inseparabile guida aveva appreso che in quella tavola calda servivano degli ottimi pierogi, ravioli pieni di carne, cavolo, funghi, ricotta e a richiesta frutta fresca.  Entrò, si sedette. Si mise a guardare un giornale che qualcuno aveva dimenticato sul tavolo.
Qualche giorno prima, passando con i suoi amici, aveva visto una cosa straordinaria su quel tavolo: una grossa ciotola di mollica di pane, sembrava una pentola di terracotta smaltata: lucida, stesso colore, stessa forma, una pentola con tanto di coperchio. La guida gli aveva raccontato che dentro quella ciotola c’era lo zurek, segale fermentata e salsiccia.
Avrebbe voluto fermarsi davanti a quella meraviglia ma gli amici lo avevano portato via a vedere chiese, bellissime, austere, imperdibili, le pentole di pane potevano aspettare.

Lo guardava con aria interrogativa quella cameriera, forse gli aveva già chiesto qualcosa e lui, assorto, non aveva sentito.
 La guardò. Ordinò un cappuccino e riuscì ad ottenerlo nonostante il suo inglese stentato.
Quando si alzò per andare alla cassa a pagare si accorse che lo guardava.
Uscendo, la vide al banco da sola, lavava i bicchieri.
“What’s your name?”
“Alina”
Aveva una sguardo che ricordava qualcosa di solido, una forza verde, compatta.
“I’m Luigi “
Si accorse di ritornare sempre in quel bar solo quando un giovane cameriere, in un inglese più stentato del suo, gli disse:
“I’m sorry mister, your table it’s taken “
Non si era accorto di avere qualcosa di suo in quel posto: ”Il suo tavolo è occupato.”
“Do you like that? “
“Yes, thanks. “ Si grazie, va bene un tavolo qualunque pensò; sceglievo sempre l’altro perché è lì che l’ho vista la prima volta, è stato come rimettere una canzone sempre da capo, sempre dall’inizio.
Cominciarono a vedersi dopo il lavoro. Passeggiavano, senza dirsi molto, conoscevano troppo poco l’unica lingua nota ad entrambi per metterci dentro sensazioni troppo intime.
La prima volta che si videro fuori da quel locale si diedero appuntamento nella piazza del Mercato.
Luigi era arrivato in anticipo: agosto, domenica mattina, ore 10.30.
Il municipio gotico al centro della piazza pretese la sua attenzione, quella magnificenza solida e solenne lo portò per un attimo via da lì, da quell’emozione intima, quasi negata, che provava per quell’incontro.
Stava per consultare la sua guida quando la vide: capì che non l’avrebbe mai raggiunta veramente, era forte e distante come quel monumento bellissimo.
Cominciarono a camminare; arrivarono fino all’università, attraversarono l’Odra, in riva alla quale, videro lo gnomo lavandaio.
-   Little man – sorrise Alina
-   Goblin – corresse Luigi e le prese la mano. Lei gliela diede con naturalezza. Non avevano tante parole, cercavano dei gesti che potessero accorciare le distanze.
Arrivarono all’’isola della Cattedrale. Decisero di salire in cima alla torre della Cattedrale di san Giovanni Battista con la sua vista panoramica.
 Luigi era completamente sedotto da quella città, gli sembrava fuori dal tempo, la città delle fiabe remota e dichiarata inesistente da quelli che sanno le cose. E invece eccola lì, sotto i suoi occhi adulti da ragazzino: l’abbraccio eterno di quel fiume specchio magico di luce fresca, le casette di Hansel e Gretel, i castelli sicuramente pieni di fantasmi e fate, le chiese con le guglie dritte puntate senza paura verso il cielo, i giardini silenziosi dove forse di sera tornavano ad abitare le piccole anime di tutti gli gnomi disseminati per la città.
Gli sembrava tutto innocente e luminoso come il  bacio improvviso dato a quella donna e con lei a quella terra di una bellezza commovente.
Si abbracciarono. – Yu’re beautiful likeWroclaw, you’re moving”
“ Wher’re you from?”
“ Salerno, it is like Wroclaw, waterfront, near the sea. My home pressed to the port”
“ Very nice”
“One day  y ou’ill come to see you?”
“ Yes, someday, maybe” sorrise.

Luigi se ne innamorò con la stessa luminosa lentezza dell’olio che scivola denso nell’imbuto.
La scopriva, piano piano, come un regalo a lungo atteso di cui non si vuole rovinare l’involucro.
 Non bastava guardarla, Alina andava esplorata dentro i suoi innumerevoli sguardi, nel sorriso morbido e raro, nella curva dolce del collo, nelle mani magre, nei cambiamenti d’umore irragionevoli come la sua vita sempre altrove, sempre un po’ più in là: - Un giorno andrò...Tra un anno avrò abbastanza denaro per…-
Alina non era piccola era sottile, di una piccolezza proporzionata, resa illusoriamente più grande dal granito dello sguardo.
Si lasciava amare, indulgente verso un gioco che non la coinvolgeva molto. Lei era più simile ad un giocatore di scacchi, teso, sotto l’assedio dell’avversario. Era costantemente alla ricerca di un varco, mentre la vita le urlava contro con la povertà e il suo squallore, la volgarità di certi uomini al bar, il silenzio della sua famiglia smembrata e invisibile.
Era la primogenita di cinque figli. Il padre Michael, era un insegnante polacco che parlava bene l’inglese. A 45anni aveva lasciato la scuola e si era messo a fare il tassista e il private driver per i turisti. Dopo due anni di quel lavoro se n’era andato in Irlanda con una turista intraprendente che lo aveva convinto a seguirla. Si era fatto convincere perché a Michael piacevano i colpi di testa, gli davano più adrenalina del sesso, delle gare di bevute di vodka o di qualunque altra cosa: mollare tutto e rilanciare, partire alla conquista di qualcosa d’inesplorato, ecco cosa lo faceva sentire vivo. Se ne andò.
Scomparve un giorno dopo aver consegnato una lettera ad Alina, dodicenne, raccomandandole di darla alla madre: - E’ per tua madre, dagliela. Ciao. Tieni aperta la porta, ho le mani impegnate”. Dalle valigie. Perché papa’ ha le valigie?
“ Papà dove vai?” Era già in fondo alle scale. L’unica risposta, il portone che si chiudeva.
La madre ricamava sul lino: camicie, centrini, lenzuola, tendaggi. Aveva un negozietto nella città vecchia. La porta del negozio si raggiungeva salendo quattro scalini. Sul primo, era appoggiato un cesto di vimini con dei fiori freschi immersi in un vasetto di vetro. La mamma di Alina li comprava ogni giorno. Poi apriva il suo negozietto e d’estate si metteva sulla porta a ricamare. Si chiamava Pedra ma quel nome non le stava bene, era un nome troppo duro per lei, lei era un filo sottile, intrecciato in infiniti arabeschi di filo colorato sulla stoffa ruvida della vita.
Quando lesse la lettera di Michael non disse nulla. Pioveva quel giorno, Pedra indossò di nuovo l’impermeabile e si diresse verso la porta:- Alina apparecchia, i tuoi fratelli tornano affamati da scuola lo sai- la bambina avrebbe voluto seguirla ma lei era già sulle scale.
La ritrovarono la sera stessa, sulle rive dell’Odra, ci era arrivata volando da un ponte. Il filo si era spezzato.
I fratelli di Alina finirono in Istituto. Alina venne affidata ad una zia materna che lavorava come cameriera in un ristorante, era vedova.
Alina era una terra deserta ora, sopravvissuta ad una geografia familiare cancellata, divorata, estinta.
Si mise a lavorare con la zia: erano due donne sole, con poco denaro e tanta voglia di averne per potersi comprare qualche altro giro sulla giostra della
Erano passati dieci da allora quando Luigi se ne innamorò. Viveva nei confini del suo corpo, si nutriva di lei, la spiava mentre lavorava, la guardava respirare piano mentre di notte dormiva, la schiena nuda illuminata dalla luna.

Fu costretto a partire dopo un mese; lei lo avrebbe raggiunto, erano d’accordo.
La lasciò a malincuore mentre continuava a salutarla dal treno.

Glielo disse al telefono, dopo sei mesi: “ Do not look for more”
“ Non mi cercare più”. Aveva trovato come venire In Italia, un modo, uno dei tanti, ma era una strada che doveva percorrere da sola.
La faceva ridere quell’uomo al bar con tutte quelle balle che le raccontava sull’Italia, descritta come una terra promessa piena di lavoro,soldi, amore. Il loro amore. Alina lo sapeva benissimo cosa l’aspettava, voleva lavorare in proprio però; lo aveva deciso una notte in cui non riusciva a dormire, la zia russava nel letto accanto al suo e l’anta cadente della credenza  così vicina al suo letto le era sembrata oscena, insopportabile. Quell’uomo l’avrebbe traghettata fino all’Eden, a sue spese, poi ci avrebbe pensato lei ad organizzarsi.
Se ne andò come il padre, una sera, all’improvviso, il tempo di una telefonata:
“ Do not look more” , non mi cercare più…
Luigi aveva imparato dal suo bar a vedere le persone entrare, consumare, uscire dalla sua vita. A volte tornavano, altre no.  Se ne fece una ragione. Se ne fece una ragione ma ci pensava, forse, in quelle ore del tramonto.

La zia non provò nemmeno a cercarla o a denunciarne la scomparsa. Tirò dritta per la sua strada come un ladro inseguito dalla polizia, preoccupato di mimetizzarsi tra la folla, di non destare sospetti. Voleva evitare di irritare la vita chiedendole spiegazioni e attrarre così altre sfortune.
Niente eroismi e che ognuno badi a se stesso. Questo pensava , mentre guardava la strada vuota, dalla finestra di quel monolocale sfiancato e logoro di cui non si riusciva ad immaginare un tempo in cui era stato nuovo, imbiancato di fresco, i mobili con il talloncino della fabbrica ancora attaccato, allineati e dritti come abiti con l’etichetta appesa, chiusi nell’armadio per le grandi occasioni.
Alina era arrivata in Italia. Si era mostrata docile e collaborativa per limitare le aggressioni e le violenze, aspettava un’occasione per scappare. L’avevano accoltellata un mese dopo, un cliente squilibrato e fradicio d’alcol, convinto che lei l’avesse derubato.
L’aveva lasciata per strada. Qualcuno aveva chiamato un’ambulanza e se n’era andato.


Luigi partì la sera stessa, a mezzanotte. Risalire su di un treno fu come riprendere a raccontare una storia lasciata a metà: allora… Partì. Non pensava a niente, non temeva niente, non sperava nulla. Andava. Come se fosse l’unica cosa possibile, tollerabile, capace di allentare quella tensione profonda, quell’attesa, che lo aveva colto ogni sera prima di allora, guardando le barche capovolte sulla spiaggia orfane del mare.
Arrivò alle otto del mattino dopo. Un taxi lo condusse da lei.
C’erano dei poliziotti. Fecero un sacco di storie: documenti, domande, perquisizioni.
Quando la vide lo colpirono gli occhi, un po’ rossi ai lati delle palpebre, come quelli dei bambini che hanno appena finito di piangere.
Dormiva. Luigi pensò alla bassa marea che ti restituisce tutto quello che il mare prende, basta essere lì, come in un bar, con la porta aperta tutti i giorni sul mondo.
Si sedette. Non fece nulla. Non parlò. Non la toccò. Voleva solo essere lì al suo risveglio.
Quando si svegliò lo vide lì accanto, stropicciato di stanchezza e di dispiacere; chissà perché pensò allo gnomo lavandaio, un puntino accanto alla vita profonda del fiume, fermo, come una stella del Nord.












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Sentimentale / Re:La lettera
« il: Luglio 04, 2012, 07:40:51 »
Fai un uso della metafora che mi spiazza sempre, mentre ti leggo trovo all'improvviso alcune immagini che mi lasciano lì, sospesa, mentre una tenerezza infinita mi cattura. E' veramente incantevole questa lettera. Complimenti. Doroty

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Sentimentale / Re:Beatrice
« il: Luglio 03, 2012, 18:44:37 »
Mi piace moltissimo quello che hai scritto, soprattutto quell'umanità intensa ma sommessa, è proprio quello che voglio comunicare. Grazie di cuore. Doroty

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Sentimentale / Re:Beatrice
« il: Luglio 03, 2012, 12:01:59 »
Sono salernitana, per la precisione, ma amo tutto il sud, anzi, tutti i sud del mondo, per il calore e la svagatezza della sua gente "ammorbidita" dal sole. Grazie mille. Doroty

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