Quadreria 1
Signora che scrive una lettera
Eccomi di nuovo qui, ormai sono di casa. Mi piace sedermi su questo panchetto di velluto rosso, ascoltare i passi discreti degli altri visitatori, che sussurrano tra loro i commenti ai quadri. Quasi pare di essere in chiesa.
Vengo qui spesso, come attratta da lei, questa piccola signora che scrive una lettera. La guardo e cerco di capire, di indovinare a chi sta scrivendo, perché e con quali sentimenti. Ha un sorriso o è solo melanconia?
Mi guarda negli occhi, sì lo so, guarda tutti così, ma ormai mi pare che ci sia un filo diretto tra i nostri pensieri.
Socchiudo gli occhi per metterla maggiormente a fuoco, mi pare di essere dentro la stanza, e sento persino l’odore del pavimento incerato, il tepore del sole che entra dalla finestra. Le tende sanno un poco di polvere, tutta la casa sa di stanchezza, di rassegnazione.
Vedo le mie mani scrivere, una volta erano molto belle, e anch’io ero molto bella. Allora ero giovane e innamorata, lui prendeva le mie mani tra le sue, le accarezzava e mi parlava del nostro futuro. Mi inebriavo di sogni e non sapevo più se erano i miei o i suoi. Fu mio padre a svegliarmi, fu la prima e unica volta che mi picchiò, ma ormai ero incinta, troppo tardi per svegliarmi, troppo presto per essere buttata fuori di casa.
Presto per me, ma non per la mia famiglia. Fui cancellata dalla loro memoria, non potevano accettare che finissi in sposa ad un povero pittore senza nome, senza avvenire, senza protettori, senza futuro. Era il mio insegnante di disegno, un capriccio che mi era venuto con i primi ardori della giovinezza che si affaccia alla bellezza del mondo. Lo avevano assunto solo per dimostrare che non ero portata all’arte, solo dopo l’ho capito, altrimenti avrebbero assunto un insegnante famoso e forse meno giovane.
Ma l’amore mi proteggeva da ogni sgomento, andammo a vivere in campagna, vita modesta, ma felice. Lui dipingeva qualche quadro, diventava sempre più bravo e ricercato, cominciò ad avere protettori e le figlie dei protettori. Non tutte rimasero incinta, io sì, arrivarono 6 figli, quattro maschi e due femmine, ma io non volevo vedere, non volevo sapere, lo amavo ancora.
Come tutte le cose, anche la nostra fortuna iniziò a scivolare sempre più in basso, a un certo punto pareva che non sapesse più dipingere, i quadri erano smorti, opachi, insulsi: aveva perso il talento, chissà dove. Fu allora che provai a ravvivare un suo dipinto e devo dire che mi venne proprio bene. Fu venduto per una cifra considerevole al Conte Vanbasten, che ne commissionò subito un altro. Lui arrivò a casa felice, entusiasta, scordandosi che non era il suo talento che valeva ma il mio. Ravvivai anche il secondo quadro, lo illuminai come faceva Veermer, che a me piaceva moltissimo e con cui una volta al ricevimento di Lady Bijorn avevo parlato di pittura. Piccoli dettagli di tecnica che io avevo bevuto, come un assetato in mezzo al deserto. Imparai poi a guardare i quadri di tutti, come se leggessi un libro, rubavo con gli occhi in segreto e in segreto dipingevo i quadri di mio marito. Lui pensava a venderli, a prenderne le lodi, a ubriacarsi nelle bettole e a spendere tutti i guadagni. Ai figli non pensava e di regola nemmeno a me se non per portarmi a letto e sfogare l’altro suo talento, quello di mettere incinta.
Il settimo figlio lo ebbe da Madame Desireè, l’ottavo da mia cugina Margot, con cui scappò di casa. Che non avesse soldi non era importante, li aveva lei, ereditati dal suo primo marito. Io rimasi in miseria, non potendo nemmeno più dipingere al suo posto.
Al suo posto no, ma al mio sì.
C’è sempre un giorno per dire basta, e quel giorno arrivò.
Dipinsi numerosi quadri, prendendo soldi in prestito dove potevo, indebitandomi per comperare le tinte fino a che imparai a farmele da sola come Veermer.
Mandai poi i miei dipinti al Principe e lui fu oltremodo generoso, li comperò quasi tutti, mi invitò al castello, dove gli raccontai ogni cosa. Ebbe pena di me, mi aiutò a collocare altri dipinti e spiccò un mandato di arresto per debiti e altro, per colui che era stato mio marito.
Ora mi accingo a mandargli una lettera in prigione, ma ad essere sincera non so cosa scrivere, vorrei dire “io ti maledico”, ma in fin dei conti a che servirebbe? Gli potrei parlare dei figli, i quattro rimasti, Marie è morta di vaiolo l’anno scorso e Rudolph in un duello con il Conte Bismark.
Ma a lui che interesserebbe? forse non gli scriverò nulla.
Depongo la penna, mi sento come svuotata da tutti questi anni di tribolazioni e delusioni, non ho più voglia di nulla ormai, il Principe ha promesso la sua protezione anche ai miei figli, devo essere contenta così.
Non so perché continuo a guardare quella porta aperta, oltre c’è il buio, ma è come se dall’altra stanza qualcuno mi osservasse, sento occhi che mi guardano, che strana sensazione, mi sento in compagnia di un’altra me stessa.
Ho caldo, ho sete, mi sento scivolare nella consueta realtà ma ho la sensazione di avere interrotto un pensiero personale. Si è fatto tardi, il custode comincia a guardarmi male, sono ore che sto seduta qua, va a finire che chiama la sicurezza, magari mi scambia per una terrorista o altro.
Sì, ora capisco l’ attrazione per questa altra me.
Esco dal museo, prendo un taxi per far prima, mi faccio portare direttamente alla casa editrice di mio marito, salgo le scale quasi correndo e apro la porta di Ettore e tutto d’un fiato glielo dico: “ Senti Ettore, la vuoi sapere la verità? I libri di mio marito, il famoso Enrico Vivaldi, li ho scritti quasi tutti io, ma ora mi sono stancata che lui vada in giro a trombare ragazzine, si faccia applaudire, sperperi i soldi delle mie fatiche e vada in Tv mentre io faccio il lavoro che lo ha reso famoso. C’è sempre un giorno per dire basta e quel giorno è arrivato!”
Ettore resta muto, mi guarda allibito poi con un sorriso dice:” Cribbio, questo sì che è uno scoop, sarà un ottimo lancio per il nostro, per il tuo prossimo libro!”
Finalmente ho trovato il coraggio di ribellarmi al sentiero senza uscita che avevo preso senza accorgermi; la vorrei ringraziare, ma solo ora mi rendo conto che non so nemmeno il suo nome. Per la storia dell’arte è solo una signora che scrive una lettera.