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Topics - Birik

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Diari di viaggio / Textile
« il: Maggio 16, 2014, 20:13:25 »
Textile
La prima volta che ho avuto un contatto con la canapa è stato a casa della nonna di Brescia. Andavamo a trovarla durante le feste di Natale e passavamo qualche giorno con lei prima di raggiungere gli amici in montagna. Io e mio fratello eravamo adolescenti e credo che anche lui ricordi con piacere gli anni di Cavalese, le lunghe sciate con almeno quindici coetanei e le serate nei sottotetti delle villette di montagna a giocare a carte o a “bottiglia”.
Dalla nonna dormivamo tutti e quattro, i genitori e noi figli, in una camera ricavata in un seminterrato, arredata con pesanti mobili in noce fine ‘800 e avvolta da un forte odore di naftalina. Mamma non era tanto contenta di passare quei giorni dalla suocera, io lo capivo anche se ero ragazzina, ma cercava di non darlo a vedere. Ricordo il letto matrimoniale perché, quando la nonna è mancata, l’ho ereditato. Le alte spalliere di noce allora mi incutevano soggezione. I due materassi di tessuto a strisce, di cui uno scricchiolava perché di crine di cavallo, erano così diversi da quelli di casa mia e quando mi ficcavo lì al calduccio delle trapunte di lana, avvertivo la ruvidezza delle lenzuola di canapa. Erano pesanti, di trama grossolana e con una cucitura in mezzo. Non il massimo del confort, ma resistenti per durare varie generazioni.
Molti anni dopo, alla morte di una zia zitella di mio marito, ci pervennero un paio di mobili e un po’ di biancheria del corredo che non era stata mai usata. Fra questa un rotolo di quelle che un tempo si chiamavano “pezze del marchese” e che altro non sono che i genitori degli odierni assorbenti igienici. Rotoli di tessuto molto fine e morbido, largo quaranta centimetri, da tagliare in quadrati. Siccome a me quel tipo di uso non interessava, ne feci strofinacci da cucina. Capii che era canapa dopo una ventina di anni quando ancora nuovi e dopo aver seppellito i coetanei, svolgevano il loro compito in maniera egregia, asciugando perfettamente anche i cristalli più fini ,senza lasciare neanche un pelucchio. Un po’ consunti, sembravano di lino. Ma perche non li fanno di canapa, mi chiedevo, sono migliori, asciugano meglio e durano una vita. Al mercato poi non si trovavano più quelli di cotone morbido e spesso, sostituiti da panni inservibili e idrorepellenti in cotone/poliestere, fatti in Cina.
La risposta a questa domanda me la diede dopo qualche anno Chiranjiwi, detto Ciro, che era il mio referente di Kathmandu all’epoca in cui acquistavo cachemere.  Un uomo piccolino come sono i Nepalesi, con una bella moglie e due ragazzini , molto impegnato a far fiorire la sua attività che aveva ereditato dal padre.
Già conoscevo la qualità degli scialli, che mi spediva su ordine; sceglievo  misure e colori da una cartella che avevamo in comune, ma ora che lui aveva ampliato la produzione anche alla maglieria, la sua farm meritava una visita. Sbarcata in Nepal rimasi una settimana in sua balìa, aveva paura che mi mettessi in contatto con la concorrenza e non mi mollava un secondo. Giretti turistici, visite ai templi, a pranzo fuori o a casa sua ma sempre insieme, la sera poi provvedeva a riaccompagnarmi in albergo . Fu in quella settimana che mi portò a vedere il luogo delle cremazioni. In una valle stretta, dai fianchi molto scoscesi ricoperti di fitta vegetazione punteggiata da tetti di numerosi piccoli templi , si vedeva, in fondo, il fiume con i gat e le pire funebri, di cui una ancora fumante. Nella valle aleggiava una nebbiolina bianca dall’odore acre di carne bruciata. Lo associai a quello dei lager nazisti. Lì per lì mi sembrò una scena macabra, ma man mano che scendevamo verso il fiume, la visione cambiava assumendo contorni di pace e serenità. I parenti intorno alla pira ormai spenta chiacchieravano amabilmente e, mentre un inserviente spingeva con una specie di rastrello  i resti inceneriti del corpo nel fiume, i bambini si tuffavano per cercare qualche pezzetto di cranio da tenere per ricordo del defunto. Tutti, poi, lanciavano coroncine di fiori.
Credere nella reincarnazione aiuta molto.
Un giorno che ero a casa sua per pranzo, notai un set di tovagliette all’Americana di un tessuto molto bello, la trama un po’ larga, color corda,  rigido ma nel contempo morbido al tatto, scivoloso.
Ciro dissi, che tessuto è?  Wonderful, lo voglio subito. Già immaginavo caftani fruscianti ricamati sul davanti, o pantaloni morbidi con casacche dal collo a pistagna. Ciro rideva nel dirmi che no, non era possibile, quella era hemp, canapa, non si vende.  Perché non lo posso avere? Eh mia cara la canapa non conviene, costa poco e dura troppo, se compri queste tovagliette non ne acquisterai più e io ti perdo come cliente almeno per dieci anni, tu devi comprare questa, e me ne mostrava una di molle cotonaccio indiano da esportazione. I manufatti di canapa sono solo commerciabili sul posto. Noi siamo tradizionalisti, voi dovete consumare.

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Diari di viaggio / la mia India
« il: Aprile 26, 2014, 12:49:52 »
 La mia India
Erano anni difficili gli ultimi cinque del mio matrimonio. Conflitti, ritorsioni, un rapporto che si trascinava nel caos. Io non ero forse in grado di troncare e avevo solo voglia di fuggire.
Il caso mi fa conoscere Elisabetta, che frequentava il Rajasthan da qualche tempo e dove andava regolarmente due volte all’anno, stabilendosi per un mese circa. In quel mese faceva confezionare gioielli, vestiti e accessori utilizzando materie prime meravigliose e poco esportate.
Era la mia occasione, partire e organizzare un piccolo commercio di cose uniche.  L’India mi aveva sempre attirato, avevo letto Forster, Kipling e molta letteratura sul subcontinente, mi ero fatta una mia idea; ma Jaipur e il Rajastan  apparvero diverse dal mio immaginario.  Situato a Nord Ovest era stato, insieme a parte dal Pakistan, la culla della civiltà della Valle dell’Indo, più antica di un millennio e non meno importante di quella Greca ed Egiziana. Assunse un’importanza strategica come rotta carovaniera sulla via della seta dove offriva anche imbarchi nei porti dell’attuale Gujarat . Poi invasioni e sovrapposizioni di culture, lo avevano fatto diventare un paese di guerrieri con meravigliose città fortificate tutt’ora ben visibili. Dal 1500 al 1700 circa ha vissuto un suo rinascimento sotto la dinastia Moghul che implementarono arte e architettura. La poesia e la danza, la musica e il canto, le architetture e i giardini, l’arte dell’intaglio, la miniatura e l’oreficeria sono il risultato di una spettacolare miscellanea di stili.   Poche donne vestono col tradizionale sari, molte usano gonne ricamate con specchietti e corpetti o choli. Le nomadi portano cerchi d’oro al naso collegati all’orecchio da una catenella. Gli uomini, alcuni molto alti, dritti come fusi e con la fierezza del guerriero Rajiput, hanno orecchini ad entrambe le orecchie e turbanti enormi che, a seconda del colore, denunciano la casta di appartenenza. Anche la musica è diversa, quella dei cortei nunziali poi è un frastuono di ottoni e tamburi che la fanno assomigliare al rock Balcanico di Bregovic. E  danze zingaresche accompagnate da  fisarmoniche, le donne con cinture di sonagli ai fianchi e cavigliere enormi. Il teatro dei burattini, che racconta un’epopea cavalleresca, sembra una rappresentazione di Pupi Siciliani, e l’accompagnamento della “tammorra” suona come il preludio di una tarantella. Diversa dall’India classica anche nell’ architettura che richiama quella Islamica, con profusione di archi a sesto acuto, colonnine e trafori; le case più belle poi sono tutte affrescate, alcuni intonaci addirittura arricchiti di specchietti. Su tutto prevale il colore, quello dei turbanti arancio o zafferano, dei salvar kamiz fucsia e turchese, dei sari verde elettrico o degli elefanti che camminano fra le auto tutti dipinti. La terra è rossa, le case rosa, i taxi gialli, il cielo di un azzurro accecante.  E poi immagini di deità dai toni fluorescenti, insegne multicolor. Il rumore di sottofondo invece è il risultato di centinaia di auto strombazzanti. Troppo, tanto da avere bisogno di un rifugio dai toni pacati e rumori sommessi. L’Arya Niwas era il nostro rifugio. Non era bello come le antiche haveli nobiliari trasformate in alberghi, ma molto pulito e dotato di un  buon ristorante self service.
 Eravamo ancora a Delhi, in attesa di prendere un autobus per Jaipur, ci saremmo fermate un paio di giorni nella capitale per dare uno sguardo  ai numerosi mercati della città. Una sera in un ristorante Elisabetta riconosce una persona che non vedeva da vent’anni. Abbracci e baci, chiacchiere e i racconti. Stanco del suo lavoro di imbianchino e di una vita banale a Nocera Inferiore, era partito alla volta dell’India dove era stato cinque anni presso un sadu, conducendo una vita di meditazione ed eremitaggio. Aveva imparato a far prevalere la mente sul corpo, a praticare la castità,  a non avere desideri e, anche se ancora non si infilava gli spilloni nella lingua, poteva fare il bagno alle sorgenti del Gange a vari gradi sotto lo zero. Forse però non tutto il corpo era gestibile, un’appendice si ribellava, non ne poteva più di subire mortificazioni. Era evidente che non tutti i desideri si potevano sopire, se quello di una donna gli martellava così forte un po’ ovunque. Decise dunque di salutare il maestro il quale, dopo un’approfondita lettura della mano, gli pronosticò la sua fortuna in America. Infatti poco dopo aveva conosciuto una ragazza del Nebraska e lì si era trasferito. Dopo vari tentativi come agricoltore e allevatore, aveva costruito un tempio indù sulle rive di un laghetto, accoglieva fedeli e la sua attività di vendita on line di statuette di Shiva, Krishna e compagnia bella, gli rendeva molto bene.
Era simpatico Angioletto, un’anima semplice con un modo di raccontare le cose che sembrava un attore di teatro dialettale, come quando rischiò di essere sodomizzato da un lama che voleva montare una pecora e lui per salvare la pecora si era trovato, cadendo bocconi, proprio alla pecorina a subire gli assalti dell’animale.  Ci faceva ridere fino alle lacrime, ma fu l’insistenza con la quale voleva far passare per vero un episodio che ci fece pensare fosse un po’ svitato. Era in Nepal con un amico, entrambi sdraiati su due lettini gemelli con un comodino in mezzo. Avevano fumato il famoso Nepalese blu quando all’improvviso tutt’e due in contemporanea, sentono di levitare. E levitano fino a quando non si toccano e cadono uno sull’altro nello spazio fra i due letti. Era troppo, cercavamo di spiegarlo come un fenomeno metafisico, ma lui insisteva. Aveva avvertito la leggerezza del volo. Ci lasciammo in allegria e per qualche giorno lo ricordammo, ridacchiando della sua ingenua ignoranza.
Arrivata a Jaipur e preso il possesso della camera, Elisabetta si elettrizzava, tirava fuori disegni e foto di tutto quello che le era piaciuto sfogliando giornali di moda. Pianificava la giornate e schizzava da un tagliatore di pietre a un orafo con la velocità di una trottola, io me la prendevo con un po’ più di calma. I suoi gioielli sono un misto fra India Moghul e Barocco Napoletano. Sontuosi ma ironici, necessitano di un bel temperamento per essere portati con nonchalance.
 Avevamo trovato al bazar una decina di sari antichi di broccato. Tessuti ormai rari, di seta con fili d’oro. Si decise di far confezionare delle shopping bags trapuntate per l’estate e, trovato il laboratorio, demmo subito istruzioni dettagliate e cartamodelli.
Così la mattina che avevamo l’appuntamento per controllare il campione della borsa, mentre facevamo colazione in giardino fra uccellini e scoiattoli, arriva Carlo  un amico che, come altri,  ritrovavamo nello stesso posto e nello stesso periodo dell’anno. Dopo i saluti di rito e i racconti di quei mesi nei quali non c’eravamo visti né sentiti, ci invita a salire in camera. Elisabetta capita l’antifona, si oppone con veemenza, con tutto quello che c’era da fare! Lui insiste io insisto, saliamo. Fumiamo un paio di canne ma dopo pochi tiri chiedo a Carlo di farmi stendere sul letto. Elisabetta idem. Ero in uno stato catatonico, non riuscivo al alzare neanche un braccio, la secchezza della bocca mi impediva di parlare e mille pensieri profondi mi giravano nel cervello. Sentivo il rumore del mio cuore nonostante il ronzio di sottofondo che mi frullava nelle orecchie. Ma non ero rilassata per via delle borse, mi stava salendo una paranoia da mancanza di senso del dovere. Con uno sforzo tremendo allungo il biglietto da visita del laboratorio a Carlo e gli chiedo di chiamare e posticipare l’appuntamento. Ero più tranquilla, mi volto verso la mia amica che era immobile, con gli occhi fissi al soffitto. Ad un certo punto non ero più pesante, anzi ero leggera, impalpabile, non mi sembrava di appoggiare sul materasso. Mamma mia, com’è possibile, doveva essere la mia immaginazione. Scaltramente metto una mano dietro la nuca per controllare se i capelli fossero perpendicolari al materasso. Lo erano. Mi riappoggio piano sul letto e torno in me. Era ora di pranzo, la faccenda era durata quattro ore che erano sembrati cinque minuti. Elisabetta era seccata per la mezza giornata persa e quando le feci un accenno a uno stato di leggerezza aerea, senza nemmeno nominare la parola levitazione che usavamo in maniera ironica parlando di Angioletto, lei mi fulminò con lo sguardo: ”Zitta, stai ZITTA!”.
 

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Laboratorio di scrittura creativa / Il Trucchista
« il: Aprile 23, 2014, 11:07:36 »
Il Trucchista
Cap. I  Giovanni
Amo le donne e le osservo. Ne catturo gli sguardi e da uno sguardo so quello che la donna che mi sta davanti mi chiede. E io glielo do’.
Da un gesto, una mano nei capelli, un’accavallar di gamba, colgo il loro stato d’animo, intuisco le tribolazioni o le gioie.  Questo perché le amo, le ammiro e invidio loro quella capacità di dedizione che noi uomini non possediamo.
Tutto ciò ha come fine la conquista. E la conquista di una donna è un’arte sottile che io, in tutta modestia, posseggo.
Ricordo che quando ero ragazzo, mentre gli amici giocavano a pallone o si facevano le canne, io approfittavo per insidiare le loro pupe; niente di più facile se paragonavo il mio corteggiamento raffinato al loro tacchinare  insulso.
E pensare che non sono proprio bello: non alto, non muscoloso e perfino poco dotato nelle parti intime. Il mio sesso è come il mio pollice: piccolo e un po’ ricurvo. In compenso ho due magnifici occhi verdi che scrutano inquieti e sanno far sentire una donna nuda e indifesa, tanto da caderti fra le braccia come una pera matura.
E sono elegante. Non un’eleganza affettata, non esattamente alla moda, ma come dovrebbe vestire un uomo: camicie di Oxford inglese o a righe sottili,maglioncini di cachemere girocollo e pantaloni tenuti da belle cinture di cuoio grasso.  Calzettoni blu, mocassini o polacchine in caso di pioggia. Slip bianchi e mai una canottiera né niente che abbia un marchio in evidenza. Fino a qualche anno fa la mattina indugiavo dal barbiere, un po’ di pettegolezzi, panni caldi, pelo e contropelo per le mia barba dura. Oggi ho semplificato: usa e getta e un dopobarba cremoso.
Vanitoso, ma senza darlo a vedere, per non far soffrire l’alto tasso di testosterone che fluisce nel mio sangue.
 Non ricordo di aver provato amore prima di incontrare mia moglie.
Ma prima( e anche subito dopo) di questo evento consideravo i miei approcci come uno studio statistico, un calcolo delle probabilità. E se mi mettevo in testa la conquista, raramente fallivo.
Col tempo ho raffinato ulteriormente la pratica, sono diventato un vero gentleman: rose rosse in quantità, cenette intime in ristoranti stellati  e dopocena in alberghi di lusso dove le stupivo con pratiche svianti per allontanare il momento in cui le dimensioni del mio pene avrebbero provocato il panico o il sorrisetto ironico.  Arrivavano a scoprirlo già soddisfatte dalla mia ars amatoria. “Piccolo ma sincero” dicevo allora e tutto si risolveva in una risata.
Paradossalmente  la mancanza di qualche centimetro mi dava un vantaggio:  dovevo per forza indugiare nei preliminari, con grande gioia della prescelta.
Ma quello che soprattutto davo alle donne era il tempo: anche la donna più reticente crollava davanti alla mia tenacia. Più  tempo dedicavo loro e più cresceva la loro autostima, fino a quando non mi ritraevo, sottraendo l’elemento che le aveva tenute in fibrillazione. A quel punto mi cercavano.
Così sono andato avanti per anni,riuscendo ad avere una media di una conquista a settimana.
Non era difficile cercarle, avevo un negozio di mobili, erano loro a venire da me, e quando dal mio ufficio con le pareti di vetro vedevo la gnocca, il personale sapeva lasciarmi libero il campo. E allora cominciava la sfida. La tecnica variava a seconda dei tipi di donna, le cui attitudini sono già dichiarate dall’abbigliamento. Con quelle vestite in maniera appariscente sapevo di potermi permettere un approccio più diretto, la battutina a doppio senso, conquista facile, sesso porco.
 Era però l’apparente inespugnabilità della signora raffinata che mi eccitava davvero. I facili trionfi non fanno per me, in qualsiasi campo le vittorie mi piace sudarle. Il tailleur mi ammaliava, la camicetta di seta che si appoggiava lieve sul seno anche maturo mi mandava in visibilio, per non parlare dei pantaloni da uomo che cadevano morbidi su scarpe basse stringate. In questi casi davo il meglio di me con l’apparente disinteresse verso la persona, concentrato sulla vendita, ma lanciando di sottecchi sguardi ammaliatori, tecnica nella quale sono maestro.
Diverse costituzioni fisiche mi richiamavano a  diverse posizioni. La magrolina andava posta in equilibro, sopra; per la culona era necessario l’angolo retto mentre la generosa di petto andava affrontata per l’appunto…di petto.
E’ stato un bel periodo fino a quando è durato, cioè fino a quando mia moglie ha tollerato, poi ha minacciato di venire a darmi una mano in negozio e la pacchia è finita.
Nel frattempo però stava prendendo piede la pratica di chattare via internet, e mi si è aperto davanti un mondo di femmine in calore.
Avevo così ricominciato a spargere il mio seme un po’ ovunque, cadendo anche in trappole di sesso a tre o dove il marito guardava. Ma non ero soddisfatto.
Mi mancava qualcosa che mi desse lo stimolo, ero stufo del sesso coniugale, noioso e ripetitivo ma non mi piaceva lo squallore degli incontri in rete.                                                                                                       

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Presentazioni / silvia
« il: Aprile 14, 2014, 10:37:33 »
Sono fuggita dall'Italia, intollerante allo sfascio. Lo avevano già fatto i miei figli. Vivo a Capo Verde dove gestisco un piccolo ristorante. Ho sempre amato la lettura e scrivere mi risultava facile, me ne accorsi già dalle Elementari quando la maestra non credeva che il temino fatto a casa fosse tutto farina del mio sacco. Ora sto scrivendo un racconto lungo, lo faccio per esorcizzare un dolore che non passa, ma che portò osservare voltandomi indietro solo alla parola fine.

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Altro / Il grande bluff,racconto breve
« il: Aprile 10, 2014, 18:18:25 »
Il grande bluff

Il mio futuro marito,tornando da un viaggio negli USA ,aveva portato un manuale:”How to make supergrass”.Nel manuale si spiegava che spennellando le foglie delle  piantine di durante la crescita con una soluzione liquida di Colchicina,i semi  delle stesse avrebbero prodotto la fantastica canapa.
 Vietato fumare quelle spennellate in quanto velenose.
 Seguimmo le istruzioni in modo molto ligio,un amico iscritto a Farmacia e con padre fornito della stessa ci procurò l’alcaloide e iniziammo l’operazione che durò quasi due anni,il primo anno spennellare il secondo godere dei risultati.Le piante crescevano triploidi,ossia con tre foglie iniziali al posto delle due canoniche. Il prodotto era strepitoso,addirittura troppo,al punto di doverti tenere libero per un paio d’ore dopo averla fumata.O ridurre la quantità .Avevamo coltivato Marjiuana OGM .Era ibrida però , senza semi,e non ripetemmo mai più l’esperimento considerandolo,alla fine,anche un po’pericoloso.
A questo pensavo, e anche a un anno,lo stesso in cui i talebani fecero saltare gli enormi Budda di Baniyam in Afganisthan. Ero a Jaipur e leggevo ogni mattina, mentre facevo colazione in giardino, The Times of India,proprio in attesa della notizia che tutti temevamo.
  In prima pagina,a fianco della foto dei Budda, una colonna  con un titolo sulla Monsanto gli OGM e il riso Basmati.
In pratica la multinazionale era riuscita attraverso un bluff al governo Indiano ,a mettere le mani sul patrimonio genetico del tipico riso dai grani lunghi e profumati,obbligando i contadini(il 90% dell’India è agricola) ad acquistare i semi  e costringendoli a tecniche di coltura non tradizionali .
   Tremila anni di incroci per ottenere un riso perfetto e un istante per perderlo.
 Al momento si contavano migliaia di suicidi fra le popolazioni rurali,povera gente indebitata per l’acquisto dei semi  e col valore del raccolto dimezzato dalla presenza di un unico acquirente,la Monsanto stessa.
Inoltre l’articolo metteva in guardia sul suo acquisto ; non doveva essere troppo economico e profumare anche crudo.
 La lettura mi aveva lasciato un amaro in bocca che neanche il dolcissimo tè al cardamomo dell’Arya Niwas riusciva a mandare via.
Feci caso al riso esposto in grandi sacchi di iuta nella bottega di fronte al mio albergo.
In effetti c’erano almeno cinque varietà e quelli più economici non profumavano.
 Li avrei trovati qualche anno dopo negli scaffali dei supermercati  e il vero Basmati solo nei negozi etnici,carissimo. Ora in Italia cerco riso biologico italiano.

E mentre anche a questo pensavo,maledicendo l’imperialismo americano,la Nato,i Muos,la Libia,l’Ucraina e chi più ne ha più ne metta,mi è venuto il pensiero più doloroso.
La canapa farà la fine del riso Basmati!?
Eh già! Altrimenti tutta questa ventata di antiproibizionismo americano non avrebbe senso.
So’ soldi ragazzi,in tempi di crisi…tutti sul carrozzone. E allora si liberalizza in Colorado e wow il gettito fiscale alle stelle.Si quotano le azioni in borsa,le banche si aprono agli agricoltori,la case farmaceutiche fibrillano e le multinazionali attendono al varco, pronte e legittimate a entrare nell’affare. Addirittura si appronta in quattro e quattr’otto un corso universitario sulle tecniche di coltivazione.
 L’America,di fatto,si sta preparando al monopolio.
Facendo una piccola ricerca sulla colchicina, ho scoperto essere il primo esperimento sulla genetica della canapa,un paio di ingegneri cercavano una maniera di potenziarne gli effetti,in previsione di un utilizzo farmacologico. Quindi è dagli anni’80 che ci si prepara all’affare che e’ sempre quello:appropriarsi del DNA del vegetale e costringere gli agricoltori ad acquistarne le sementi.
E’ indubbio che,visti i molteplici utilizzi della pianta,l’affare è gigantesco,altro che mais o soja.
E  l’Italia come si comporterà?
I danni della repressione sono sotto gli occhi di tutti ma si fa fatica ad ammetterlo.
Governi illegittimi e ministri non votati si danno un gran da fare per mantenere,anche attraverso decreti truffa, uno status quo ormai insopportabile,e,salvo qualche sentenza di giudici illuminati,ancora non si vede luce.
 Eppure nell’aria qualcosa si muove; la linea guida americana si sta facendo strada,e allora la canapa diventa un farmaco strepitoso,un isolante perfetto,una fibra eterna,un olio anti radicali liberi e presto cambierà la visione che ne ha oggi l’uomo comune .
 Siamo una nazione soggiogata,colonizzata,culturalmente impreparata a prendere decisioni  che non siano a danno dei cittadini. Annientati da una criminalità che gestisce qualsiasi settore della vita pubblica,schiavi  di un sistema capitalistico bancario di cui l’America tira i fili, non osiamo contraddire ma,in fila,obbediamo.
Salvo poi accorgerci che avremmo avuto la possibilità di uscire dall’empasse  ben prima delle linee guida statunitensi,risparmiato soldi per
canapa OGM.
Vista l’ostinazione del governo a sostenere il DPA e la sua battaglia idiota,temo che l’Italia opterà per la repressione  così  da continuare a favorire il narcotraffico e assorbire la canapa Sudamericana esclusa dal mercato USA dalle recenti liberalizzazioni.
p.s. La zona di Calì,Colombia,è famosa per la produzione di un’erba fortissima,triploide e a volte tetraploide
 
Che bluff,hai vinto con una coppia di sette.




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