Autore Topic: "Odi profanum vulgus"  (Letto 469 volte)

Doxa

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"Odi profanum vulgus"
« il: Luglio 06, 2022, 18:26:00 »
“odi profanum vulgus, et arceo” (= odio il volgo profano, e lo tengo lontano [da me]): questo famoso verso  fu scritto dal poeta di epoca romana Quinto Orazio Flacco (65 a. C. – 8 a. C.) nella prima  strofa del terzo libro delle “Odi” per esprimere il suo atteggiamento di  distacco dal popolo (profanum vulgus), incapace di comprendere la bellezza della poesia e indegno di accedere al tempio dell’arte,  specificando che solo un'élite può capire quello che lui  afferma ed è in grado di apprezzarlo.

Successivamente la frase divenne un proverbio in cui si esprime una sdegnosa superiorità verso la massa plebea.

Nel solenne proemio Orazio si presenta come sacerdote delle Muse nell’atto di officiare un rito dal quale sono esclusi i profani.

1 “Odio il volgo profano e lo tengo a distanza. Fate silenzio; per i ragazzi e le vergini, da sacerdote delle Muse, io canto canti mai prima uditi…” (Odi, III, 1). 

Questa frase di Orazio mi evoca Giacomo Leopardi, il quale ne “Le ricordanze” scrisse:

“Né mi diceva il cor che l’età verde
sarei dannato a consumare in questo
natio borgo selvaggio, intra una gente
zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
argomento di riso e di trastullo,
son dottrina e saper”
.

Per l’oratore e retore Quintiliano (35 d. C. circa – 96): la plebe è “ciarliera e maligna”, perciò, secondo il filosofo e politico Seneca (4 a. C. – 65):  “non bisogna gioire del suo favore né dolersi del suo disprezzo”.

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Re:"Odi profanum vulgus"
« Risposta #1 il: Luglio 06, 2022, 22:28:11 »
Da “vulgus” (= volgo, plebe, popolo) deriva l’aggettivo vulgaris (= volgare).

Con il desueto lemma “volgo” di solito s’intende la popolazione socialmente, culturalmente ed economicamente “svantaggiata”.

Ma cos’è la volgarità, da tenere a distanza ? Essa non dipende dalla classe sociale di appartenenza né dallo stile di vita. La volgarità può dimorare in chiunque ed è un indice di maleducazione, come tale disapprovato nell’ambito delle relazioni sociali.

Lo spettatore guarda, ascolta, si tiene a distanza dal chiassoso e rissoso urto, dal vocio confuso della piazza.

Lo scrittore e poeta austriaco Hugo von Hofmannsthal (1874 – 1929) nel suo libro titolato: “Il libro degli amici”, scrisse: “E’ un arte sgradevole ma necessaria quella di tenere a distanza  con freddezza gli individui  volgari”.

La volgarità è tracotante e invasiva, usurpa eguaglianza e parità, tenta di trascinare sul suo proprio fangoso terreno. Tocca il grado più alto congiungendosi con il potere, politico o amministrativo o economico: non l’autentico potere, amante di riserbo e pudore, nascosto all’occhio indiscreto e profano; ma il “volgare” potere dell’avere, la labile autorità di uffici pubblici.

La volgarità ha un suo inconfondibile e percepibile odore: si avverte da sùbito, tradito da inattesa familiarità o da un tratto del volto; non è timida dinanzi alla porta, ma irrompe con oscura pervicacia o con vezzo di falsa signorilità. E talvolta induce anche coloro, che sùbito l’hanno fiutata e riconosciuta, a contegni disdicevoli e scontrosi, assunti per difesa o per istintiva repulsione del gusto. Questo rifiuto – osserva Hofmannsthal – è un’arte, un modo abile di stabilire la distanza, ma spesso non può esprimersi con sollecita prontezza, ha bisogno di tempo per studiare l’offensiva della volgarità.

Intervalli penosi e imbarazzanti, tra il dire e il non dire, tra provvisoria apertura di dialogo e sprezzante diniego. Se ne esce insoddisfatti di sé, con fastidio: non aver scorto sùbito le tracce della volgarità, aver concesso credito di simpatia o di stima, un rimprovero alla nostra credulità e ingenua fiducia.

Faticosa e necessaria è, dunque, la distanza, l’allontanamento dalle persone volgari mentre si esibiscono sul palcoscenico della vita, mentre lo spettatore si rifugia in un angolo laterale dell’ombrosa e silenziosa platea.

Né di contro possono levarsi gli argomenti dell’uguaglianza, di trovarsi fisicamente insieme in un luogo.

Bisogna ammetterlo: siamo disuguali, non l’uno all’altro superiore, ma l’uno dall’altro diverso.
« Ultima modifica: Luglio 06, 2022, 22:55:57 da Doxa »

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Re:"Odi profanum vulgus"
« Risposta #2 il: Luglio 06, 2022, 22:53:41 »
Se non ci piace qualcuno come è vestito o se entriamo in una casa  arredata in modo discutibile diciamo che è  esteticamente volgare.   

Se si tratta del modo sgradevole di comportarsi o di muoversi o del timbro della voce, diciamo che l’individuo è  volgare.

Volgari si nasce o si diventa? L'ambiente in cui si cresce a volte aiuta l’innata propensione dell'individuo.

Coco Chanel affermava di amare il lusso, non basato sulla ricchezza ma nell'assenza di volgarità.

Volgare non è un aggettivo che si associa ad un ceto sociale o ai mezzi finanziari di una persona. È trasversale. E quando colpisce alto è ancora più imperdonabile. Perché l'apparenza è a volte quasi perbene eppure l'atteggiamento, il tipo di conversazione, il modo di proporsi è quanto di più volgare esista, anche se camuffato da un'estrazione sociale media o addirittura medio-alta e da un ambiente cosiddetto "bene", da abbondanza di mezzi economici e da un certo successo personale.

Capita di ascoltare  delle persone che commentano   la volgarità altrui senza rendersi conto che la propria è quasi peggiore e solo mascherata da finti atteggiamenti "perbenistici".

Basta poi un bicchiere di vino per far cadere la maschera, e uscire in tutta la sua cafona volgarità.

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Re:"Odi profanum vulgus"
« Risposta #3 il: Luglio 06, 2022, 22:58:53 »
Lo scrittore e poeta Francesco Petrarca  (1304 – 1374) nel sonetto titolato: “O cameretta che già fosti un porto” (Canzoniere, 234) esprime il dolore per il suo amore infelice e la considerazione che la sua camera non gli offre più la pace durante le ore notturne, ed aggiunge:

“e ’l vulgo a me nemico et odïoso
(chi ’l pensò mai?) per mio refugio chero:
tal paura ò di ritrovarmi solo”
.
(= e invece cerco quale mio rifugio il popolo a me ostile e odioso (chi l'avrebbe mai pensato?): è tale la mia paura di ritrovarmi solo”.

Giosue Carducci (1835 – 1907) nella prima strofa della sua poesia titolata “Il poeta” considera “sciocco” il “vulgo”:

“Il poeta, o vulgo sciocco,
Un pitocco
Non è già, che a l'altrui mensa
Via con lazzi turpi e matti
Porta i piatti
Ed il pan ruba in dispensa”.