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Post - dorotychecorre

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Giochi letterari / Re: La persona dopo di me
« il: Agosto 16, 2011, 17:53:40 »
Verissimo.
La persona dopo di me sogna ad occhi aperti e brucia l'arrosto.

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Sentimentale / Il professore Rega
« il: Agosto 16, 2011, 14:44:48 »
Il professore Rega



La sveglia suonò al primo piano interno 11, alle sei, come sempre, ma il professore Rega non rispose al suo invito ad alzarsi. Aveva sessantacinque anni e quell’anno sarebbe andato in pensione. Insegnava lettere al liceo classico Giacomo Leopardi.
Se i suoi allievi lo avessero visto a letto, con  i capelli brizzolati  arruffati, la giacca aperta per mancanza di bottoni, le lenzuola lise, le ciabatte esauste e scolorite, non lo avrebbero riconosciuto. Per loro il professore Rega non era un uomo trasandato.
 Alto, lo sguardo grigio verde attento, Rega aveva un aspetto fresco e un buon profumo corteccia e muschio. Quella mattina non si alzò.
C’era il pranzo con gli allievi del quinto anno quel giorno. Se ne andavano, era già successo con tanti altri. Anche la moglie di Rega se n’era andata, da tre anni ormai. Era morta silenziosamente. L’anno dopo Diego, suo figlio, si era trasferito in Canada.
Rega quel giorno non si alzò perché era stufo di addii.
In quella casa era tutto liso, spento. Solo i vestiti erano in bell’ordine nell’armadio e le camicie perfettamente allineate nei cassetti, solo loro sembravano appartenere al presente, merito della lavanderia al civico 100 di quella stessa strada. Tutto il resto sembrava sospeso, proveniente da un tempo indefinitamente lontano.
Erano le undici quando finalmente il professore si alzò e andò in cucina a prepararsi il caffè. La tazzina sbreccata in mano, si accomodò al computer ma prima oscurò completamente la stanza abbassando la persiana. Si vide per un attimo riflesso nei vetri: <<Come sono invecchiato>> pensò.
Si collegò ad una chat incontri. Aveva scritto il suo profilo mentendo su tutto. In quel mondo lui era tale Socrate 60, quarantasettenne celibe, bella presenza, sensibile, amante della musica e della buona cucina. Gli scrivevano un sacco di donne. Era avido di quelle presenze e del disprezzo che provava per loro. Si era abituato a quella sensazione agro-dolce, non riusciva più a farne a meno.
Un rumore all’uscio lo distolse dalla sua conversazione con Regina di Cuori.
Era il portiere che, come sempre, gli lasciava la busta della spesa attaccata al pomello della porta. Poche cose: pane, latte, affettati. Rega gli lasciava la lista sotto l’uscio. Albino si preoccupava di fargli avere quanto richiesto entro mezzogiorno e se non trovava la lista comprava comunque pane e latte.
Quel rumore avvertì Rega che era mezzogiorno. Aspettò che il portiere se ne fosse andato per prendere la busta. Non aveva fame.
Alle quattordici uscì. Albino era chiuso nella sua casetta di portineria, si godeva la pausa pranzo.
Il portone era vuoto, non lo vide nessuno.
I pontili deserti erano lustri di acqua e sole. Sembrava un ragazzo Rega con la tuta da ginnastica e lo sguardo disteso dall’aria frizzante di quel settembre ora benevolo ora nuvoloso.

Quando suo figlio Diego era piccolo lo portava a pescare sul molo. Poi era cresciuto ed era successa quella cosa che li aveva allontanati. Quella faccenda dell’omosessualità.
Rega un figlio omosessuale non se lo aspettava. Niente contro nessuno per carità. Lui era un uomo di cultura, aperto, emancipato. Non come la moglie che quella sera, quando Diego li invitò a cena fuori per comunicargli la notizia, si mise a piangere.
Lui a tavola non battè ciglio, anzi, era anche un po’ seccato per tutta quella messinscena: “Vi porto a cena fuori, devo parlarvi di una cosa terribilmente importante”.
 La cena fuori, il ristorante particolare, la reticenza iniziale.
Che bisogno c’era di tanti misteri, avrebbe potuto dirlo così, dirlo e basta, in un momento qualunque, non so, ma insomma: era gay. Così si diceva. E allora?
E allora perché si sentiva così contrariato Rega , quella sera, andando a letto?  Non certo per quella faccenda del ristorante e tutto il resto. Diego era così, un po’ cinematografico diciamo, ma in questo non c’era niente per cui contrariarsi, anzi. A lui era sempre piaciuto quel gusto della cornice che il figlio aveva da sempre molto spiccato. Diego ritualizzava e impacchettava con grandi fiocchi tutte le banalità che possono venire in mente. Era così. Così come? Com’era Diego, adesso che ci pensava?
Fino a quella sera aveva creduto di conoscerlo benissimo:
Diego, mio figlio.
 E adesso se lo ritrovava gay. Cioè? Baciava gli uomini, si faceva toccare da loro, ci andava a letto, si, in quel senso.
Ebbe gli incubi quella notte. Aveva delle parole in testa che lo braccavano, volevano esplodergli dentro e lui le ricacciava come mosche fastidiose, come serpenti viscidi, odiosi, che schifo! Ecco. Il primo boato, la prima deflagrazione seguita da tante altre piccole onde d’urto, che schifo che schifo che schifo…
Si alzò come sempre alle sei. Corse fuori da quella casa subito dopo la doccia, aveva compito in classe, si giustificò, doveva fermarsi a fare delle fotocopie.
S’incamminò a piedi, si sentiva osservato come se tutti i passanti potessero accorgersi solo guardandolo del suo segreto. Già, il segreto. Ma Diego a chi lo aveva detto? Prima che a loro, prima che a lui? Dio mio, forse era da tempo lo zimbello di tutta la sua famiglia e non lo sapeva. Ecco perché suo fratello Carlo, al matrimonio del figlio, aveva fatto quella battuta su Diego, sui nipoti che non gli avrebbe mai dato. Ma no, che pensava, che c’entrava adesso suo fratello Carlo. Dio mio, Dio mio, sentiva i pensieri guizzargli nel cervello, era tutto accelerato dentro di lui, non riusciva a rallentare, a riprendere il controllo.
Passavano i giorni e la catastrofe si confermava ai suoi occhi, s’ingrandiva, mostrava risvolti inattesi, pretendeva di riscrivere la storia del suo rapporto con il figlio: quando era successo? Quale episodio? Aveva commesso qualche errore? Quando? Perché?
Passarono gli anni. Non ci pensò più. Fece una semplice operazione di restringimento: delimitò il perimetro della sua vita, la quantità degli incontri, delle  parole pronunciate, dei pensieri persino.
Teneva lontano quella cosa tagliandole i ponti di accesso fino a lui. Si lasciò risucchiare dai suoi studi e continuò a vivere come poteva.
La moglie morì dopo sei anni. Diego un anno dopo si trasferì in Canada. Non lo vedeva da due anni. Non lo sentiva al telefono ormai da mesi.



Quel temporale lo sorprese mentre guardava le barche ormeggiate. Si avviò con il bavero rialzato, non si trovava molto lontano da casa. La pioggia aumentava d’intensità ad ogni istante, magri rivoli prima, una grandine maligna poi, sferzante, sul suo corpo curvo in corsa. L’acqua veniva giù dal cielo compatta ora: era un enorme cono di luce liquida.
Rega correva, i pochi passanti correvano, inquieti per quell’inaspettato travaso di acqua dal cielo. Rega correva ma ad un certo punto smise, rallentò, si fermò. L’acqua gli cadeva addosso con la violenza di una diga spezzata, di un argine violato. Piangeva il professore, ora, ma era acqua mescolata ad acqua, non si notava la differenza.
 Arrivò sotto casa bagnato fin dentro l’ultimo anfratto, l’ultima cellula del suo corpo. Tremava.
Albino stava lottando contro il vento per chiudere il portone quando lo vide: “ Professore, professore Rega, ma come, ve ne andate in giro con questo tempo”
 Rega non rispondeva, non sapeva cosa dire.
La moglie di Albino, la signora Elena, arrivò con un asciugamano  bianco, morbido: “Entrate professore, entrate un momento, ho acceso la stufa “
Rega si lasciò portare in casa. S’infilò dei panni di Albino mentre fuori la tempesta continuava ad urlare. La luce andava e veniva. Rimase fino ad ora di cena. Cenò con loro. Albino ed Elena erano increduli di avere in casa un ospite così importante, non la smettevano più di affannarsi attorno a lui, che se ne stava lì, tranquillo.
Tornò a casa tardi. Ebbe voglia di tagliarsi le unghie, da Albino aveva notato che erano troppo lunghe. Ammucchiò le unghie recise sul pavimento, gli sembrarono tanti piccoli cadaveri.
Si chinò a raccoglierle e notò, abbandonate in un angolo, le sue ciabatte sfondate, gli sembrarono vecchie serve fedeli in attesa di accompagnarlo verso la notte. Le ignorò. La lucina del computer occhieggiava, poco più in là. Immaginò Regina Di Cuori dall’altra parte dello schermo: sorrise.
Finalmente vide quello che stava cercando. Il telefono.
Cercò un numero nelle rubrica telefonica. Ci volle un po’ di tempo per ottenere la conversazione con l’abbonato, il Canada è pur sempre dall’altra parte del mondo.
Parlò a lungo con il figlio, gli raccontò del suo naufragio, di Albino ed Elena, del suo ricordo lì sul molo.

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Sentimentale / Re: La leggenda del tiglio gentile
« il: Agosto 16, 2011, 07:27:53 »
Il tuo racconto è delicato e intenso, complimenti. Inoltre io amo gli alberi, quindi porterò questo tuo tiglio e la sua leggenda sempre con me. Grazie per avermi regalato questo bel ricordo. A presto. Doroty

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Presentazioni / mi chiamo dorotychecorre
« il: Agosto 15, 2011, 20:32:07 »
Ciao, mi chiamodorotychecorre perchè mi ricorda l'amore tra una giornalista, Doroty, e un uomo medicina cheyenne, Nube che corre. E' un nome che racchiude molte cose che amo: gli indiani d'America, la natura, la scrittura, la passione per la verità e il rispetto per la vita. E altre ancora... Grazie per avermi accolta nel vostro forum. Grazie davvero. A presto. Dorotychecorre

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Sentimentale / Re: viviana
« il: Agosto 15, 2011, 20:27:09 »
Va bene, lo faccio subito. Grazie. Doroty

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Sentimentale / Re: viviana
« il: Agosto 15, 2011, 03:02:46 »
Grazie mille, posterò sicuramente altri racconti e sarò felice di commentere i vostri. Grazie ancora. Doroty

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Sentimentale / viviana
« il: Agosto 14, 2011, 20:56:51 »
Giulio


Albino lo vide rientrare come al solito alle ventuno.
“Buonasera dottore.”
“Albino! Buonasera.”
Albino aveva notato che da un po’ di tempo il dottor Giulio aveva cominciato a salutarlo così: “Albino! Buonasera. “
Prima il suo nome, lo chiamava come se si meravigliasse di vederlo lì, come se non lo vedesse da tempo, o forse era semplicemente assorto e si stupiva anche delle cose più semplici ed ordinarie come la sua presenza. Poi quel buonasera, a mezza voce, quasi sfinito dopo quel guizzo di meraviglia: “Albino! Buonasera.”
Giulio rientrò nel suo appartamento. Aveva freddo, la donna delle pulizie aveva dimenticato il balcone aperto. Il frigorifero era quasi vuoto. Ordinò svogliatamente una pizza che arrivò fredda, di venerdì succedeva, e poi fuori dovevano esserci poco più di tre gradi, un dicembre insolitamente rigido, lì, vicino al mare. Mangiò la sua pizza fredda guardando un film che non gli piaceva. Si assopì sul divano, vagamente consolato dal tepore volenteroso dei termosifoni, dal graffio bonario della birra e dalla dolce mollezza che lasciava nel corpo al suo passaggio.
Si svegliò a mezzanotte circa: lo accolse il gracidio insistente di un stagno televisivo pieno di ospiti che discutevano di qualcosa. Era sovrastato da quello schermo incontinente.
 Si alzò. La semplice ipotesi di andare a letto gli sembrò piena d’insidie. Meglio rimandare.
Decise di aggiornare il diario dei suoi casi clinici. Lo stava scrivendo da qualche anno ormai, da quando la sua boria di giovane pediatra meccanico riparatore si era consumata, prosciugata dalle sconfitte, dalla morte che pure arriva. Scriveva d’altro, di occhi, di sguardi per esempio. Quel giorno appuntò:
 “Stamattina alle undici ho visto Giorgio, quindici anni, carcinoma alle ghiandole surrenali. Avevo voglia di vederlo, l’ultima chemio è stata un bel match anche per un campione come lui. Alla fine del turno sono passato a salutarlo. Era da solo, stranamente, girato di spalle alla porta. Così raggomitolato aveva qualcosa d’inerme, la testa lievemente incassata nel collo, con le spalle tirate su.
Dava quella sensazione di una certa vergogna colpevole che provano alcuni pazienti: si sentono colpevoli come se la loro malattia fosse una punizione divina, un marchio ignominioso.
Ho esitato un attimo sulla porta, deve aver sentito la mia presenza perché si è girato e mi ha piantato quei suoi occhi in faccia. Si è girato piano, roteando sul busto senza stendere le gambe. E’ stato come vedere apparire un astro da dietro le montagne. Il suo sguardo acceso è sorto di fronte a me e ha sfondato la sottana trasparente della penombra con il suo orlo d’oro, echi di luce dal viale, lampioni accesi fuori da quella stanza, da quell’ospedale, in un altro mondo ad un passo lontanissimo da lì.
“Ciao”
“Ciao dottore, che vuoi?”
“Niente, passavo”
“Perché sei vestito normale?”
“Normale… ah, senza il camice. Ho finito il turno me ne sto andando a casa “
“Com’è la tua casa?”
“Una casa, niente di particolare. Posso sedermi?”
“Si. E tua moglie? Sta a casa?”
“No, se n’è andata. E tu Giorgio, come ti senti?”
“Mi fa male la testa”
“E’  un effetto della chemio, domani ti passa, poi se ti senti bene te ne vai anche tu a casa, d’accordo?”
“D’accordo”
“Ci vediamo domani, riposati”
“Dottore”
“Si”
“L’hai fatta arrabbiare, per questo se n’è andata?”
“No, è difficile da spiegare. Te lo racconto quando non hai il mal di testa se vuoi.”
“Va bene. Ma fai qualcosa per farla tornare”
“Cosa?”
“Scrivi una lettera”
“Va bene Giorgio, seguirò il tuo consiglio”
“Non mi fido, domani la voglio leggere”
“Sei un duro, eh? Ci vediamo domani”
“Ciao.”

Si ricordò in quel momento della promessa fatta a Giorgio.
Preparò una lettera  e se ne andò a dormire.

“Con questa non torna”
“Perché, non ti piace?”
“Non è di cuore, e poi è troppo corta”
Era talmente pallido.
 “La devo riscrivere?”
“Si, ti devi impegnare se no non torna.”
La mamma di Giorgio guardava Giulio imbarazzata. Anche Giulio era imbarazzato ma per altri motivi.
La sera riprovò a scrivere. Sembrava proprio che Giorgio ci tenesse a quella lettera, non lo aveva mai visto così interessato a qualcosa.
“ Cara…” voleva inventare un nome ma chissà perché pensò che Giorgio se ne sarebbe accorto.
“ Cara Viviana”. Non pronunciava quel nome da un anno. Lo vide scritto sullo schermo e risentì i suoi passi sulle scale, le pentole riordinate in cucina dopo cena, le mani fresche di crema sul suo viso.
Si allontanò dal computer, si mise a guardare un film già cominciato. Sullo schermo, quel nome, chiacchierava sommessamente con il silenzio.
Era molto tardi quando riuscì a finire la seconda stesura della lettera.

“Si chiama Viviana?”
“Si. Torna se le mando questa?”
“No”
“Perché?”
“Perché non hai scritto cosa ti manca”
“Cioè?”
“Quando sto a casa, la mattina, mi sveglio e sento l’odore del caffè. Poi sento mia mamma che mette in funzione la lavatrice, mio padre che prende le chiavi prima di uscire. Quando sto in ospedale mi manca questo, i rumori, gli odori, che mi fanno riconoscere le persone.”
Era pallidissimo. Aveva gli occhi umidi di febbre e nello sguardo quella supplica: voleva che lui facesse quella cosa, Giulio non capiva perché lo desiderasse tanto.
Gli sfiorò la fronte: scottava. Lo coprì. Sembrava assopito, aveva gli occhi chiusi adesso.


“Albino! Buonasera”  Pizza fredda. Divano. Si addormentò vestito, con il solito sottofondo berciante del televisore.
Erano le due forse le tre. Si svegliò aggredito dal freddo. Era ad un passo dal letto, dalla promessa di calore del piumone, quando si ricordò della lettera. Tentò di liquidare la questione ripromettendosi di farlo la mattina dopo prima di uscire.
Pensò a Giorgio, era stufo di deluderlo. Si buttò una coperta addosso, accese il computer.

“ Cara Viviana, è talmente tardi che non ho più scuse per essere sveglio: sono nel regno della notte e dei suoi sudditi, viandanti inquieti, matti o soli come me. Scrivo, a te che sei lontana.”

Sentiva un dolore liquido invadergli il petto, le gambe. Continuò.
Scriveva. La testa leggermente incassata nel collo, con le spalle tirate su. Aveva qualcosa d’inerme, la stessa vergogna colpevole di Giorgio per aver meritato il suo dolore. Ma stasera non era più solo, faceva parte di qualcosa, così gli sembrava, apparteneva alla stessa trance di vita sospesa in cui vivevano i suoi pazienti. Sospesi.
Scriveva.
“ (…) sono sordo della tua presenza ( …) ti scriverò fino alla fine della notte”.

“Ci manca solo una cosa”
“Che cosa?”
“I baci e le carezze”
“E tu che ne sai di queste cose eh Giorgio?”
“Glielo devi dire che ti mancano i suoi baci e le sue carezze. “
“Secondo te se le mando questa lettera torna?”
“Non lo so”
 “E allora perché me l’hai fatta scrivere?”
“Volevo vedere se eri coraggioso”
“Come te?”
“Io non sono coraggioso, ho paura”
“Di cosa hai paura precisamente?”
“Del dolore. Di morire.”
“Al dolore non ci pensare, ci penso io a fartene sentire il meno possibile. Per quanto riguarda la morte c’è tempo; domani ti mando a casa: contento?”
“Molto”
“Grazie Giorgio”
“Grazie a te dottore. Se torna me lo dici?”
“Certo. Te la faccio conoscere.”
“Non ti preoccupare, torna, perché sei bravo”
“Ciao Giorgio”
La sera, aggiunse l’ultimo pezzo alla sua lettera e la inviò.



Viviana

Era un monolocale abbastanza luminoso. A Viviana piaceva perché era un ambiente unico ma con tanti piccoli angoli che lei si ostinava a chiamare Lo studio, Il salotto, L’angolo della lettura.
Quella sua minuscola casa sembrava un fondale marino: anfratti, grotte, piccoli squarci d’infinita bellezza come quella vecchia macchina per scrivere. Era adagiata su di un tavolino basso di ebano. La luce dell’abbaino, entrando, scivolava addosso al suo corpo nero con quelle piccole chiazze marroni di vita erosa, s’insinuava nel rullo, avvolgeva il carrello,  s’inerpicava sulla leva altera, scendeva sui tasti impudichi, grondanti le storie africane, i reportage scritti dal padre su quella terra che lo aveva innamorato e in cui aveva vissuto con la sua famiglia per dieci anni.
Viviana chiuse la valigia: era pronta.
Si mise a cercare due foto, voleva portarsele. Le trovò.
Kenya, Nairobi, 15 novembre 1973 ( Viviana e Mapengo)
Il bambino che mi ha insegnato a dire in swahili  una frase magica per guarire dalla nostalgia:
 “ Mama, kama wewe taitua mimi, mimi tarudi tu;
 ogni volta che mi chiamerai sarò lì con te”
Italia, Roma, 1988  Io e papà nel giorno della mia laurea in medicina.
“ Va bene, porto queste” decise.
Raggiunse la valigia davanti alla porta e consegnò alla barriera dentata di una cerniera il suo piccolo album.
Controllò il biglietto: Roma \ Nairobi. Chiamò per gli ultimi dettagli il suo referente di Medici senza frontiere. Risentì con piacere quella voce smerigliata dalle troppe sigarette, forse, con delle curve più acute a tratti, quando voleva tagliare gli angoli delle difficoltà alle incertezze dei volontari.
Prima di spegnere il computer portatile controllò la posta. C’era una lettera. Cliccò.
La valigia era lì, davanti alla porta, con le guance paffute, serafica. La casa era illuminata da un striscia sbieca di sole, sfuggita all’abbaino e impallidita dal velo bianco della tenda.
Viviana leggeva:




" Ciao. E' talmente tardi che non ho più scuse per essere sveglio: sono nel regno della notte e dei suoi sudditi, viandanti inquieti, matti o soli come me. Scrivo. A te che sei lontana. Volevo dirti che ho fatto un inventario di tutto quello che nella tua fuga precipitosa hai portato via da qui. Controlla se hai preso tutto o se ti manca qualcosa che dovresti assolutamente tornare a prendere. Vediamo.
Hai portato via con te:
- il rumore della caffettiera tirata via dallo scolapiatti alle 6.00 del mattino
- il fruscio indolente della vestaglia
- lo sbadiglio della veneziana che trillava dietro i vetri
- le luci livide del porto sulla tua tazzina del caffè
hai portato con te
- lo sciame caldo della doccia
- i sussulti della radio mal sintonizzata
- lo scorrere sgraziato del pettine sulle piccole ribellioni stridule, dei nodi, nei tuoi capelli terra e fili di luce
- hai portato via il barrito del tram contro il cielo grigio, mentre t'inghiottiva".
" Hai portato via l'intima sonorità:
- dei tuoi passi che tornavano la sera
- delle pentole riordinate
- delle finestre chiuse in faccia alla notte
- della crema caprifoglio e malva e l'orma delle tue mani fresche sul mio viso".
" Anche quel silenzio
- il silenzio dopo l'amore
- l'abbraccio sfinito
- il sonno nudo del tuo seno, hai portato via,
- i baci
- i baci e le carezze di questa voglia di te che hai dimenticato nel mio corpo inerme".
" Sono sordo della tua presenza e stanotte ti scrivo per chiederti se hai lasciato qui, qualcosa di te che posso tenere, assieme all'ombra di questo amore e alla mappa sonora di te. Ti scriverò fino alla fine della notte."  Giulio

Era pallida. Ripensò all’ultima volta che aveva parlato con Giulio:  “Non voglio passare la vita ad aspettare che ritorni o riparti per l’Africa. Non voglio vivere con la tua assenza. Non ce la faccio Viviana.”
Era passato un anno. Se ne stava lì, immobile, aspettando che l’eco di quelle parole appena lette si spegnesse, per poter riprendere a respirare.
All’improvviso si alzò.

Si mise a correre giù per le scale a precipizio ma erano senza fine saltava i gradini a due a tre in un’ansia di luce dolorosa e il portone le sembrò un ventre materno dal quale evadere dopo aver attraversato un inferno di acqua e sangue e correva correva lungo strade dritte e viali e semafori pigri nel loro eterno respiro ternario stop via attenzione stop via attenzione correva e tutto attorno urlava ignaro  che lei aveva poco tempo
un cronometro invisibile puntato alla schiena come una pistola come l’ultimo istante come la parola fine come un amore che si sta rassegnando correva perché aveva capito una cosa una cosa che conteneva tutte le cose tutte le ragioni una cosa che si allungava nella sua mente come il ponte su di un baratro una di quelle cose belle che arrivano all’improvviso come l’ultima parola del cruciverba il cacciavite giusto la colla che in incolla gli auguri dei nemici a Natale correva senza fiato senza gambe senza corpo correva su quella strada luminosa che le si era accesa davanti agli occhi ci poteva anche morire su quella strada sarebbe stata una morte perfetta dopo una vita perfetta grazie a quella piccola luce perfetta correva sorgeva e tramontava su marciapiedi percorsi e dimenticati come cibo divorato e digerito correva correva e i cartelloni pubblicitari le auto bercianti i bambini tirati di mala voglia dal tepore notturno tappezzato di favole e sogni la guardavano correre e per un istante partecipavano anche loro a quel guizzo a quel balzare di vita urgente imperioso correva ancora quando vide il platano e capì che tra poco avrebbe potuto respirare a pieni polmoni come l’affogato che sfugge all’onda per sempre avrebbe sentito tremare tutte le cellule dentro in un chiacchierio concitato cosa accade cosa accade tutte lì a pizzicare la pelle un alveare luminoso di vita vita vita scale di corsa e vita scale scale e vita. Gli cadde addosso. Appena aprì la porta.
Giulio l’abbracciò fino alle ossa. Glielo disse ansante. Sfinita. Come se temesse di dimenticarlo.
-  Mama… kama wewe… taitua mimi… mimi… tarudi…tu.










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