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Topics - gipoviani

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Sentimentale / La canzone di Marinella
« il: Febbraio 12, 2020, 11:12:37 »
Arrivai al bar di Piazza del Duomo con un leggero ritardo e con lo sguardo cercai Emanuela. La vidi seduta al tavolo con un uomo che non conoscevo. Non avevo voglia di vedere gente. Stavo per andarmene quando lei mi scorse. Il viso s’illuminò e sorridendo mi fece segno di venire. Non potei far altro che avvicinarmi.
“Lui è Marco, un collega di mio marito. Mi ha fatto compagnia mentre ti aspettavo”, mi disse dopo il suo tradizionale abbraccio affettuoso.
“Buongiorno Marco”.
Lui si era educatamente alzato puntando il suo sguardo volitivo sui miei occhi. Era un bell’uomo sui quaranta anni, fisico longilineo e atletico ma non palestrato. Il sorriso sicuro di un uomo forte, che non si vergogna della malinconica dolcezza dei suoi grandi occhi neri. Un uomo pericoloso, avrebbe detto mia nonna. Quelli che rovinano le brave ragazze, avrebbe aggiunto.
Strinse la mano che gli avevo porto e pose la sinistra sul braccio effettuando una lieve, quasi impercettibile, carezza. Era estate, la sua mano incontrò la mia pelle nuda. Il sole, e spero solo lui, vide fremere al tocco la mia pelle.
“Ciao Marinella” disse semplicemente.
Rimase alzato mentre noi ci sedevamo.
“Io vado, così vi lascio chiacchierare liberamente. Marinella, è stato un piacere anche solo incontrarti. Emanuela mi aveva detto che eri una bella donna. Pensavo esagerasse, ma sbagliavo. Sei molto più che bella. “
E andò via, quasi fuggendo, senza darmi il tempo di ringraziarlo per la sua galanteria.

“Persona interessante. Un appassionato di De André, come te”. Chiosò la mia amica, passando subito ad altro.
“Ti devo raccontare una storia spassosissima. Te ricordi Giulia, la nostra collega di Educazione Fisica di quando insegnavamo a Riva del Garda?”
Volevo molto bene a Emanuela. L’avevo conosciuta il mio primo giorno di insegnamento, proprio a Riva. Da allora eravamo diventate grandi amiche. Entrambe figlie uniche, avevamo forse trovato la sorella che avremmo sempre desiderato avere. Ci eravamo prese come solo due opposti si prendono. Lei, un’insolita meridionale bionda, salita al Nord per lavorare, era solare, aperta, sempre ottimista. Sono una leccese normanna, amava dire. Io trentina delle Valli Giudicarie, diffidente, seria, col sorriso faticoso. Emanuela mi aveva insegnato che ridere è spesso la massima forma di serietà. È stata una delle poche, forse l’unica, che non è scomparsa quando il film della mia da commedia romantica si è trasformata in dramma.  La maggior parte delle persone ha grandi difficoltà nell’affrontare la sofferenza, la propria e quella degli altri. Dalla propria sofferenza non è quasi mai possibile fuggire, da quella altrui sì. E molti cosiddetti amici, e addirittura qualche parente, erano scappati via.

Cascasse il mondo – e il mio era proprio cascato - ci vedevamo il giovedì pomeriggio per prendere un tè in un bar del centro di Trento. Era il nostro piccolo grande rituale da anni. Almeno quando lei era in città. L’avevo conosciuta che era un’insegnante di musica alle scuole medie, ora era violino di fila nell’orchestra dell’Arena di Verona e ogni tanto partiva per delle tournée. Quell’appuntamento per me era diventata un’oasi di serenità, se non una pratica di sopravvivenza, e maledicevo l’Arena quando me la portava via.
Qualcuno avrebbe detto che Emanuela tendeva a chiacchierava troppo. I trentini, si sa, non sono propriamente loquaci e spesso diffidano di chi lo è. A me piaceva sentirla parlare. I suoi racconti erano ironici e divertenti e anche quella volta mi fece ridere con le disavventure di Giulia prima e della sua famiglia poi. Era arrabbiata con il marito perché quel fine settimana sarebbe andato con degli amici a fare una battuta di caccia in Croazia. Lei, animalista militante, sarebbe stata meno dispiaciuta, mi confessò, se fosse voluto andare da qualche parte con un’amante. Non le credetti, sapevo quanto amava quel suo uomo, salentino anche lui, simpatico ma un po’ cialtrone.
“Guarda che se non fossi arrivata presto, avrei ceduto alla corte di Marco. Così avrebbe avuto le stesse corna del cervo che vuole sparare. Hai visto che bell’uomo che è? Ci cangia defrisca”, concluse nel suo dialetto che avevo cominciato a capire. Mi allenavo tutte le estati, quando passavamo almeno due settimane insieme nella sua casa vicino Otranto. Ma neanche questa volta le credetti.
Ridevamo ancora, quando ci salutammo. Voltato l’angolo, mentre tornavo a casa, Emanuela mi mancava già.

Quella sera a letto mi facevo cullare dal lento respiro di mio marito, ma io non dormivo. Mi veniva una tristezza infinita a pensare come fosse diventata la nostra vita. E mi venne il terrore di quello che ci aspettava. Non ne avevo parlato con nessuno, neanche con Emanuela. Il venti settembre si avvicinava sempre più velocemente e io non sapevo cosa fare.
Era il giorno del mio compleanno, poco meno di quattro anni fa. Camminavamo spediti verso il nostro ristorante preferito per festeggiare, noi due soli, come sempre. Enrico fu improvvisamente bloccato da un crampo alla gamba destra. Minimizzò. Minimizzai. Solo un piccolo strappo che si era preso giocando a pallacanestro. Chi si preoccupa per un semplice crampo? E infatti gli passò in un paio di giorni.
Tornò tre settimane dopo e fu l’inizio del nostro calvario. Se la mia vita fosse stata veramente un film, in questo preciso istante la musica avrebbe cambiato registro, virando verso un tono basso e drammatico che sarebbe durato fino ai titoli di coda. E per me anche dopo.
SLA era il proiettile che il destino ci aveva sparato addosso, sclerosi laterale amiotrofica. All’inizio Enrico ci scherzava anche; la stessa malattia di Stephen Hawking, per lui laureato in fisica alla Normale e professore all’Università di Trento. Ma questa volta non c’era proprio niente da ridere.
Di colpo pensai a Marco. A quando aveva messo la sua mano sul mio braccio. Mi sentii bagnare. In silenzio, mi tolsi gli shorts del pigiama, allargai le gambe, mi accarezzai piano, lenta, senza fretta, prendendomi tutto il tempo che il destino reclamava indietro. Chiusi gli occhi e venni, intensamente venni. Mi voltai verso Enrico, presi la sua mano nelle mie e sussurrai: “Ti amo”.

Eravamo alla fine di agosto e non c’erano stati ancora temporali, il venti settembre si avvicinava veloce. L’aria era ancora calda alle sei di pomeriggio. Uscivo dalla Coop di piazza Lodron e mi sentii chiamare. Mi voltai e vidi il volto spavaldo e sorridente di Marco.
“Ciao Marinella, che bella sorpresa incontrarti”. Disse venendomi vicino. Pose la sua mano sui miei fianchi.
“Posso offrirti un tè o quello che vuoi?”. 
“Mi dispiace, non posso, devo tornare a casa.” Risposi, forse troppo bruscamente.
“Ti posso lasciare il mio telefono?”, mi disse prima di salutarmi. “Per qualunque cosa, per bere un tè, fare una passeggiata, chiamami”. Presi il numero e scappai via.

Cominciarono le prime piogge e i primi freddi, le giornate si accorciavano sempre più velocemente. Il tempo stava per finire. Io stavo male e non potevo parlarle con nessuno, neanche con Emanuela.
La mia amica sembrava leggermi nel pensiero, perché proprio in quel momento mi arrivò un suo messaggino al telefono. Era un link a una pagina web con un’intervista all’assessore al turismo del Comune di Otranto. Erano iniziati i lavori per la costruzione del primo stabilimento balneare progettato per permettere anche ai portatori di handicap di fare il bagno in mare in tutta sicurezza e comodità. Scivoli per entrare in acqua e particolari sedie a rotelle con grandi ruote di gomma in grado di passare comodamente dalla spiaggia al mare.
“Così Enrico tornerà a farsi il bagno”. Mi scrisse.
Le risposi semplicemente: “Grazie”.
Pregai che mi perdonasse, quando avesse saputo.

Arrivò il giorno prima della partenza. Non chiamai Emanuela, ma telefonai finalmente a Marco. Ci accordammo per prendere un tè da lui. A casa dissi che avevo una riunione a scuola.
Tornai tre ore dopo. Corsi a farmi una doccia e misi tutti i miei vestiti in lavatrice.
Salutai Andra, la signora rumena che mi aiutava con Enrico. Mi avvicinai a lui, gli sorrisi e gli feci una carezza in viso.
“Come stai amor mio”, dissi.
Oramai parlava solo attraverso il computer. Lentamente, muovendo solo un dito, digitò e il sintonizzatore vocale disse: “Bene. Oggi sei più bella del solito”.
Gli occhi mi si riempirono di lacrime. Le ricacciai indietro e mi chinai a dargli un bacio sulle labbra. Con la punta della lingua gentilmente gliene accarezzai. I suoi occhi si illuminarono. “Ti amo” gli sussurrai in un orecchio.
“Mai quanto io”, rispose la voce metallica.

Il giorno dopo partimmo. Era raggiante, direi proprio felice. Era tanto che non lo vedevo così. Il suo entusiasmo mi contagiò. Lui sembrava, era, felice di partire. Speravo che a cose fatte, la sua serenità sarebbe stata la mia difesa contro i sensi di colpa.
Potrà sembrare un’eresia, ma fu come se fosse il nostro secondo viaggio di nozze. Il buon Dio, o chi per lui, ci regalò una giornata splendida. Dopo una settimana intera di nuvole e pioggia, il cielo era azzurro e il sole brillava sicuro di sé. L’aria era tiepida. Arrivammo in Svizzera che era buio inoltrato.
Lui non aveva il minimo dubbio, io ero confusa e dilaniata. Fino all’ultimo gli dissi che potevamo tornare a casa insieme, nessuno avrebbe saputo nulla. E ripetei le cose che gli andavo dicendo da quando mi aveva comunicato la sua decisione, tre mesi prima. Se lo faceva per me, sbagliava. Io ero sicura che lui, per me, avrebbe fatto questo e altro, se fossi stata al posto suo. Che io stavo bene così, che non mi mancava nulla. Che lo amavo, come prima, se non ti più.
Fece il suo abbozzo di sorriso, che comunque ancora mi scaldava il cuore. E mi accarezzò con gli occhi, l’unico modo che gli era rimasto per farlo.

Era bellissimo, il mio Enrico. Gli feci una foto e la mandai a Emanuela. Chissà se avesse capito?
“Io torno libero. Sii felice”.
Mi arrivo il messaggio di risposta di Emanuela. Semplice e chiaro.
“Sono accanto a te. Ora e dopo”. Benedetta salentina normanna, aveva capito tutto.
Entrò l’infermiere, guardò Enrico per un’ultima conferma. Il sintonizzatore disse: “Ok”.
L’infermiere si avvicinò col il dispositivo che avrebbe aperto la flebo. Enrico mi guardò, sorrise e fece click.
“Tienimi la mano, fino alla fine”. Disse la voce metallica.
E la fine arrivò.

2
Nota: questo racconto, peraltro forse troppo lungo, contiene anche una scena di sesso quasi esplicito

Siena, 21 Gennaio 1982

 “Stavolta, mi sa che l’ho perso” penso, scendendo in fretta le scale.
Tutte le mattine la stessa scena. Corro, anche se il vento gelido di gennaio mi schiaffeggia rude e la strada che porta alla fermata dell’autobus è tutta in salita.
Arrivo che l’autobus sta facendo salire gli ultimi passeggeri. Stravolto e affannato, mi appendo alla maniglia e mi dico anche oggi quello che dico tutti i santi giorni: “E se uscissi cinque minuti prima, Arturo?”
L’autobus parte e comincia a scendere per via Celso Cittadini; fatte poche centinaia di metri, tuttavia, si ferma dietro ad una colonna di auto. E lì rimane.
Strano, strano davvero questo traffico a Siena e in questo punto della città. Sarà successo un incidente. Infatti mi giunge angosciante il suono delle sirene.

L’autista ha aperto le porte e molti scendono curiosi di sapere quel che succede. Io voglio semplicemente farmela a piedi, forse così potrei ancora sperare di arrivare in tempo alla lezione delle 10 del professor Goodwin. A passo svelto, in venti minuti sono a Piazza San Francesco, sede della facoltà di Scienze Economiche e Bancarie
Giunto al semaforo, vicino alla filiale della Banca Toscana, vedo una quantità mai vista di auto della polizia. A questo punto divento curioso anch’io e mi avvicino ad un signore anziano che staziona sul posto.
“C’è stata una rapina in banca” mi dice, prima ancora che io apra bocca per chiedere qualcosa.
“Una rapina? A Siena?” La notizia ha dell’incredibile.
“Pare che siano state le brigate rosse” aggiunge il vecchietto visibilmente eccitato dal fatto che per una volta la storia abbia deciso di transitare vicino casa sua.
“Le brigate rosse ? A Siena ?”
La notizia non solo è ancora più incredibile ma è anche destinata a modificare il corso della mia giornata.
Addio lezione, vado in federazione.
Se la notizia fosse confermata, occorrerebbe organizzare una grande manifestazione studentesca di protesta.
Io sono del PCI. Il terrorismo per me è insopportabile: nessun avvenire glorioso si può costruire impastando la storia con il sangue di vittime innocenti.
La federazione trabocca di compagni in agitazione.
Mentre discuto con Sergio, il segretario della Lega degli Studenti Universitari, sulla eventualità di organizzare un’assemblea degli universitari al rettorato, arriva il segretario provinciale del partito e ci comunica le novità.
Il questore lo ha informato che i terroristi sono stati intercettati durante la fuga, c’è stato un conflitto a fuoco subito fuori Siena e due carabinieri sono stati uccisi insieme a un terrorista. Ora il gruppo di fuoco e pare alcuni fiancheggiatori sono in fuga disperata per le campagne intorno alla città e, forse, anche dentro le mura.
Prepariamo un volantino in cui invitiamo gli studenti a un’assemblea alle due nell’aula magna. Poi  ognuno di noi va verso le proprie facoltà per fare volantinaggio.
Con Sergio ci diamo appuntamento al rettorato. Io farò uno degli interventi durante l’assemblea.
L’attacco terroristico ha fatto scalpore nella sonnacchiosa Siena e anche in facoltà si registra una forte tensione emotiva e una diffusa voglia di “far qualcosa”; in pochi sono a lezione, quasi tutti sono nel chiosco e nei corridoi a scambiarsi impressioni e informazioni.
Mentre alcuni compagni continuano il volantinaggio, decido di andare un po’ in biblioteca per buttare giù qualche appunto sul mio intervento all'assemblea.

Mentre sono assorto nei miei pensieri, mi sento toccare la spalla. Mi giro e rimango di giaccio.
Carmen. La mano sulla spalla è la sua, il viso bellissimo ma pallido e sudato è il suo, gli occhi smarriti sono i suoi.
“Ca.. Carmen, che ci fai qui?” le dico alzandomi.
“Ho bisogno di te, Arturo”.
La guardo interrogativo e perplesso, lei non mi spiega. E’ evidente che non voglia parlare lì davanti a tutti.
“Vieni, andiamo via di qui” le dico e usciamo dalla biblioteca del Circolo Giuridico.
“Arturo, ti cercavo”, mi dice “Sono nei guai, quando ti ho visto mi è sembrato un miracolo.”
“Oddio Carmen, hai a che fare con questa storia? Sei pazza?”
Non mi risponde e abbassa gli occhi, in mano ha il volantino che i miei compagni stanno ancora distribuendo. Poi alza il viso verso di me e i suoi occhi si aggrappano ai miei.
Bastano pochi secondi e capiamo entrambi che l’aiuterò, senza se e senza ma, senza farle paternali o comizi, almeno per adesso, senza pensare ai rischi e alle conseguenze. Alla faccia della coerenza e di quello che dirò da qui a poco all’assemblea.
“Andiamo a casa mia, lì nessuno ti cercherà", le dico, “solo te, però. Non voglio vedere nessun altro.”
Appena usciti dal portone della Facoltà, li vediamo entrare dall’arco che da via dei Rossi immette in piazza San Francesco; saranno una ventina fra poliziotti e carabinieri, controllano tutti quelli che passano e avanzano verso il portone.
Non ci resta che tornare in dietro. Ma ho paura si sia in trappola. L’ex-convento dei francescani che ospita le facoltà di SEB e di giurisprudenza è attaccato alla cinta muraria e non c’è via di fuga.

“Vieni con me” e saliamo al secondo piano. La mia idea è banale, probabilmente troppo: chiudersi in un bagno. Forse sono i primi posti dove cercheranno, ma non riesco a pensare ad altro.
Passando vicino alla segreteria dell’Istituto, vedo che la segretaria non c’è e la porta è aperta. Mi viene un’idea.
“Avvertimi se viene qualcuno” dico a Carmen mentre entro. So dove sono le chiavi degli uffici dei docenti. Scelgo la stanza del professor Sereni, con cui sto facendo la tesi, e so che è all’estero per un convegno. Ce ne sono diverse copie, così nessuno noterà che una manca.
Raggiungiamo la stanza che ho scelto come rifugio e dopo aver controllato che nessuno ci guardi entriamo dentro.
Sono teso, sudato e con il cuore a mille. Mi siedo per terra e aspetto.
Aspetto che la paura mi passi, aspetto che il respiro torni normale, aspetto di capire cosa ci faccio in quell’ufficio a aiutare una terrorista che forse ha appena ucciso due carabinieri.

Lei si siede accanto a me e abbandona la testa sulla mia spalla dicendo solo un flebile “Grazie, Arturo”.
“Grazie un cazzo”, le urlo. Per poi mordermi immediatamente la lingua: dal corridoio ci potrebbero sentire. Aspetto qualche minuto e con la voce più bassa che posso, parto con il mio pistolotto.
“Avete ucciso due persone, Carmen, due esseri umani che facevano il loro lavoro. Magari due papà che saranno attesi invano dai loro bambini, sicuramente due figli che le mamme piangeranno finché campano. Ma non lo capite che vi stanno usando contro di noi. Proprio per non farlo cambiare questo cazzo di Paese, per continuare a comandare loro”.
Mi giro in cerca di una risposta, ma Carmen sopraffatta dalla tensione sta dormendo, almeno così mi sembra. E nel sonno il suo viso si è finalmente disteso e sembra quasi che stia sorridendo.
Cazzo, Carmen, riesci sempre a fregarmi. Ma non mi meraviglia per niente il desiderio che provo di accarezzarle il viso e di stringermela fra la braccia portandola lontano da qui, lontano da tutto.
Passano i minuti, Carmen dorme con la testa appoggiata alla mia spalla e io penso a come diventa strana e imprevedibile la mia vita quando entra in gioco Carmen. Fra pochi minuti dovrei parlare davanti ad un’ assemblea di protesta contro il brutale attentato terroristico e al momento sto proteggendo una degli attentatori.
“No, non stai proteggendo uno di loro, stai aiutando la tua Carmen”, penso.
“E non la stai proteggendo dalla polizia, ma da se stessa, dai suoi errori, dalle sue scelte sbagliate”, continuo.
“Quanto sei retorico”, mi dico, mettendo fine all’inutile dialogo interiore.
Comunque sia, non riesco proprio a fare altrimenti.

Con Carmen ci siamo amati come capita ai sedicenni della fine degli anni settanta. Con l'intensità dei giovani di tutti i tempi ma con la ambizione che la nostra storia fosse parte della storia del mondo che cambiava o che doveva cambiare. Il nostro amore non poteva che partecipare al cambiamento. Era rivoluzionario. "Compagno amore mio", iniziavano le lettere che ci mandavamo.
Quella stessa politica ci aveva separato. Fisiologicamente allergico a ogni forma di violenza, io ero entrato nella FGCI, diventando automaticamente un odioso revisionista da evitare politicamente e purtroppo anche privatamente. Io non avevo mai smesso d'amarla.
Un rumore di passi pesanti e delle voci mi riportano al presente. La polizia è arrivata.
Bussano ed entrano negli uffici che trovano aperti. Bussano anche al nostro ma fortunatamente avevo chiuso a chiave.
“Brigadiere”, sento urlare dopo l’ennesima porta che non si apre, “si faccia dare le chiavi di questi uffici. Voglio controllarli tutti.”

Siamo fottuti, cazzo; e adesso che faccio?
Mi viene istintivamente di pensare alla mia mamma e a quando saprà. Mi immagino persino il suo viso dolente, ma senza traccia di rimprovero, quando verrà a farmi visita in carcere per la prima volta. Cominciamo a sentire le porte che una ad una vengono aperte; per un paio di volte sembra che tocchi a noi, quando i rumori sono particolarmente vicini, ma si tratta prima della stanza accanto e poi di quella di fronte, dall’altra parte dello stretto corridoio: ci hanno regalato ancora qualche secondo di vita.
Mi figuro come la notizia ecciterà Gustavo Selva che nel GR2 di domani leggerà un editoriale sulla pericolosa e colpevolmente sottovalutata contiguità, provata dall’episodio di Siena, fra settori del PCI e terroristi.
Eccoli. Infilano la chiave nella toppa dell’ufficio del professor Sereni.
Tremo per le botte che mi daranno.
Girano la chiave. Aprono la porta. Probabilmente danno un’occhiata veloce alla stanza. Chiudono la porta.
Vanno via.

Il tutto non sarà durato più di 10 secondi, forse meno, ma accucciati sotto la scrivania stretti all'inverosimile a noi è sembrata un'eternità.
Ora capisco come abbiano fatto a non trovare la prigione di Moro in via Gradoli quando hanno bussato alla porta e, con i terroristi armati dietro l’uscio, hanno girato i tacchi e sono andati via.
Come hanno fatto a non insospettirsi per la poltroncina della scrivania messa tutta fuori, come hanno fatto a non vedere la borsa appoggiata al muro di fronte alla scrivania dove eravamo seduti pochi istanti prima che entrassero e che avevamo, come dei deficienti, lasciato in bella vista? Come hanno fatto a non sentire l’odore della paura che usciva dal nostro fiato?
Ma tant’è che io, Carmen e mia madre siamo salvi, almeno per ora, e Gustavo Selva non saprà mai cosa si è perso.
E io rimango convinto che difficilmente i terroristi verranno sconfitti militarmente, almeno non da questi militari. Verranno sconfitti solo se saranno isolati politicamente, se si farà terra bruciata intorno a loro.
E maledico me stesso perché dovrei essere anch’io a farlo e invece mi sto baciando appassionatamente con una terrorista sotto la scrivania del professor Sereni.

Io e Carmen siamo rimasti nello studio fino al pomeriggio inoltrato in silenzio per evitare che ci potessero in qualche modo sentire.
Siamo andati a casa a piedi evitando così un paio di posti di blocco che controllavano auto e bus. Io divido la mia casa con altri due studenti. Ma fortunatamente in questo periodo non hanno lezione e sono tutti e due in Calabria.  Saremo soli e al sicuro. 
“Mi dai l’accappatoio che voglio fare una doccia?”, chiede, “e mi presti una tua camicia che lavo la mia roba?”
Carmen è sotto la doccia, sulla poltrona della mia camera ha posato la sua ampia borsa a tracolla semiaperta. Non riesco a trattenermi e ci guardo dentro. La prima cosa che vedo è una carta d’identità rilasciata dal comune di Brembate intestata ad una certa Claudia Regoli , ma la foto è la sua. C’è anche un passaporto con lo stesso nome. Ha un golfino blu e dentro sembra esserci qualcosa di pesante. Lo prendo e mi sento gelare. E’ fredda, dura, scura e puzza di grasso e polvere da sparo. E’ la prima pistola che tocco e mi spaventa.
Cosa cazzo stai facendo, Arturo? O forse dovrei dire dove sei? O torni in te o scappi. O come diceva mio nonno, o te ripi o te rocchi , o ti fai da parte o ti nascondi.

“Carmen”, le grido dalla porta del bagno, “vado a comprare le sigarette. Torno subito” . Non so se sente e non mi pare risponda.
Il freddo della sera mi pulisce il cervello, cammino e anche se non fumo entro in un tabaccaio. Dove non si parla d’altro che della rapina e dei due carabinieri uccisi.
La Nazione è uscita in edizione straordinaria. La compro. Quante volte ho letto notizie di questo tipo, quante volte ho visto le foto dei cadaveri per terra coperti da un lenzuolo. Ma questa volta è tutto diverso e mi sembra di essere stato io.
Mi viene la tentazione di usare il gettone che ho in tasca per chiamare il 113. Forse il rimorso mi passerebbe. Ma è solo un attimo. Non lo posso fare e torno indietro.
Apro casa e la trovo quasi buia. Una fievole luce viene dalla cucina da dove sento Carmen cantare.
Mi pare una cosa un po’ imprudente e del tutto inopportuna, io ho ancora il giornale con le foto dei morti in mano. Sono quasi pentito di non aver telefonato.
In cucina è accesa solo la luce sotto la cappa; Carmen mi volge le spalle e sta lavorando davanti al tavolo di formica gialla.
Si gira solo un momento sentendomi arrivare.

“Avevo voglia di cucinarti qualcosa. Non c’era granché, sto facendo una frittata con le zucchine. Ti piace?”
Senza sentire la mia risposta, torna a voltarsi e a tagliare le zucchine.
Non so se sia consapevole dello spettacolo che mi sta offrendo. Ha indosso solo la camicia a grandi quadri scozzesi che le ho dato e sotto è nuda. La luce che proviene dalla cappa mette in evidenza tutte le curve del suo corpo. E’ a piedi scalzi.
Si gira un attimo verso di me e mi sorride: ne è consapevole.
Impazzisco di amore e desiderio e tutto il resto passa in cavalleria. Per seppellire i ricordi butto via la Nazione.
Mi avvicino al tavolo, mi metto dietro di lei e l’abbraccio. Comincio a baciarle il collo.
Lei nulla dice e nulla fa. Continua a tagliare le zucchine, come se niente fosse.
Le accarezzo i seni da sopra la camicia e sento i capezzoli si induriscono, mi sembra di riconoscerli, mi sembra mi riconoscano. Le sbottono la camicia che le si apre davanti, ora la mia pelle della mia mano tocca direttamente i suoi seni e lei taglia l’ultima zucchina.
La mia mano scende sui fianchi e arriva ad accarezzare le gambe, Carmen prende la ciotola avorio e apre le uova. La mia lingua le lecca l’orecchio destro e lei impugna una forchetta per sbattere le uova.
Ora la mia mano è fra le sue gambe, le accarezzo la parte interna delle cosce e arrivo al suo sesso caldo e bagnato. Mi vuole, mi aspetta, mi desidera, ma inizia a sbattere le uova, come se fosse del tutto normale avere qualcuno che ti accarezza la fica mentre fai da mangiare.
Con le mani le allargo le gambe per prendere pieno possesso del suo sesso e Carmen sala le uova sbattute.
Mi inginocchio e le lecco mordicchiandoli i glutei e infilo poi  la lingua nel solco che li divide. Ora la mia lingua le accarezza la fica e finalmente un sospiro le esce dalle labbra ma continua a sbattere le uova.
Mi alzo e mi spoglio; sono pronto, sono tanto pronto che mi fa male.
Carmen adesso lascia la ciotola e la spinge al lato del tavolo, sposta anche le altre cose e si adagia sul tavolo.
Mi prendo il cazzo in mano e cerco la strada per entrare dentro di lei. Lei è bagnata e non è difficile entrarle dentro per la prima volta. Mi fermo e la guardo distesa sul tavolo con una mano vicino alla bocca, le ammiro la schiena, le spalle il bacino, il culo. E’ bellissima.
Le metto entrambe le mani sui fianchi e inizio a muovermi.

“Bentornato a casa” mi dice.
Ed è così che mi sento come uno che apre la porta di casa dopo una lunga assenza, come una nave che ritrova l’imboccatura del porto dopo una tempesta. E devo impegnarmi con tutte le mie forze per non venire subito.
Continuo a muovermi dentro lei godendomi lo spettacolo magnifico del suo culo che balla, dei suoi seni adagiati sul piano di formica, del suo sguardo perso nel vuoto, dei suoi pugni chiusi ma non serrati adagiati sul tavolo.
Si muove anche il tavolo e tutto quello che vi è posato sopra; una forchetta finisce a terra e le uova sbattono da sole nella ciotola che piano si avvicina al bordo del tavolo.

Mi fermo; non so perché, forse solo per avere un ricordo in fermo immagine di quanto sta avvenendo, per fissarlo in modo indelebile nella mia memoria.
Poi ricomincio a muovermi più velocemente di prima; il suo respiro si fa più rapido e quasi affannoso; il tavolo ora viaggia per la stanza.
Tutto l’universo converge su quel tavolo, precipitando sul mio cazzo e la sua fica. Altro non esiste. Il mondo fuori non c’è più, si è dissolto, liquefatto.
Lo sento arrivare da dietro la spalla e stavolta non mi potrò controllare. Spingo ancora più forte e il tavolo fa un salto; la ciotola con le uova sbattute ha raggiunto il bordo del tavolo.
“Arturo……” la ciotola finisce a terra, le uova  cadono giù.
La frittata è andata e io vengo.
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Carmen muore in un conflitto a fuoco con la polizia nel Giugno del 1985
In quello stesso anno, Arturo vince una borsa di studio Fulbright per gli USA. E’ diventato un'economista ultraliberista e oggi impone il verbo del FMI ai Paesi in via di sviluppo.

3
Sentimentale / L'ultimo teorema di Enrico
« il: Gennaio 15, 2013, 13:22:03 »
Non sono mai andato a puttane. Non certo per ragioni morali o religiose. Se paghiamo chi ci prepara da mangiare o ci fa un massaggio, perché non pagare anche chi ci fa l’amore? Mi sono sempre ritrovato però nel verso della canzone di Baglioni “una storia va a puttane, sapessi andarci io”. Ecco, io non ci so andare e non so bene perché.
Altrimenti non avrei fatto cenno di no alla bella ragazza dell’est che ci era avvicinata alla mia macchina ferma in una piazzola di sosta della statale della val Bormida che porta ad Alessandria. Forse con lei potevo per un attimo stordirmi e non pensare. Mi doveva aver preso per un cliente particolarmente timido, perché non la chiamavo e non mi avvicinavo. Ma appetibile a giudicare dalla BMW serie 6 sulla quale mi trovavo. Stanca di attendere aveva deciso di fare il primo passo. Ma io non mi ero fermato per lei, avevo accostato perché ero sconvolto.

“Ciao Enrico, sono Giuseppe…. Giuseppe Flascassovitti. Senti … Cazzo, te lo dico così, perché non so farlo altrimenti. Barbara ha avuto un incidente gravissimo, sta morendo, vuole vederti”. La voce gli s’incrinò, fece una pausa sforzandosi di non piangere. “Ma devi fare presto”.
Giuseppe e Barbara, un tuffo nel passato. Sembra un’altra vita, sicuramente è un’altra epoca e un’altra città. Barbara non la vedevo da più di dieci anni e Giuseppe forse da venti. Barbara la sognavo spesso e di Giuseppe leggevo su internet tutti gli articoli che pubblicava sul quotidiano locale della città dove ero nato, una marea di anni fa, dove non tornavo da venti anni o giù di lì.

1990, Facoltà di Matematica e Fisica dell’Università di Lecce, riunione del collettivo “La pantera simu nui”.

E’ sera, l’aula 5 del Fiorini è piena di studenti. Sembrano quasi tornati gli anni settanta, gli anni di quell’impegno politico di cui mio padre ogni tanto parla con nostalgia. Una pantera fuggita che vaga spaurita per i dintorni di Roma ha regalato il nome a un movimento studentesco che sta infiammando gli atenei e le scuole di tutta Italia.
Io brucio principalmente per la straordinaria visione delle gambe della ragazza che mi sta di fronte. Alzando gli occhi vedo che anche lei guarda me. Mi vergogno di essere stato colto sul fatto come se mi si potessero leggere in un fumetto i pensieri che mi frullano per il capo. Ma lei sorride e io annego in quel sorriso.

Così quando lo studente al microfono chiede chi s’intenda di computer ed informatica per contribuire alla creazione di Okkupanet una sorta di collegamento in rete dei computer delle università occupate sparse in tutta Italia e vedo la sua mano sollevata, l’alzo anch’io, sebbene stia scrivendo una tesi di teoria dei numeri, sull’ultimo teorema di Fermat e conosco solo il giusto sui computer e nulla sulle reti informatiche.

Barbara invece era un piccolo bellissimo genio. Parlava il linguaggio dei computer meglio dell’italiano. Lei era straordinaria, ma anche gli altri non scherzavano: non dimenticherò la soddisfazione che provammo quando mandammo via fax alla Cattolica di Milano il codice di programmazione che avrebbero dovuto usare per entrare in rete. Il Sud che da sempre arranca in ritardo dietro il Nord, stava insegnando a tutti come si costruisce un’autostrada digitale.

Una sera finito di lavorare, mentre stavamo per andare tutti a mangiare una pizza, un ragazzo biondo di una bellezza sconcertante venne a prendere Barbara. Lo odiai con tutte le mie forze. Se ne andarono insieme a braccetto. Il mio risentimento fu così plateale, com’era stata a tutti evidente la mia passione per Barbara, che fui oggetto di scherzi bonari e pacche sulle spalle da parte degli altri che compativano le mie pene d’amore.

Mi ricordo come fosse ieri quel che mi disse Barbara il giorno dopo mentre ci prendevamo un caffè insieme.
“Giuseppe è il mio più caro amico. Gli voglio bene come a un fratello. Ma non stiamo insieme. Peraltro a lui le donne non piacciono”.
Aggiunse che era un ragazzo straordinario, suo compagno di scuola dall’elementari, suo amico da sempre. Studiava lettere e voleva fare il giornalista.
Il sottotesto era evidente: sono disponibile, fatti avanti.
Era stata la mia prima donna vera. La prima volta e l’ultima che una donna mi faceva sciogliere il cuore solo guardandomi, la prima volta e l’ultima che una donna gridava forte il mio nome mentre veniva, la prima volta e l’ultima che una donna golosamente imburrava una fetta biscottata per poi riempirla di marmellata di arance e invece di mangiarsela me la offriva.
Giuseppe divenne il mio più caro amico.

Abbandonai i ricordi, mi ricomposi e presi rapidamente la mia decisione, per una volta. Richiamai il numero e lui mi rispose subito.
“Scusa Giuseppe, ma sono in macchina ed è caduta la linea” dissi, mentendo perché, disperato, avevo chiuso io, deliberatamente.
“Parto prima che posso, ci vediamo giù. Ti chiamo appena so quando arrivo”.
Ora dovrò trovare il coraggio di dirlo a mia moglie e a mio suocero. Lui è anche il mio capo e domani saremmo dovuti partire per il Lussemburgo per concludere un affare da centinaia di milioni di euro.
A mia moglie qualcosa di Barbara ho detto, non tutto e nemmeno abbastanza. Non le ho mai raccontato delle notti nelle quali la sognavo: erano sempre sogni bellissimi. Mai le avrei parlato del dolore cocente che avvertivo quando alcuni secondi dopo il risveglio mi rendevo tristemente conto che solo sogno era stato. A suo modo mi voleva bene. Io non l’odiavo perché lentamente aveva scolorito la parte migliore di me, odiavo me stesso per averglielo lasciato fare.

1991 Teatro Romano, centro storico di Lecce.

Siamo seduti fra i gradini del teatro in una dolce e tiepida giornata d’ottobre, io e Barbara, il giorno dopo la mia laurea. Fra i due palazzi barocchi che circondano il teatro, l’ultimo spicchio di sole tenta di resistere all’oscurità che avanza colorando di rosso i muri delle case.
“Sono affascinata dall’alchimia. Forse perché mi piace vivere al confine fra il giorno e la notte, la scienza e la magia”, mi dice mentre apre la borsa blu a zainetto che non abbandona mai.
“O forse m’intriga la ricerca in quanto tale; l’alchimia è la ricerca per antonomasia: una ricerca impossibile e infinita, destinata a durare per sempre. Come il mio amore per questa terra e queste pietre o questo particolare momento del giorno. Come il mio amore per te.”
Dalla borsa prende un pacchettino e me lo porge. “Il mio regalo di laurea”.
Non lo so perché, ma mi tremano le mani mentre lo apro. Quello che trovo all’inizio mi sembra uno scherzo. Una pallina di rame legata a una catenella d’oro sottile. Una pallina levigata e liscia che sembra una perla.
“Rame e oro”, mi dice “due dei sette metalli dei pianeti associati con venere e il sole. Due simboli degli alchimisti”
“Venere è la stella della sera, raggiunge la sua massima brillantezza all’inizio dell’oscurità, come se Dio o chi per lui, ci volesse dire di non aver paura del buio. Anche in una notte senza luna, Venere brillerà per noi. Come le lucine che le mamme accendono per i bimbi che hanno paura di affrontare il sonno da soli. Una luce che ricorda che il buio non è mai totale, non è mai per sempre”.
“L’oro è per dirti che sei bello come il sole”.


“Cu nu te scerri ci senti e da du vieni.” Mi ricordo ancora il viso rigato dalle lacrime di mia nonna, quando la andai a salutare il giorno prima della partenza per Princeton e mi dette una foto in cui siamo, io e lei, sulla spiaggia dove mi portava l’estate quando ero piccolo.
Avevo vinto una borsa di studio, le mie intuizioni sull’enigma secolare di Fermat avevano incuriosito il professor Wiles, che da anni si occupava della questione.
Mia nonna dall’alto della sua licenza elementare aveva intuito quel che tutti gli altri, compresi io e i miei genitori, non avevano compreso: quello era un addio e non un arrivederci.
Barbara si era laureata in Fisica col massimo dei voti e avrebbe avuto la possibilità di fare il dottorato in qualunque università europea e americana. Invece aveva iniziato a lavorare per il centro di calcolo dell’Università di Lecce. La situazione economica della sua famiglia glielo consigliava e lei comunque andava cercando un pretesto per rimanere dove voleva stare.
“Tanto lo so che torni”, mi disse dandomi l’ultimo bacio alla stazione mentre già il capostazione fischiava la partenza.
Invece non tornai, non tornai più veramente.
A Lecce riandai solo per seppellire le mie persone care, mia nonna manco era passato un anno, i miei genitori l’anno successivo, travolti da un ladro inseguito dalla polizia, mentre attraversavano la circonvallazione col verde e sulle strisce, rispettando la legge, come avevano fatto tutta la vita.
Intanto avevo incontrato Christine  ad un party dell’Italian society di Princeton al ritorno, da orfano, in America. Lei voleva consolarmi, io mi feci consolare affondando in quelle grosse e materne tette germaniche.
Barbara non seppe nulla, forse qualcosa immaginò, ma capì che ci stavamo allontanando.
Così quando finì il dottorato, Barbara non volle venire ad assistere alla discussione della mia tesi.
“Tanto tu non vuoi più tornare” mi scrisse.
Aveva ragione. Non ero più tornato, letteralmente.
Dopo il dottorato, diverse università americane mi offrirono contratti di insegnamento, ero un allievo di Wiles e lui con la soluzione all’enigma di Fermat era diventato il matematico più famoso del pianeta. Ma dentro di me qualcosa si era rotto, non sentivo più tanto il sacro fuoco della ricerca e l’ambiente americano era troppo competitivo per la mia innata pigrizia.  Partecipai quasi per caso a un concorso per ricercatore a Trento e lo vinsi. L’avventura americana finì così, senza rimpianti.

2001 Venerdì, Piazza del Campo Siena

Seduto in un bar di piazza del Campo, l’unico momento divertente di un noioso convegno di crittografia digitale, mi sforzo per comprendere il problematico inglese di due colleghi giapponesi. D’improvviso la vedo. Più che altro mi appare. Il sole che tramonta le disegna intorno un cono di luce, manco fossimo in teatro.
Al diavolo i giapponesi, vado da Barbara.


2001 Domenica, Albergo Santa Caterina, Siena.

Barbara si sta facendo la doccia, canta, è contenta. Io sono a letto distrutto. Non tanto per il bellissimo sesso che abbiamo fatto per gran parte del fine settimana. Mi alzo e inizio a vestirmi.
Abbiamo vissuto questi giorni non come una parentesi ma come un nuovo inizio, ubriacati dal fatto di esserci ritrovati. Lei ha fatto piani e progetti che io passivamente ho assecondato. Ho trascurato di dirle che sono fidanzato; ma a quanto ho capito anche lei ha una storia da chiudere, non è questo il problema.
Le ho anche giurato che non ho perso la perla di rame che mi aveva regalato per la laurea, l’avevo solo tolta quando la catenina si era rotta giocando a pallone, mentre stavo ancora in America.
Le ho taciuto la cosa più importante: oggi a otto, presso la chiesa di San Sebastiano e Dalmazzo ad Alessandria, sono fissate le mie nozze. Avevo deciso di sposarmi e cambiare vita, lasciare l’università e andare a lavorare con il mio futuro suocero, proprietario di una grande impresa nel settore farmaceutico. Stellina è figlia unica ed entrambi avevano dato per scontato che io sarei entrato in azienda. Avevo resistito, all’inizio, ma poi mi ero lasciato convincere. Il padre di Stellina è un bastardo senza valori ma sa essere convincente e principalmente aveva pigiato i tasti giusti. Aveva capito che ero stufo dello scarso stipendio che l’università italiana mi offriva e del mondo della ricerca in generale. Non ero un genio, questo mi era chiaro da tanto, e l’idea di essere un quadro intermedio della ricerca in un paese in cui scienziati e ricercatori non sono certo in cima alle preferenze sociali nemmeno quando sono geniali, non mi attirava più di tanto.
Giuseppe, il più grande idealista che avessi mai conosciuto, avrebbe semplicemente detto che mi ero venduto. Avrebbe avuto ragione, una casa favolosa, i ristoranti più eleganti, gli alberghi più lussuosi, le auto che avevo solo visto sulle riviste: a queste cose, quando cominci ad abituarti, non riesci più a fare a meno. Ti sembrano beni di assoluta necessità.
Per qualche ora, avevo anch’io creduto che potessi mollare tutto e ricominciare con Barbara. Per qualche ora.
Mentre chiudo la porta, sento ancora Barbara cantare sotto la doccia.


Hanno sostituito le poltroncine di legno giallino con sedili di plastica dai colori sgargianti, hanno ingrandito la hall, hanno messo nuovi negozi. Anche il nome è cambiato: non è più l’aeroporto Casale di Brindisi, ma è diventato, giustamente, l’Aeroporto del Salento.
Mentre aspetto il mio bagaglio riesco a intravedere Giuseppe che mi aspetta, aldilà dal vetro. Si è tagliato la barba con cui l’avevo visto in una delle ultime foto pubblicate sul giornale online che dirige. Sembra più giovane, è ancora bellissimo Immagino che le donne continuino a fargli una corte spietata nonostante la sua dichiarata omosessualità.
I nostri sguardi s’incrociano, la mia bocca si apre in un largo sorriso riflesso istintivo del cuore felice di rivedere un amico cui ho voluto molto bene. Gli faccio un ampio gesto di saluto con la mano.
Accenna un lieve sorriso, ha lo sguardo triste, piega la testa verso il basso. Capisco. Per quanto abbia fatto presto, sono arrivato troppo tardi.
Il suo abbraccio affettuoso mi dà una sensazione di calore e di gioia che non sentivo da secoli. Se non fosse per Barbara, direi che sono felice.
“Quando è successo ?”, chiedo una volta in macchina.
“Poche ore fa, quando cominciava a fare sera”.
A quell’ora io avevo appena trovato la sua catenina nell’armadio in soffitta dove tenevo varie cose del passato. Non ero voluto partire senza. Questa volta avrebbe dovuto vedere che la conservavo.
“Venere la sta illuminando nel buio”, pensai, meravigliandomi di sentirmi rasserenato da questo stolto pensiero. E' adesso che la diga si rompe e le lacrime cominciano a sgorgare copiose. Piango come un bambino distrutto da un dolore da adulto.
“Come potrai immaginare, sei stato il nostro argomento preferito di conversazione per anni. Enrico di qui, Enrico di lì. Poi all’improvviso, una decina di anni fa di te non volle quasi più parlare. Se io iniziavo raccontandole, magari, che ci eravamo sentiti per telefono o per mail, lei subito cambiava discorso”.
“Pensai che fosse perché era incinta e di li a poco, infatti, si sposò con Alberto con cui stava da un po’. Persona per bene, insegna matematica al De Giorgi. Non ti nego che fui contento che si fosse emancipata da te”
“Poi ieri, un’infermiera che mi conosce, mi disse che continuava a chiamare un certo Enrico. Visto che non era il nome di nessun familiare e che ne hanno viste di tutti i colori, al marito non hanno detto niente, ma hanno avvertito me. E io te.”
“La figlia di Barbara, come si chiama?”
“Angela Venere”.
Erano le 11 di notte. La luna non c’era e il cielo splendeva di stelle. Mi sarebbe piaciuto salutarla la Venere del cielo, ma dal cruscotto non riuscì a vederla.
“Cosa vuoi fare? Lei non la possiamo vedere, l’obitorio chiude alle 11”.
“Hai taralli, formaggio e olive a casa?”
“Certo e anche del buon vino”.
“Di questo non dubitavo, ma devi averne tanto. Andiamo a casa tua e ni mbriacamu a stozze”.

Cinque mesi dopo

Mia nonna aveva torto e Barbara ragione. Alla fine son tornato.
Per il momento sto a casa di Giuseppe, che attraversa un lungo periodo di singlitudine.  Ma sono in trattative per un appartamentino nel centro storico.
Da mia moglie e da mio suocero non ho voluto niente. Solo ciò che per contratto mi spettava. Mi ha dato l’idea che entrambi fossero alla fine quasi sollevati. Ho detto addio alle macchine costose, alle belle case. Non vado nei più ristoranti da guida Michelin, ma qui si mangia bene dappertutto e poi mi è sempre piaciuto cucinare.
Con i soldi che avevo messo da parte e con la liquidazione ottenuta, ho aperto una piccola attività con Nicola uno dei fratelli di Barbara. Siamo partiti dall’idea di vendere in rete in tutta Italia e anche all’estero, l’ottimo olio che lui produce. Poi ci siamo allargati a vari prodotti salentini, dalle friselle alla cotognata, dai pomodori secchi al vino.
Nel frattempo, per non dimenticare chi ero, do pure ripetizioni di matematica.
Da poco più di un mese abbiamo aperto in centro un piccolo negozio che vende prodotti a chilometro zero: per chi non vuole acquistarli on line, può venire in negozio.
Lavorare in negozio mi piace particolarmente, perché ogni tanto Angela Venere che fortunatamente, non me ne voglia Barbara, tutti chiamano solo Angela, viene a trovare suo zio.  Siamo diventati amici e spero mi voglia un po’ di bene.
Ogni tanto mi perdo a guardarla senza che lei se ne accorga. Mi sorprendo a fare il gioco squallido delle rassomiglianze. Alcuni giorni mi pare che assomigli a mia madre, per come si muove, per la voce o per il taglio degli occhi. Altre volte noto che fa gli stessi gesti del padre col quale condivide il colore dei capelli. Non saprò mai la verità.
E comunque non me ne frega niente, il solo vederla mi rallegra il cuore. Anche perché è eguale a sua mamma.
Sono sereno come non ero da tanto, oserei dire felice seppur con quel retrogusto amaro che mi dà il sapere che Barbara non è qui per vedermi.
Con Nicola vado d’accordo. Solo una volta abbiamo discusso un po’ animatamente: quando decidemmo il nome del sito e poi del negozio. Non ha mai capito perché ho voluto a tutti costi chiamarlo,
“La perla di rame”.

4
Sentimentale / Il peccato e i peccatori
« il: Settembre 21, 2012, 15:20:39 »
Visto che non posso parlare con nessuno di quello che ho scoperto, scriverò un diario. Non uno di quelli con il nastrino rosa, il lucchetto e la chiavetta che immancabilmente si perde. Un diario moderno.
I diari moderni si chiamano blog e non si scrivono ma si aprono e non sono segreti ma pubblici. Così potrò parlare a tutti del peccato senza nominare i peccatori, senza spezzare il cuore di nessuno. Ho bisogno di farlo, altrimenti impazzisco.
Le mie gambe si sono piegate per lo stupore e la vergogna. Mi sembrava una cosa tremenda, inconcepibile. Ero umiliato e offeso e mi sentivo tradito da tutti e due. Sceso dal tetto del garage dove ero andato controllare la parabola della tv satellitare che faceva i capricci, ho preso la moto e sono andato via e non volevo tornare più.
Poi ho deciso di vendicarmi sputtanandoli in un blog che chiamerò I peccati di SamPierdarena. E allora forse mi chiederanno scusa e io potrò perdonare, forse.  Questo è l’unico modo per sistemare le cose, altrimenti impazzisco. 

“I peccatori di Sampierdarena”
Venerdì 4 maggio
Li ho visti. Ho visto L. mettere una mano sotto la gonna di S. I nomi, i nomi interi ancora non li faccio, ma prima o poi li farò. Li metterò di fronte all’evidenza di quel che hanno fatto. E tutti in questo buco di città sapranno la verità. 
Lei stava in piedi preparando la macchinetta del caffè, lui è entrato è andato dietro di lei e le ha infilato una mano sotto la gonna a scacchi accarezzandole le cosce.  A questo punto pensavo che lei gli tirasse uno schiaffo e facesse una scenata. Niente di tutto questo. Si è girata e il suo viso non esprimeva rabbia o vergogna ma piacevole sorpresa; gli ha dato un veloce bacio sulle labbra allontanandolo da sé con un sorriso malizioso dipinto in viso dicendogli qualcosa che non potevo sentire ma doveva essere un dolce rimprovero.


L’idea della vendetta via blog, mi ha in parte già pacificato. Mi ha dato la forza di indossare una maschera di inconsapevolezza che mi permette di comportarmi con loro come se nulla fosse, come se niente fosse successo. Chissà se, quando la notizia del blog comincerà a diffondersi, si riconosceranno nei protagonisti, nei peccatori.
Ho comprato un po’ di materiale su Internet, piccole telecamere e microfoni in miniatura. Appena arrivano metterò la telecamera nella stanza di S. e le cimici nella sua auto. Poi sto incominciando a seguirli, discretamente perché se mi scoprissero il mio piano andrebbe a carte quarantotto.

“I peccatori di Sampierdarena”
Domenica 6 Maggio
Bene, molto bene. Vedo che il titolo vi ha intrigato, proprio come pensavo. Più di duecento collegamenti in un solo giorno. D'altronde più che un quartiere di una grande città, questo è un paesone con tutte le pruriginose curiosità di una piccola, pettegola comunità.
E lo so che volete conoscere non solo il peccato ma anche i peccatori. Statene certi; se continuerete a seguirmi, darò i loro nomi in pasto alla vostra curiosità e li sbranerete. Il blog è nato per questo. E sarà la loro fine e il mio nuovo inizio. Perché i peccati, lo sapete meglio di me, li fanno in tanti, anche molti (tutti?) di voi. Ma finché son privati non esistono, appena son conosciuti esplodono e tutti li condannano almeno in pubblico: alcuni per ipocrita perbenismo, altri per invidia.


Ho in programma per voi grandi novità. Fra un po’ potrete vedere e sentire L. e S. nell’esercizio delle loro funzioni peccaminose. Abbiate pazienza e sarete ricompensati. Anche perché voi li conoscete bene i protagonisti di questa lurida storia.
Oggi, quando Simona ha detto che sarebbe uscita, lasciandomi a guardare la Samp alla tv, ho preso la moto e l’ho seguita. Si è diretta verso la riviera di levante. Quando ho visto che abbandonava la statale, l’ho lasciata andare tanto sapevo dove era diretta: la casa di Ruta che le hanno lasciato i suoi genitori. Ne ho avuto la certezza quando dalla strada ho visto le persiane della cucina aperte. Mi sono nascosto dietro alcune auto in sosta, non ho dovuto aspettare che pochi minuti e l’ho visto arrivare con un sorriso di eccitazione stampato in viso. Doveva aver parcheggiato più lontano, fosse mai che qualcuno vedesse la sua macchina parcheggiata sotto la casa di Simona.  Si è guardato un attimo intorno ed è entrato nel portone senza suonare: lei deve averlo visto arrivare dalla finestra e gli ha aperto.
Ho pensato di far loro una improvvisata: tanto ho le chiavi. Il tempo di fare partire le danze e, quatto quatto, entro e li sorprendo. Vediamo cosa mi dicono. Poi ho desistito. Come dicono gli esperti, la vendetta è un piatto da gustare freddo. E comunque ho una ragione in più per essere incazzato: lui doveva essere a casa a vedere la Samp, non ha rispetto neanche per la fede blucerchiata.
Domani vengo a mettere una telecamera anche nella casa di Ruta.

“I peccatori di Sampierdarena”
Lunedì 7 Maggio
Cari amici, ho trovato il nido dei nostri piccioncini e so quando si incontrano: la domenica quando lui dovrebbe essere a vedere la Samp e lei dalle sue amiche. Ho riempito la casa di microspie e presto molto presto saprete cosa si cela dietro la rispettabile vita di due nostri concittadini. Vedrete come passa le domeniche pomeriggio una delle più conosciute e stimate avvocatesse di Genova.
E allora ci divertiremo. Avvertite amici e conoscenti, informate i colleghi, parlatene dal parrucchiere, fra non molto sentirete e vedrete i peccati di Sampierdarena. I peccatori saranno mostrati nella pubblica piazza.

Oggi mentre Simona era al lavoro sono entrato nella sua stanza e ho rovistato nelle sue cose. Nell’ultimo cassetto del comò ho fatto una scoperta sconvolgente: biancheria intima particolarmente sexy, addirittura dei reggicalze che mai le avevo visto addosso. Non pensavo che nessuna donna per bene indossasse questa roba, solo le puttane. Allora Simona è una gran puttana. La chiusura del sillogismo mi colpisce allo stomaco facendomi di nuovo piegare le gambe. Non è possibile, non è questa la Simona che pensavo di conoscere e che amavo, amo, sopra ogni cosa.
Fotografo la biancheria con il mio telefonino.

“I peccatori di Sampierdarena”
Martedì 8 Maggio
Buon giorno amici, vedo che crescete ogni giorno di più, siete più di cinquecento. E’ arrivato allora il momento per farvi il primo regalo.
Guardate bene cosa c’era nel cassetto di S. Un bell’armamentario di biancheria molto più che sexy. Magari la prossima volta vi posto le foto delle manette e dei frustini se li trovo.
 Io continuo a cercare, voi continuate a cercare me: i peccati di Sampierdarena stanno per essere svelati.


In una scatola di carta dentro l’armadio ho trovato vecchie foto di famiglia e una lettera di Beatrice vergata a mano. Ancora c’è gente che scrive lettere a mano?

Carissima Simona
non immagini quanto sia stato bello ricevere la tua lettera. Mi ha ricordato quando ce le scambiavamo a scuola durante l’ora di religione o di storia dell’arte.
Ero preoccupata per te, tanto. Dietro la tua apparente serenità io vedevo che la tua tristezza non passava con gli anni, anzi. Quello che mi hai raccontato è un po’ particolare e sorprendente lo ammetto, ma ti voglio dire una cosa. E mi piace scrivertela, così potrai leggerla tutte le volte che ti servirà. Non hai assolutamente niente di cui vergognarti.
Ti aggiungo poi la cosa forse che più di tutte vorresti sentire da me. Lui ti direbbe: vai avanti, segui il tuo cuore e cammina a testa alta. Vivi la tua vita e si felice. Io sono felice per te.


Non riesco a finire. Ma che cazzo dici, Beatrice? Che vai dicendo? Come puoi pensare che lui le avrebbe detto brava? Ti hanno irretita o anche tu ti sei fatta corrompere da questo mondo nel quale conta solo l’appagamento delle proprie pulsioni più basse? Ma forse anche tu sei una puttana, anche tu avrai tanga e giarrettiere nell’armadio. Sono il solo a pensare che sia una cosa squallida?

Mi andrebbe di fare la lettera in mille pezzi, mi trattengo. Mi potrebbe tornare utile, magari posso pubblicarla sul blog. Per il momento la metto in tasca ai pantaloni.

“I peccatori di Sampierdarena”
Domenica 13 Maggio
Cari amici se tutto va come dico io, domani è il gran giorno. A quest’ora mentre la Samp sta perdendo 2 a 0 a Milano con l’Inter, loro se la stanno spassando nella casa di Ruta. Dove ci sono le mie telecamere che li stanno riprendendo. Domani le recupero e vi mostro tutto. Domani vedrete quali sono i peccati di Sampierdarena e conoscerete anche i peccatori.
Vi ringrazio per le tante mail che mandate. Qualcuno di voi però si è sbagliato, questo non è un sito commerciale. Non vi mando video a pagamento.
Per chi mi avete preso? Questo è, se volete chiamarlo così, giornalismo di inchiesta familiare: operazione famiglie pulite.


Lunedì sono un po’ emozionato e disorientato. Entro nella casa di Ruta. Chissà perché mi aspettavo di trovare tutto sottosopra , tutto in disordine come i miei pensieri. Invece è tutto in ordine, tutto pulito. Vado nella camera da letto matrimoniale, salgo sull’armadio, prendo la mini telecamera, sfilo la memoria micro SD da 16 gb, la inserisco nel lettore del mio pc.
Per un momento mi chiedo se veramente voglio vedere. Non sarebbe meglio scappare, andarsene via lontano. Le scuse non mi mancherebbero. I peccati non è forse meglio lasciarli nella sfera privata? Sono proprio sicuro di avere voglia veramente di vederla mentre lo fa e con lui per giunta?
Premo il tasto play. Pronto a stoppare quando la scena si facesse troppo esplicita: questo lo vedranno solo gli utenti del blog.
Loro sono distesi sul letto e si tengono per mano. Sono entrambi in biancheria intima. Parlano, parlano, parlano. Ogni tanto Luca fa una carezza sulla guancia di Simona. E lei sorride ed è come sempre splendida quando sorride. Parlano di me. Entrambi con dolcezza e affetto. Simona dice che non possono più tacere, me lo devono dire. Lui risponde che ha paura che io la prenda male, che non capisca, che mi senta tradito. Sono mesi che evita tutte le occasioni per rimanere solo con me, dice.
Passano interi minuti senza parlare solo guardandosi. Pensavo che vederli mi avrebbe fatto infuriare, ma non è così. Incredibile a dirsi: sono belli a vedersi.
Ad un tratto, lui le dice: “Non hai paura dello scandalo? Di quello che diranno le tue colleghe, i tuoi amici, i tuoi parenti?”
“Sì, tanta. So che qualcuno penserà che sia una poco di buono, una molestatrice. Molti parleranno male di me perché son bigotti, altri per convezione, qualcuna per invidia. Certe cose se le fanno le attrici o le dive della tv vanno bene, se le fa la vicina di casa la chiami puttana.”
“Io ho paura solo per Nici. Lo conosco da sempre, siamo cresciuti insieme. Ho tanta paura che non mi capisca. Certo sarà distrutto dalla gelosia, ma io mi sono innamorato. Ed è arrivato il momento il cui devo dirgli: Mi sono innamorato di tua ..”
Premo stop, non voglio sentire. Ha ragione sono distrutto dalla gelosia; forse è normale, forse patologico: probabilmente Freud mi citerebbe da qualche parte come caso esemplare.
Il fermo immagine li blocca che sono entrambi distesi sui fianchi e si guardano. Lui le sta sistemando i capelli dietro l’orecchio, lei sorride beata. Se ci fosse un programma che permettesse di vedere i pensieri delle persone, entrambi starebbero pensando “Ti amo”.
Era un piacere guardarli. Forse se avessi fatto scorrere il video avrebbero anche fatto sesso o forse l’avevano già fatto in un’altra stanza, chissà e chi se ne frega. Ma non penso che abbiano scopato, avranno di certo fatto l’amore.
Mi infilo la mano in tasca e trovo la lettera di Beatrice. E’ ancora lì nella tasca dei pantaloni, gli stessi per strano caso di quando la trovai.

E non venirmi a parlare di peccato, Simona, di quel peccato con cui ci tormentava Don Tito quando andavamo a dottrina. Tu non sei una donna che pecca ma una donna che ama e l’amore è sacro, credi a me che continuo ad andare a messa tutte le domeniche. Come dice don Gallo dove c’è l’amore c’è Dio.
Non ti preoccupare nemmeno di quello che verrà. L’amore non conosce età, abitudini codici e non rispetta le regole. L’amore è sempre una forza rivoluzionaria e travolgente, altrimenti non è.


L’amore non è mai peccato. Peccato sarebbe non apprezzarlo quando lo si incontri, qualsiasi vestito indossi. Beatrice l’aveva compreso prima e meglio di me. E aveva anche ragione a dire che anche Paolo avrebbe capito e approvato. Sarebbe stato geloso anche lui come me ma sarebbe dalla parte di Simona. Lui l’amava e avrebbe voluto che fosse felice, anche con Luca se è questo quello che vuole.
Mi è tutto così  chiaro che non capisco come mai non l’abbia capito da subito.

“I peccatori di Sampierdarena”
Lunedì 14 Maggio
Brutti porcelloni (vi siete già collegati in circa 10 mila),
ma perché non pensate anche voi a farvi una vita invece di rovistare con cattiveria e malizia nella vita degli altri. Ci saranno certo dei peccatori a Sampierdarena, pensate solo a tutti gli evasori fiscali, ma non certo quelli che pensate voi. Andate a farvi le seghe da qualche altra parte. Questo blog chiude.
Volevo vedere quanti guardoni riuscivo a incuriosire e allora mi sono inventato questa storia. Piaciuta? Bene ora andate a praticare il vostro squallido voyeurismo da qualche altra parte.
Un peccatore lo potete vedere domani mattina, allo specchio. E così farò anch’io.


Torno a casa sereno, come non mi capitava da quando li avevo sorpresi dal tetto del garage.
Entro in casa e li trovo seduti sul divano. Sembravano aspettarmi.
“Nici, ti dobbiamo parlare”.
Simona, mia mamma e Luca, il mio migliore amico, mi vogliono dire quel che già so.
Indosso un’espressione interrogativa mentre dentro di me sorrido. Guardo verso l’alto da dove Paolo da quasi tre anni ogni tanto mi fa avere i suoi consigli.
“Lo so, papà, devo fare finta di nulla.”.

5
15 minuti per creare / Per Manuele
« il: Giugno 26, 2012, 09:24:29 »
Mi chiamo Manuele e vengo dal paese dove s’incontrano due mari, si incontrano tante culture e razze diverse, dove s’incontrano tanti turisti innamorati delle nostre chiese e della nostra cucina.

Solo il lavoro non si incontra mai nel Paese mio. Ed è sempre peggio. Mio nonno è andato in Svizzera per trovare un lavoro, mio padre, un mese sì e due no, fa il muratore e quando non trova niente qua, parte e va in alta Italia che lì ancora un po’ di fatica si trova, a saperla cercare.

Io sono dovuto andare fino in Afganistan per lavorare e non sono più tornato. Partito Carabiniere, tornato in un letto di legno. Io non ho voluto fare come il mio amico Mimmo che prima vendeva sigarette e poi s'è messo col gruppo di Padovano della sacra corona. E quando mi vedeva per le vie del paese mi faceva un sorrisino che mi voleva prendere per il culo. Lui gira per il paese in BMW e io l’ultimo giro in paese lo farò sul carro funebre. E se mi vede questa volta Mimmo non ride, ma si fa il segno della croce.

Ho deciso di stare dalla parte dei buoni, dello Stato, di chi la legge la fa difendere. E la legge, mi diceva mio nonno serve principalmente ai cafoni, che i signori non se ne fanno nulla della legge. Io tante cose non le so, che se avevo studiato col cazzo che ci andavo in Afganistan. Mi hanno detto che qui veniamo per portare la pace, per fare in modo che le donne possono fare la vita che fanno da noi. E io ci credevo.

Qualcuno pensa che io facevo la guerra, ma se volevo fare la guerra e sparare veramente per uccidere, io adesso stavo con Mimmo che ha tutte le donne che vuole e se gli dicono di uccidere a sangue freddo lui è capace che lo fa. Io qui facevo l’insegnante come qualcuno di voi. Insegnavo agli afgani a fare i poliziotti così noi ce ne potevamo tornare e loro si imparavano a cavarsela da soli.

E poco importa se è stato un incidente o un attentato, io sono morto lavorando onestamente.
Ma per qualcuno non sono nemmeno un morto sul lavoro.

Io, se rinasco, mi sa che faccio come Mimmo.

6
15 minuti per creare / Maturità
« il: Giugno 22, 2012, 19:25:19 »
Lecce, 1978. Mi ricordo solo che faceva caldo, come oggi. Pensavo che tutto il mondo trattenesse il respiro perchè io facevo la maturità.
Siena, 2012. Irene sarà già arrivata a scuola, la faranno sedere e, se tutto andrà bene e il nuovo meccanismo elettronico funzionerà, fra un po' leggerà le tracce.
Sarebbe stato bello parlarne coi suoi nonni. Papà avrebbe chiamato ieri per gli ultimi consigli e mamma avrebbe telefonato adesso per sapere se era andata via tranquilla.
Fra qualche giorno anche questo sarà solo un ricordo.

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Sentimentale / Capo d'Otranto
« il: Giugno 22, 2012, 18:09:12 »
Di nuovo.
Siamo sulla lancia di legno di suo padre. La prima volta che ci son salito avevo poco più di 10 anni. Angelo mi ha insegnato tutto quello che so sulla pesca.
Di nuovo quel sogno.
E’ il momento del  bolentino. Facevamo sempre così: dopo un’ora abbondante di traina se non era stata fortunata, ci fermavamo al largo della punta di Palacia, dove l’Adriatico diventa Ionio. Innescavamo le canne, mangiavamo puccie con le olive e formaggio e bevevamo vino rosso.
Fortunatamente mi sveglio. Forse questa volta evito di fare tutto il sogno per intero.
Dario, il più classico dei migliori amici: compagni di classe, cresciuti nella stessa strada, tutti e due juventini di ferro. Penso che dai 6 anni ai 16 anni saremmo stati senza vederci solo nel periodo estivo. I suoi, originari di Gallipoli, andavano sullo Ionio, i miei leccesi veraci, si erano costruiti una casetta a Torre dell’Orso sull’Adriatico. Separati solo dal mare, dicevamo ogni tanto scherzando. Dai sedici anni in poi, anche le vacanze trascorrevamo insieme, prima girando l’Europa con l’interrail, poi scoprendo la Grecia dell’Egeo, l’unico mare comune. Quasi sempre con altri amici e a volte con amiche o quasi fidanzate.
Nel mentre, l’università a Bologna, l’avventura più pericolosa.
Non mi devo addormentare pensando a lui, altrimenti il sogno riprenderà.
Pensa al lavoro, mi dico. Pensa al Procuratore capo che ti sta rompendo le scatole sull’incidente nel cantiere di quel suo amico e alle pressioni neanche tanto velate che ti sta facendo.
Ma non funziona, il pensiero va dove vuole lui: a quando ero ancora uditore giudiziario e arrivò al palazzo di giustizia la notizia che il figlio dell’Avvocato Angelo Peruzzi, anche lui promettente avvocato, si era schiantato con la macchina contro un palo della Lecce-Maglie alle 10 del mattino. Pare fosse completamente ubriaco.
Mi riaddormento e torno sulla barca a vedere il faro di Otranto al largo della punta di Palacia. Comincio a sudare.
Spara la bordata all’improvviso.  “Sono sicuro che Simona abbia un altro”. Mi sento gelare. Bevo un sorso di vino. Non so che dire. Lui sposta il viso dal mare verso di me e mi guarda. Il suo sguardo è prima interrogativo poi disperato.
Con Simona era cambiato tutto. Non che non ci vedessimo più, ma non esisteva più il noi che veniva prima di tutto, anche delle ragazze. Ce n’erano state diverse e qualcuna, specie in vacanza, ce l’eravamo anche equamente divisa. Ora Simona era il centro del suo mondo. Lo vedevo troppo felice per essere geloso e Simona era fantastica, proprio come diceva lui.
Per fortuna qualcosa abbocca alla mia canna, deve essere grosso perché tira come un dannato. Non siamo più in barca, stiamo pescando dal balcone della casa dei miei genitori. E il mare è il cortile dove io e Mario abbiamo passato infiniti pomeriggi a giocare. E la cosa ci sembra normale. Lui è tornato a sorridere. Quando riavvolgo la lenza, attaccato all’amo c’è solo un foglio di giornale con la notizia dell’incidente, più pesante di qualsiasi preda. E lui non c’è più.
Di nuovo mi sveglio. zuppo di sudore
Mia moglie dorme tranquilla accanto a me. Mi alzo più piano che posso, ma non è abbastanza.
“Arturo… Tutto bene?”.
“Dormi, amore, vado in bagno”.
Sulla soglia della porta, mi giro a guardarla. Come è bella, quanto la amo.
A Simona non ho mai detto nulla. E la notizia del tasso alcolemico non era mai trapelata, tanto nessun altro si era fatto male. Lei non aveva mai saputo che lui sapeva. Pensa che sia stato solo un incidente.
In bagno mi sciacquo la faccia, mi cambio il pigiama. Piango, perché io sono sicuro che non è stato un incidente.
In cucina mi verso quattro dita di Ron. Fuori è tutto buio sono le 3 del mattino, in strada non circola nessuno. Non voglio tornare a letto, ho troppa paura di rifare il sogno. Ma non vorrei neanche che mia moglie mi trovasse qui a bere, guardando il nulla che c’è fuori.
“Alla prima auto che passa torno a dormire”, ma mentre formulo il patto con me stesso, un SUV blu di qualche fighetto coi soldi passa sotto casa.
“Alla prima macchina rossa”, riaggiusto immediatamente l’accordo. Sono un giudice e cambio le leggi come mi pare.
Alla terza auto rossa e al secondo bicchiere di ron mi dico che è ora di riaffrontare il letto.
Il ron fa il suo dovere e mi addormento.
Mi sveglio un attimo prima che mia figlia, Giulia, di cinque anni, salti sul letto.
“Mamma, Papà. Bisogna alzarsi. Dobbiamo andare allo Zoo-Safari”.
Oh già. Oggi è il giorno fatidico. Giulia si prepara a questa gita da almeno un mese.
“Ma Giulia, a quest'ora le giraffe stanno ancora dormendo” dice mia moglie “rimaniamo un altro po’ a letto tutti e tre insieme”.
“Va bbeeene. Ma che facciamo?"
E' troppo eccitata per starsene calma e tranquilla e regalarci, magari, una mezzoretta di dormiveglia.
"Allora parliamo. Papà raccontami di quanto tu e mamma vi siete conosciuti. Ti sei innamorato subito della mamma?”.
“Dai babbi raccontami, raccontami, raccontami”.
“Si, appena l’ho vista”.
Simona mi guarda e sorride.
Io mi sento un ladro. Un felice ladro maledetto.

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Anch'io Scrivo poesia! / La strada delle nuvole
« il: Giugno 17, 2012, 00:27:03 »
Sdraiato sull’erba sto
a veder passar le nubi
a sentire trascorrere gli anni
per ricordarmi di quando partimmo.
Seduto d’inverno sullo scoglio
dove la prima volta ti toccai
incerto ancora se seguirti.
Lo sapevi che senza di te non sarei mai partito,
ma non pensavi che senza di te sarei tornato.
La tua morte per la mia libertà,
un debito che sto ancora pagando.
Non siamo riusciti a far cambiare strada alle nuvole.

9
Altro / I tre Arturi
« il: Aprile 13, 2012, 19:38:53 »
“Buono lo sciù, Commendatore ?”
Lo sciù? Caspita, non sapevo facessero ancora gli sciù all’Alvino, penso, riponendo incuriosito il giornale sotto il sole di Piazza Sant’Oronzo.
Mi giro per cercare con lo sguardo il commendatore che ha mangiato l’enorme bignè pieno di crema e panna della mia infanzia. Doveva essere quel signore in gessato grigio scuro con un’aria demodé che ho intravisto prima di sedermi. Lo vedo nel tavolino in fondo a destra, ha un qualcosa di familiare anche se il volto è parzialmente coperto da quella che mi è sembrata una copia di un vecchio numero della Gazzetta del Mezzogiorno.
Che fortuna essere qui, che fortuna che abbiano sdoganato il caffè Alvino. Quando ero giovane da questo posto non volevo e non potevo passare. Era un covo di picchiatori fascisti della peggior risma e io in un locale del genere non ci sarei mai entrato e, se ci fossi entrato, probabilmente non me ne avrebbero fatto uscire, almeno con tutte le mie ossa intere.
Ma è un po’ che abbiamo smesso di giocare a rossi e neri e anche i fascisti, come le mezze stagioni, non sono più quelli di una volta. Il locale ha cambiato gestione e mi posso godere tranquillo il mio espressino freddo. E’ già primavera, il sole comincia a scaldare e le donne a mostrare parti di sé. Senza i cappotti a coprire le gambe, senza pesanti maglioni a nascondere il seno, è un piacere vederle attraversare la piazza con le gonne leggere che ondeggiando promettono di più.
Sono in vacanza e non solo dal lavoro. Sono in ferie dall’altro me, quello che ha un’altra vita, in un’altro posto. E torno nella città dove son nato e che amo come solo gli emigranti possono fare. Mi sono preso pochi giorni di ferie e ho appuntamento con il notaio.
Ho trovato un acquirente per il terreno in campagna che i miei acquistarono quando ero piccolo con il sogno di ristrutturare l’antica casa colonica e mettersi a coltivare la terra per diletto quando fossero andati in pensione. La ristrutturazione era venuta uno splendore, l’architetto aveva recuperato quanto più possibile la struttura tradizionale aggiungendoci tutte le comodità e le attrezzature di una casa moderna. Intorno c’erano quasi 20 mila metri quadri di terreno fertile, la metà uliveto e la meta vigna con un piccolo frutteto e uno spazio ampio per l’orto. Mio padre aveva anche iniziato a farci il vino e l’olio. Poi si ammalò e poco dopo morì. Mia mamma aveva continuato ad andarci senza curare molto la campagna. Con mia moglie e le mie figlie l'abbiamo utilizzata come casa delle vacanze visto che era a solo 10 chilometri dal mare. Per tanti anni anch’io avevo coltivato il sogno di tornarci e farne la mia casa. Avevo avuto la possibilità di trasferirmi con il lavoro, ma mia moglie non volle, non ho mai capito bene perché visto che anche lei era originaria di queste parti. Ora sono separato con le figlie grandi, ma oramai il tempo dei sogni è finito, non ho più la forza e la voglia di cambiare vita. Mi offrono tanti soldi e accettare mi pare l'unica cosa saggia da fare.
Dopo una passeggiata per il corso e una immancabile visita in piazza del Duomo, prendo via Palmieri, sbuco a Porta Napoli, passo dall’Arco di Prato e raggiungo la villa comunale facendo il più classico dei peripli della mia giovinezza. Più o meno la stessa strada che facevo quando tornavo da scuola.
Così arrivo dal mio barbiere. Frequento questo locale da quarant’anni o forse più. E prima ci andava mio nonno e mio padre. Oramai ci vado solo poche volte all’anno. Mi fa i capelli sempre, Mario, o come si dice da queste parti, mesciu Mario. Quando mio nonno mi ci ha portò la prima volta, lui era il ragazzo di bottega e per fargli far pratica gli fecero tagliare i capelli al bambino. Da allora sempre lui; prima, quando ancora vivevo qui, è capitato che i capelli me li tagliasse qualcun altro quando lui era occupato. Ora che vivo altrove, e vengo qui quando capita, mesciu Mario è un rito e se non è libero, aspetto o ripasso.
Quando mesciu Mario appenderà le forbici al chiodo, un ulteriore cordone ombelicale con la città dove son nato si spezzerà. E allora avrò già venduto la campagna.
Son quarant’anni che vengo qui, ma non so nulla di mesciu Mario e lui molto poco di me. Solo che non vivo più qui, ma fuori, al Nord e che insegno qualcosa in qualche posto. E lo ha capito sentendo le rare telefonate di lavoro che mi è capitato di ricevere mentre ero sotto le sue forbici.
“Professore, i capiddhi nu li sannu tagghiare addu stai tie”. Mi ha detto una volta che ha trovato i miei capelli mal tagliati, con quella abitudine tutta meridionale di unire il titolo referente, professore, al tu più familiare.
Non gli ho mai detto di essergli rimasto sempre fedele: ogni tanto i capelli me li taglio anche su, al Nord, ma cambio sempre posto. Non perché, come dice lui, non li sappiano tagliare, ma perché non voglio avere un altro Mario, solo parrucchieri occasionali.
“Professore, bene arrivato”, mi dice appena entrato. “Accomodati sulla poltrona, finisco la barba al commendatore e rriu”.
Nella sedia accanto col viso coperto di schiuma un signore anziano aspetta. Intravvedo i pantaloni di gessato grigio. Che strano penso, ancora c’è qualcuno che viene a farsi la barba dal barbiere. Mi sembrano gli stessi pantaloni del tizio al bar.
Il taglio di capelli è sempre un’esperienza un po’ mistica. Senza occhiali non ho un gran rapporto con il mondo esterno e sto con gli occhi chiusi, immerso in un mondo tutto mio, mentre mesciu Mario, armeggia fra i miei capelli con pettine, forbici e mani. Per abbandonarmi realmente devo fidarmi di chi gioca con la mia testa. E questo capita solo con mesciu Mario.
Finito il taglio, Mario prende un specchietto e riflettendo l'immagine su quello grande di fronte alla poltrona mi fa vedere la nuca, caso mai pensassi che dietro non li avesse tagliati o me li avesse colorati di bianco-rosso per dispetto.
Pago e vado via. E' un po’ che mi ripropongo di chiedergli se, per caso, non abbia intenzione di chiudere a breve, ma neanche stavolta lo faccio. Ho troppo paura della risposta.
Sono passate da poco le dieci e nel mio progetto originale dovrei avviarmi verso casa, ma vedo l’ingresso della villa e come seguendo un richiamo ci entro. Erano anni che non venivo in villa. Quando avevo delle figlie in età da giocare alla villa, questa era chiusa per i lavori di ristrutturazione, altre volte l’ho solo attraversata di passaggio per andare altrove. Eppure da bambino ci venivo spessissimo. La scuola elementare Cesare Battisti che tanto malvolentieri frequentavo è proprio di fronte ad una delle entrate della villa comunale. Ora è tutto cambiato e come potrebbe essere diversamente; son passati quarant’anni, Non c’è più la gabbia con la lupa, triste e spelacchiato inquilino della villa, e anche la vasca con le paperelle è tutta diversa da quella della mia infanzia.
Ma trovo la panchina che non vedevo da secoli. Non è materialmente la stessa panchina, ovviamente, ma è nello stesso identico posto, di fronte ad uno spazio rettangolare circondato da un’alta siepe dove i bambini andavano - chissà se lo fanno ancora? - a giocare a pallone usando cartelle e giacche per delimitare le porte. La siepe nasconde l’improvvisato campo di calcio a chi sta seduto in panchina che sente solo il vociare allegro, nervoso o irato dei bambini che lottano per vincere la partita.
Mi siedo e immediatamente, senza inserti pubblicitari, parte il film del ricordo. Facevo la quarta elementare, era, come oggi, primavera e la voglia di scuola piuttosto scarsa. Dei ragazzi più grandi mi invitarono a giocare a pallone, gli serviva un giocatore per arrivare ad otto. Benché non avessi ancora mai nargiato, come si diceva allora da queste parti, marinare la scuola, non ci misero molto per convincermi. La partita era avvincente e, se anche ero più piccolo, mi facevo onore. Per evitare un goal certo della squadra avversaria spazzai davanti alla mia porta con tutta la forza che allora avevo e il pallone volò oltre la siepe. La regola non scritta di tutti i campi di calcio improvvisati vuole che sia il giocatore che ha calciato il pallone ad andare a recuperalo.
Usciì dallo stretto varco nella siepe che è posto proprio di fronte alla panchina e un brivido gelido mi percorse il corpo accaldato. Non ebbi il tempo di girarmi per rientrare dentro che mio nonno alzò gli occhi dal giornale e mi vide. Notai nei suoi occhi prima stupore, poi delusione infine collera. Nulla disse ma mi fece cenno di sedere vicino a lui sulla panchina. Obbedii anch’io in silenzio, avevo già capito che in alcuni casi, meno si dice meglio è. Con calma piegò il giornale, lo posò sulla panchina si girò verso di me e mi tirò uno schiaffo forte sul viso. Io non piansi, abbassai gli occhi, mi guardai attentamente le scarpe e dopo pochi istanti mi girai verso di lui e lo abbracciai forte. Solo allora iniziai a piangere. Lui fu sorpreso ma ricambiò l’abbraccio, mi carezzò il capo e partì con la ramanzina.
Iniziò con l’importanza della studio e della scuola. Più studi e più sarai libero di fare quello che vuoi da grande. Se studi sarai libero di decidere come vivere la tua vita, se sei ignorante saranno sempre gli altri a decidere per te.
Finì con il valore della lealtà: ero stato sleale nei confronti dei miei genitori, avevo tradito la loro fiducia. Mi pensavano al sicuro a scuola e io ero a fare il vagabondo con dei ragazzi di strada. Avevo tentato di prenderli in giro. E con le persone a cui si vuol bene non si fa, non si fa proprio. Era il rispetto per la parola data quello che fa di una persona, una persona per bene. Sarebbe rimasto un segreto fra noi se io avessi promesso di non farlo più.
Promisi e mantenni la promessa. Non lo feci più e rimase per sempre un segreto.
Un vociare di bimbi e un pallone di cuoio rovinato che rotola verso la mia panchina mi distoglie dai ricordi. Mi alzo, prendo il pallone ed entro nel campetto di calcio attraversando l’aiuola. Consegno  il pallone ai ragazzi. Se ne avessi il coraggio, farei come Claudio Bisio in molti films: mi toglierei la giacca posandola sulla siepe e inizierei a giocare con i ragazzi che allegri mi accoglierebbero. Ma non sono Bisio e non siamo in un film.
Esco dalla siepe e rimango di sasso: c’è mio nonno seduto sulla panchina. Indossa un vestito gessato grigio e un sorriso cordiale.
“Finalmente”, mi dice “è tutto il giorno che ti vengo dietro”. E, come allora, mi fa segno di sedere accanto a lui. Mi piacerebbe vedere la faccia che faccio, ma non ci sono specchi nella villa.
Un pensiero tremendo mi assale.
“Nonno, sono morto, per caso?”
“Morto? E perche mai?”
“Allora sto sognando o sono impazzito?”
“Questo non lo so. Comunque prima fammi parlare che non abbiamo molto tempo. Poi mi potrai fare tutte le domande che vuoi. Ti ricordi di quella volta che ti sorpresi che avevi nargiato a scuola?”
“E come potrei dimenticarlo?”
“Ti ricordi la promessa che mi facesti?”
“L’ho rispettata, nonno. Sia da ragazzo che da adulto, ti giuro che mi sono sempre sforzato di essere leale, con tutti”
Il nonno era sempre stato e, a questo punto lo è tuttora, una delle poche persone con cui sentivo sempre la necessità di discolparmi. Come se non riuscissi mai a raggiungere lo standard che mi chiedeva.
“Lo so. Ho seguito la tua vita e so che sei una persona per bene. Ma so anche che adesso sei inquieto e infelice. Vorrei aiutarti”
E il nonno come sempre riesce a sorprendermi. Non l’avevo ammesso nemmeno con me stesso: sono profondamente infelice. Pensavo fosse colpa solo degli anni che passano, inesorabili.
Il pallone vola di nuovo oltre la siepe e un bambino paffutello con dei riccioli biondi e dei calzoni corti del tutto fuori moda, corre a prendere il pallone.
Mio nonno lo chiama.
“Vieni, Arturo. Ti voglio presentare un mio amico”
Il bambino si avvicina, sorride e quel sorriso lo tradisce perché me lo fa riconoscere.
“Vedi, anche lui si chiama Arturo. Qui siamo tre Arturi”
Arturo mi porge educatamente la mano e dice:
“Allora potremmo fare la tavola rotonda”.
Ride e lo accompagniamo nel riso solo per cortesia. Non sono mai stato granché come battutista.
Gli do un buffetto sul viso e lo vedo tornare a giocare.
Si volta e saluta.
“Ciao nonno e ciao altro Arturo”.
“Ecco”, chiosa mio nonno “ora è arrivato il momento di essere leale con lui”.
“Aspetta Arturo, hai la scarpa slacciata” fa mio nonno, e prima che io possa dire qualcosa, si alza e gli va dietro. Entra nella siepe.
Sono turbato e chi non lo sarebbe al posto mio. Ora che torna, mio nonno mi deve spiegare tante cose.
Ma il tempo passa e lui non torna. Allora entro anch’io nella siepe.
Ma il campo di calcio non c’è come non ci sono più mio nonno e Arturo. Ci sono dei giochini per bimbi piccoli di legno, altalene, scivoli, un fossato con della sabbia. E genitori a giocare felici coi figli. Si sono tutti girati verso di me, non capiscono perché sia passato dalla siepe, quando dalla parte opposta lo spazio dei giochini dei più piccoli è aperto e accessibile facilmente. Sospettano losche ragioni.
Il mio cellulare suona e mi libera dall’imbarazzo.
“Professore, sono la segretaria del Notaio Mancuso. Il notaio ha sistemato le ultime cose e dice che il rogito si potrebbe fare già questa sera, se lei crede”.
Imbambolato non rispondo.
"Professore, pronto, mi sente?".
“Si signora la sento. Volevo dirle, ecco, cioè... Insomma ho cambiato idea, mi scusi con il notaio, ma ho deciso di soprassedere alla vendita almeno per il momento. Avvertirò io gli acquirenti. Se c’è da pagare qualcosa me lo faccia pure sapere”
E mi avvio verso casa pensando a cosa potrei piantare immediatamente nell’orto.

10
Quanti giorni saranno passati da quando sei andata via? E quante ore e quanti minuti ho già vissuto senza te?
Non sono mai stato bravo in matematica e non li so contare. Ma se li avessi qui tutti quei minuti li mescolerei ai secondi e li imbottiglierei, come faceva la nonna con la salsa di pomodoro. Li cuocerei a bagnomaria e poi li avvolgerei in una manta per tenerli al caldo. E mi durerebbero fino alla fine dei giorni.
E quando avessi voglia di te mi basterebbe prendere una bottiglia. Appena aperta, sentirei il tuo profumo, con un cucchiaio riassaggerei il tuo sapore. I giochi di colore se stendessi la salsa sulla pasta bianca mi ricorderebbero il chiaro oscuro che faceva il tuo corpo nudo nei pomeriggi d’estate quando t’addormentavi dopo l’amore. Quanto tempo passavo seduto a guardarti  e il mio sguardo gareggiava con la luce fioca che traspariva dalle persiane socchiuse giocando a chi ti accarezzava più lievemente perché non ti svegliassi.

Quanti giorni saranno passati da quando sei andata via? E quante ore e quanti minuti ho già vissuto senza te?
Se li avessi qui, impasterei ore, minuti e secondi e ci farei dei mattoni. E costruirei la casa in campagna che non abbiamo avuto mai, con il camino che non ci ha scaldato mai. Con quella scala in legno che una volta disegnasti su di un foglio di carta e che io senza dirti niente misi da parte, sperando che un giorno l’avremmo costruita veramente. Una casa di mattoni forte e robusta, così quando il lupo arriverà potrà soffiare quanto vuole ma la casa rimarrà in piedi. E noi dentro potremo fare i porcellini per tanto tempo ancora.

Quanti giorni saranno passati da quando sei andata via? E quante ore e quanti minuti ho già vissuto senza te?
Se li avessi qui, li ridurrei in polvere, li mescolerei col mio dolore, aggiungerei tutta la mia rabbia e ci farei della polvere da sparo. E costruire dei proiettili e caricherei tutte le armi che ho. E maledirei il destino che non mi ha dato armi e proiettili per sparare al lupo e ucciderlo la prima volta che ho visto che da lontano ti guardava con malizia. E se avessi avuto più mira e se avessi avuto più coraggio. Se solo ci avessi creduto di più.

Quanti giorni saranno passati da quando sei andata via? E quante ore e quanti minuti ho già vissuto senza te?
Se li avessi qui, li mescolerei con l’acqua del nostro mare e li farei diventare olio, da mettere negli ingranaggi del tempo per farlo andare più veloce. Perché se il tempo corre, io corro da te.
Anni son passati (3 anni, 344 giorni, 8 ore, 23 minuti, 5 secondi) da quando il tempo ha cominciato a rallentare. Lo stesso tempo che mi pareva correre veloce quando stavamo insieme. Ora il tempo non sa come passare, forse anche lui fugge da me, pietoso.

Quanti giorni saranno passati da quando sei andata via? E quante ore e quanti minuti ho già vissuto senza te?
E quanto durerà la mia condanna ancora?

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Sentimentale / Piazza Grande: dedicato a Lucio
« il: Marzo 02, 2012, 21:11:53 »
Rosso. Di nuovo rosso e il semaforo di piazza grande è famoso per durare un’eternità. Io sto qui e li vedo.
Una  coppia sulla settantina attraversa l’incrocio con in mano le borse a rete della spesa. Si tengono sottobraccio. Lei gli parla e lui sorride. Stanno parlando della cena che fra un po’ lei inizierà a preparare. Oggi è Sabato e il nipote passa la notte da loro così la figlia e il genero giocano un po’ a fare i fidanzati. Al nonno tocca invece giocare interminabili partite a rubamazzo e mangiare carne macinata e pasta al burro. Fino a quando lui non si addormenterà sul divano guardando il cartone animato, l’ultimo successo Pixar uscito in DVD, che adesso spunta colorato dalla  borsa della nonna. Allora il nonno lo prenderà in braccio e lo metterà a letto nella stanza della figlia dove ci sono ancora Francesco De Gregori e il Che appesi al muro che lo guarderanno dormire. Spegnerà la luce, accosterà la porta, tornerà nel salotto. La troverà che si sta finendo di vedere il cartone animato regalando alla TV quello splendido sorriso che dopo tanti anni ancora gli riscalda il cuore. Gli piacerà indugiare li a guardarla senza esser visto fino a che lei volgerà lo sguardo su di lui invitandolo con la mano a sedersi vicino a lei. La raggiungerà sotto il plaid di morbida lana merinos che le ha regalato per natale.  E come sempre si sentirà immensamente fortunato.
Davanti al Cinema Italia, un ragazzina di poco più di tredici anni aspetta, chiaramente nervosa. Fra meno di dieci minuti, inizierà il film: Harry Potter e i doni della morte, parte seconda. Lui dovrebbe essere già qui. L’ha invitato a vedere il film insieme. Lei è cresciuta con Harry, Ron ed Ermione.  I primi quattro libri, suo padre li ha letti per lei sedendosi per terra sul tappeto davanti al suo letto, la sera, prima di addormentarsi. Gli altri li ha letti da sola perché era cresciuta e perché suo padre non dormiva più con loro. Non vede il padre da più di un mese. Da quando si sono trasferiti nella villa del nuovo fidanzato della mamma. Gli hanno detto che è stato fuori per lavoro, ma lei teme che abbia ricominciato a bere. Il cellulare vibra: è arrivato un sms. Lo legge, sorride divertita, ma poi sul viso le si disegna uno sguardo deluso e preoccupato, non era la notizia confortante che aspettava. Forse lui non ha capito quanto l’ultimo film della saga fosse importante per lei, quanto fosse importante vederlo insieme: i maschi non sempre capiscono certe sottigliezze.  Ma lui era sempre stato diverso. Sta per andar via, da sola non guarderà certamente il film. Si gira  lo vede, il suo viso s’illumina e, come la ragazzina che è, gli corre incontro. Lui si è fermato ad aspettarla e ha allargato le braccia per accoglierla. Il mio papà pensa lei abbracciandolo forte e ricaccia le lacrime indietro. Non è il momento di piangere, hanno una missione da svolgere, con l’aiuto di Harry Potter devono sconfiggere il signore oscuro, una volta per sempre.
Un uomo su di un piccolo, vecchio ciclomotore ha il cestino pieno di rose. E’ cingalese, preoccupato, infreddolito e stanco. Sicuramente ha già fatto un altro lavoro durante il giorno e ora vuole guadagnare qualche soldo in più vendendo le rose alle coppie al ristorante o a quelle che passeggiano per la piazza. Pensa alle cinque figlie che stanno al suo Paese e alla moglie che le sta crescendo. La grande è proprio brava e l’anno prossimo andrà all’Università. I suoi compaesani non capiscono perchè voglia farla studiare, perchè mandarla da sola in una grande città a studiare all’università insieme a tutti quei maschi. Ma lui non lavora in un paese straniero che non lo ama e dove subisce umiliazioni e insulti solo per costruirsi una casa bella o per avere un pezzo di terra da coltivare. Lui lo fa solo per comprare un futuro migliore alle sue figlie. Con cinque rose compra un libro di testo, se vende mille rose paga la rata delle tasse universitarie. Così potranno vivere nel loro Paese e non essere costrette a emigrare come aveva fatto lui. Sarebbe tornato, prima o poi, e sarebbero stati tutti insieme. Solo questo pensiero gli dà la forza di tenere gli occhi aperti e di ripartire una volta scattato il verde.
Oramai è tardi, la notte si avvicina. Io mi preparo i miei cartoni vicino all’entrata dei fornitori del grande magazzino. Dove trovo quasi sempre una scatola con della roba da mangiare: Simona che gestisce il bar del negozio me la prepara tutti i giorni. Io mangio e le auguro tutto il bene possibile. So che un giorno mi addormenterò fra i cartoni e quando il sole sorgerà di nuovo io continuerò a dormire e dormirò anche quando tramonterà di nuovo. Allora anch’io troverò pace e sarò tornato a casa. 

12
Il fondo del bicchiere era nuovamente asciutto, ma avevo ancora sete. La bocca era amara ma sempre meno dell’umore.
Che cazzo ci facessi in questo locale di lap dance dei poveri in un paesino sperduto della provincia pugliese, Dio solo lo sa.
Ricordo che cercavo un posto con fica e alcool. Ma orami avevo bevuto tanto che le donne non le vedevo più. Troppo per tornare a casa in auto.
Mi sentivo osservato.
Qualche anno fa avrei chiamato papà e lui mi avrebbe riportato a casa: la mamma mi avrebbe fatto qualcosa di caldo con cui avrei vomitato l’anima e dopo mi sarei addormentato come un bambino. Lei mi avrebbe rimboccato le coperte e spento la luce.
Ma a quarantadue anni non abbiamo più la faccia di chiamare la mamma o quando, come nel mio caso, ce l’avremmo anche avuta, non abbiamo più la mamma. E mio padre è nei caraibi con la sua barca a vela e una fidanzata trentenne.
Avrei dormito in macchina: era una calda notte di settembre e si poteva fare.
Quell’uomo era un po’ che mi guardava. Il suo viso non mi era nuovo. Forse un omosessuale in cerca di compagnia, la sua strategia era consolare i delusi dalle donne. Con me aveva colto nel segno; stradeluso e schifato, ecco cos’ero. Ed ero li a vedere femmine in vendita per sentirmi quello che comprava le donne.   
Gli uomini non mi erano mai piaciuti e quella sera non ero certo in vena di esperimenti.
“E’ la prima volta che vieni qui, vero?”
Non l’avevo sentito avvicinarsi. Ero proprio andato. Non vi nego che un po’ mi spaventai quando me lo trovai accanto.
“Tu non sei come gli altri che vengono qui a vedere un po’ di pelo e a comprare un po’ di sesso. Tu ti vuoi estrarre un dente che ti duole e pensi di farlo con il whiskey”
“La verità è grappa, il whiskey non mi piace” dissi.
“Hai qualcuno che ti venga a prendere, non puoi certo guidare conciato così”.
“Chiama un amico, un parente, qualcuno”.
“Non voglio che mi vedano così e non ho parenti. Pensavo di dormire in macchina”
“Io ho finito di lavorare e abito qui vicino. Puoi dormire sul divano”.
Lo guardai con diffidenza.
“Non sono gay. Ma mi piace offrire una mano tesa e un divano a chi ne ha bisogno”.
Eppure mi sembrava di conoscerlo.
Senza sapere come, mi ritrovai seduto su di un vecchio divano verde con i braccioli consumati con una bevanda rossa in mano che odorava di salsa.
“Succo di pomodoro, fa bene se sei strafatto di alcool.”.
“Almeno a me fa bene”, disse. “E io sono ubriaco spesso, quando non lavoro.”
Iniziò a arrotolarsi una sigaretta. Per farlo si era messo di profilo per non far cadere il tabacco o quel che era. Fu allora che lo riconobbi.
“E quando non bevo, fumo. Ne vuoi ? E’ roba buona. Non quella geneticamente modificata che ti sballa subito, questa è roba biologica. Viene direttamente dal centro America. Ti culla e ti abbraccia come una donna che ti ama.”
L’accese e me la passò. Tirai una bella boccata e sentì il fumo caldo entrarmi dentro. Tossì e un conato di vomito mi sconquassò e dovetti correre in bagno. Vomitai.
Tornai sul divano disfatto.
“Tu sei il mimo dorato di piazza Garibaldi” gli dissi dopo che mi fui un po’ ripreso, “quello tutto dipinto di giallo con una cinepresa e ogni tanto fa finta di fare delle riprese. Sta sempre fermo anche quando gli mettono le monete nel recipiente di latta.”
Annuì e mi passò quel che era rimasto della prima canna, mentre si preparava la seconda. Feci solo un altro tiro e gliela restituì mentre le palpebre si facevano pesanti.
Proprio allora cominciò a parlare. Io un po’ lo sentivo e un po’ no. Trovavo a stento la forza di interloquire, sebbene non sembrava far tanto caso a ciò che dicevo io. Era un fiume in piena.
E dire che temevo facesse domande su di me e sul dente che volevo togliermi, come aveva detto lui. Non mi sarebbe dispiaciuto raccontare ad un estraneo di come una stronza che ancora amavo alla follia mi avesse condotto alla rovina. I miei amici si erano stufati di sentire la storia e io di sentire sempre lo stesso consiglio: “Mandala al diavolo”.
Ma lui mi aveva preceduto e parlava, parlava, parlava. Ogni tanto mi passava la sigaretta arrotolata, ma io il più delle volte rifiutavo: ero già partito per il mondo dove non esistevano né pavimenti né soffitti e le cose bastava desiderarle per averle.
Mi svegliai che era giorno fatto. Il mimo d’oro non c’era più, la poltrona dove l’avevo visto arrotolarsi quella che mi era parsa un’infinità di canne era inondata di sole che proveniva dalla finestra alle mie spalle. La luce mi pugnalava la testa rendendo insopportabile l’emicrania, ma era anche calda e rassicurante.
Il mondo continua anche dopo una sbornia, sembrava dire. 
Mi alzai e feci una lunga e doverosa visita al bagno.
Puoi sapere tanto di una persona vedendo cosa legge mentre è seduto sul gabinetto.
Il mimo d’oro leggeva Topolino e la settimana enigmistica. Un mix accettabile. Era un uomo ordinato e previdente tanto che la penna con cui risolveva cruciverba e altri giochi era legata al ripiano con una cordicella. Temeva forse che se gli fosse venuto in mente l’affluente di destra del Po, sette lettere, e non l’avesse scritto subito, la volta prossima l’avrebbe trovato prosciugato.
Il mio ospite non era neanche in cucina. Ma vicino alla caffettiera c’era un suo biglietto. “Buon giorno, sono al lavoro, alla sagra del vino. La macchinetta del caffè è già pronta. Alla prossima”.
Avrà fatto anche il mimo per campare, ma era un gran signore, con tutto quello che aveva passato.
Già, aveva avuto una vita drammatica, una storia familiare complicata, ma non mi ricordavo niente, annegato com’ero nella grappa e nelle canne.
Come quando ci si sveglia sicuri di aver avuto un incubo tremendo ma i particolari del sogno si sono persi nei meandri della mente e sono svaniti con la luce del giorno. Ti rimane solo un retrogusto di dolore nell’anima che sparisce con la prima cosa bella che ti capita al mattino: il sorriso della tua donna o la canzone che ti piace che passa alla radio.
Anche la sua storia si era dissolta al mattino. Ma sapevo che aveva sofferto.
La giornata era proprio calda: una splendida domenica mattina.
La mia Altea XL era ancora lì. L’avevo comprata cinque anni prima, quando pensavo che l’avremmo potuta imbottire di figli e bagagli. Negli ultimi mesi l’avevo riempita solo di lacrime e ammaccature. Le ammaccature rimediate spesso per la rabbia e la fretta quando la seguivo per vedere dove andava. Non vi sorprenda, per lei ho fatto anche di peggio. Le lacrime quando scoprivo dove andava e con chi stava. Ma non l’avevo mai portata né all’autolavaggio né dal carrozziere.
Carrozziere…..si accese una scintilla. Il mimo d’oro prima di fare il mimo era un carrozziere e viveva in un paesino del Veneto.
Come capita anche nei sogni una parte del racconto mi tornò alla mente.
“Stavo per chiudere la carrozzeria, quando mio fratello mi telefonò chiedendomi di aspettarlo in officina; sarebbe arrivato quando fosse stato certo di trovarmi solo. Non mi sorpresi più di tanto, lui era fatto così: faceva sempre cose strane e a volte si cacciava in qualche guaio. Ma era mio fratello maggiore: erano rimasti solo noi due. I nostri genitori  erano morti abbastanza giovani e benché fossi più piccolo, gli avevo fatto da padre e madre.
Capì che questa volta la storia era ben più seria quando vidi la macchina ammaccata sulla parte anteriore destra e le macchie di sangue, malamente cancellate, sulla carrozzeria.
Mi raccontò che non l’aveva visto, probabilmente stava facendo jogging sul ciglio della strada, lui stava armeggiando per cercare un cd e quando aveva alzato gli occhi era troppo tardi. Aveva visto il suo viso schiacciarsi sul parabrezza.
Ed era scappato in preda al panico, spaventato anche perché aveva bevuto un paio di spritz e qualche bicchiere di vino a pranzo con gli amici. Non era ubriaco, mi giurò, ma sarebbe sicuramente risultato positivo al test alcolemico. 
Lo pregai e ripregai di tornare su suoi passi, avrebbe dovuto ammettere di non essersi fermato, ma sarebbe stato compreso. Magari l’uomo non si era fatto poi così male. Mi disse che non era così semplice. Dopo l’incidente era andato a casa, aveva chiuso la macchina in garage, aveva preso la moto ed era tornato sul luogo dell’incidente. C’era già la polizia, ma nessuna ambulanza, solo un lenzuolo bianco steso su di un corpo ai bordi della strada.
Come potevo non aiutarlo? Come facevo ad andare a trovare mia mamma al cimitero se non l’avessi fatto? In fondo oramai quell’uomo era morto e niente lo poteva riportare in vita”.

Suonò il mio cellulare. Lo presi dalla tasca. “Stronza Chiamata” recitava il display.
Non rispondere, non rispondere, per carità, disse l’io saggio.
Risposi. L’io saggio non vinceva mai quando c’era di mezzo lei.
“Devo andare qualche giorno al mare. Potresti occuparti tu di Oreste mentre son via?”
Fra le tante cose che avevo supinamente accettato c’era stata anche quella di chiamare Oreste il gatto che non volevo nemmeno prendere. Io avrei adottato volentieri un cane.
“In ricordo della Grecia” , aveva detto. La vacanza in Grecia l’aveva fatta senza di me con due sue amiche pochi mesi prima che ci sposassimo. Un raro rigurgito di spirito di autodifesa mi aveva impedito di domandare ulteriori spiegazioni.
Era già assurdo che lei me chiedesse di tenerle il gatto, fu ancora più assurdo che io le dicessi di si.
“Una cosa che non avrei mai fatto per qualunque cifra mi avessero offerto, la feci per amore” così aveva detto il mimo d’oro.
Io, se avessi un euro per tutte le fesserie che ho fatto per amore, sarei ricco, pensai.
“Passai la buona parte della notte di sabato e la giornata di domenica ad aggiustare la macchina.. Quando la prese, nessuno avrebbe detto che era stata coinvolta in un incidente. Imposi una sola condizione; gli avrei liquidato la sua quota della carrozzeria che ci aveva lasciato nostro padre e lui avrebbe dovuto far avere, in qualche modo, i soldi ai parenti dell’uomo. Era un modo per tacitare la mia coscienza più della sua.
Non volli mai sapere nulla della vittima: il nome, l’età, se aveva famiglia, niente. Fortunatamente mi avevano detto che non era del Veneto e che si trovava da quelle parti solo perché era venuto in visita a degli amici. Ma mai lo dimenticai, come non dimenticherò mai il pomeriggio successivo quando arrivarono i carabinieri a chiedermi se fosse venuto qualcuno a portarmi un’auto con danni compatibili con l’incidente. Sapevo bene che non erano altro che indagini di routine, tre anni prima erano venuti per pormi la stessa domanda. Ma tre anni prima non avevo mentito. Quando se ne andarono, corsi in bagno a vomitare. Dopo la pausa pranzo non tornai in officina. Rimasi in casa e mi ubriacai per la prima volta.
Dopo, i rapporti con mio fratello mutarono, lui capì che in me qualcosa era cambiato. Prima aveva lavorato in un bar a Vicenza  poi si era trasferito in Liguria. Io ero rimasto a Schio nella carrozzeria che era stata di nostro padre. L’alcool mi aveva causato dei problemi, ma avevo frequentato gli alcolisti anonimi ed ero riuscito a tener il problema sotto controllo se non a sconfiggerlo del tutto. Arrivammo a non vederci quasi mai e a sentirci solo per le feste comandate, poi neanche per quelle.
Quasi sei anni dopo, mi arriva una strana telefonata. Una donna mi dice che lei e mio fratello si stanno per sposare. Sa che io e lui non ci frequentiamo e non siamo in buoni rapporti. Non sa perché e mio fratello non ha voluto dirle di più. Ma lei vorrebbe che il matrimonio fosse un occasione per ricominciare ad avere un rapporto. Per questo mi ha chiamato, senza che lui lo sapesse. Sarebbe stata una cerimonia intima e lei desiderava che io ci fossi. Mi sembrò una donna dolce e matura: mio fratello era stato fortunato. Pensai che forse potevamo metterci il passato alle spalle.”

Non potete immaginare quanto mi stesse antipatico Oreste, un persiano altezzoso e prepotente. A chi assomigliava, secondo voi? Non c’era dubbio che si prendesse gioco di me.
E avevo appena promesso di dargli da mangiare e pulirgli la cacca. Quanto ci avrebbe goduto. Mi avrebbe guardato di sguincio, come usava fare lui, e i suoi occhi avrebbe detto “Povero scemo, ti ha sempre fatto fare quello che voleva” .
Ed era vero; come quella volta che mi convinse a fare l’amore in tre. Io, lei e un amico, anche se, in verità, io più che altro guardai. La cosa che mi fece più male non fu osservare la loro performance, quanto scoprire poco dopo che era un bel po’ che si allenavano per conto loro. 
A volte l’amore ci rende stupidi, ciechi o forse se siamo stupidi e ciechi non dovremmo innamorarci mai.
Anche il mimo d’oro era stato cieco. Anche lui era stato tradito.
La moglie di mio fratello era ancora migliore di quanto avessi pensato. Poco meno di quarant’anni, una figlia di dieci. Un viso allegro e aperto sul quale ogni tanto calava uno ombra di tristezza, un’aria di robusta sicurezza del tutto prima di alterigia e prepotenza. Una donna come quelle di una volta, si sarebbe detto. Donne che reggevamo le sorti della casa e della famiglia, prendevano le decisioni importanti, donne che comandavano senza regnare. Proprio quella che ci voleva per mio fratello.
Mio fratello non fu sorpreso di vedermi. Pochi giorni prima della cerimonia, lei lo aveva informato. Un’altra prova della sua saggezza: niente teatrini alla De Filippi. Ma lo vidi preoccupato e teso per tutto il tempo. Dopo la cerimonia in comune, andammo in non più di una trentina al ristorante. Mio fratello volle che mi sedessi vicino a lui. Il più bel pranzo di nozze a cui abbia mai assistito. Leggero e commovente insieme.
Gli sposi dopo il pranzo partivano per una piccola crociera ai Caraibi. Io me ne tornavo a Schio. Ci salutammo e finalmente lo vidi sollevato. Dopo poco più di mezzora di viaggio mi accorsi che avevo dimenticato il soprabito che ignaro del clima piacevole della costiera ligure avevo portato con me. Mi dispiacque e tornai indietro. Quando arrivai al ristorante non c’era più nessuno. Presi il soprabito e stavo andando via quando vidi seduta al tavolo a fumarsi una sigaretta quella che mi era stata presentata come la migliore amica della sposa, che era seduta accanto a me durante il pranzo.
Aveva avuto un guasto alla sua auto e mi offrii di darle un passaggio. Accettò ben volentieri. Durante il tragitto fra le altre cose iniziò a farmi un ritratto molto carino di mio fratello e di come fosse stato importante nella vita della sua amica. Le aveva permesso di uscire da un periodo tremendo seguito alla morte del marito.
Arrivati sotto casa sua, mi invitò a salire per un ultimo bicchiere. Le sembrò sicuramente strano che rifiutassi, in fondo le avevo fatto una corte discreta per tutto il pranzo. Probabilmente dovette credere alla scusa che non mi sentivo bene, perché sudavo ed ero completamente fuori di me, distrutto e di nuovo perso. Avevo bisogno di bere, di attaccarmi alla bottiglia ma da solo.
Le avevo fatto delle domande precise per essere sicuro di non essermi sbagliato. Speravo in una strana e improbabile serie di coincidenze, ma le sue risposte era quelle che temevo ma non volevo. 
Non arrivai a Schio. Mi fermai in uno squallido albergo a Genova e ricomincia a bere.

Avevo deciso di ucciderlo. Avrei ucciso Oreste. Girai diversi ferramenta chiedendo del veleno per topi. A tutti chiedevo se poteva essere pericoloso per un  gatto. Buttai quelli comprati da commessi che mi dissero, probabilmente mentendo, che i gatti non l’avrebbero mai assaggiato e mi tenni il prodotto sul quale il negoziante mi aveva invitato a star molto attento ad eventuali animali domestici.  Misi due o tre pillole di veleno in mezzo ai croccantini perché ne assumessero l’odore e potessero trarre in inganno quel antipatico di Oreste e aspettai di tornare la seconda volta. Lei l’avrebbe trovato morto al suo ritorno.
Non mi sentivo orgoglioso del mio progetto omicida, ma ero eccitato dal fatto che finalmente anch’io avrei modificato il corso della sua vita. Se avesse capito che ero stato io sarebbe stata la mia vendetta, altrimenti l’avrei anche potuta consolare.
La sera prima decisi di andare a ringraziare il mimo d’oro. Comprai una bottiglia di Ferrari che avremmo potuto scolarci insieme e un libro illustrato sulle più belle coste salentine per invogliarlo a venire a farsi un bagno con me. L’ultimo bagno prima dell’arrivo del generale autunno.
Bussai a casa ma nessuno mi aprì. Andai allora nel vicino locale notturno dove c’eravamo incontrati. Quando non lo vidi nemmeno lì, andai al bancone a chiedere di lui. Mi resi conto che in realtà non sapevo il suo nome e allora chiesi del mimo d’oro alla barista che serviva in topless. Distratto dai suoi seni piccoli e perfettamente rotondi non sentì la domanda con cui aveva risposto alla mia e fu costretta a ripetermela.
“Eri un suo amico?”.
“lo conoscevo, non bene ma lo conoscevo”.
“E’ morto ieri: stavolta ha esagerato con l’alcool, le pastiglie e il fumo”.
“Come è possibile?” dissi stupidamente,” L’ho visto solo Sabato scorso” .
Tornai alla macchina e iniziai a piangere. Era destino che quel volante si dovesse sempre bagnare delle mie lacrime.
Non l'avevo ringraziato, il Mimo d’oro.
Ma si può ? Si può sposare la vedova dell’uomo che si è messo sotto con l’auto? Si può tenere per mano una bimba sapendo che le hai ucciso il babbo? Neanche la mamma lo avrebbe perdonato. Non potevo nemmeno dirglielo io, ma non potevo vederli più. Allora sono sparito e ho cominciato a vivere in strada. La verità che avrei dovuto gridare, l’ho nascosta, ma mi sono nascosto con lei”
E alla fine quella realtà così pesante l’ha ucciso.
E forse non era stato un incidente, come non era un caso che mi avesse raccontato tutta la storia il poco prima di morire.
I croccantini erano sul sedile posteriore con le pillole di veleno che non avevo utilizzato. Buttai tutto in un cassonetto.
Scrissi un sms alla stronza: “Me ne vado, non posso pensare ad Oreste”.
E partì direzione mare.
Arrivai a Tricase, luogo che amavo. Ci ho passato tutti i mesi estivi quando ero ragazzo. Un posto carico di ricordi, di speranze tradite e di promesse mancate. Era il posto giusto per fare quello che volevo fare.
Il telefono continuava a suonare e il display a recitare, “Stronza chiamata”.
Parcheggiai, scesi e mi avviai verso uno scoglio a strapiombo sul mare che i locali chiamavano "lu pustu de li pacci" per il numero di persone che lo aveva usato per lasciare prematuramente questo mondo.
Il telefono che tenevo stretto nella mia mano ancora vibrava.
Il mare era una tavola, scuro, silenzioso. Accogliente. Sarebbe bastato un passo.
Sollevai il piede sinistro, piegai la spalla destra lievemente all’indietro e feci su un lancio degno del miglior lanciatore della Major league di baseball.
Il telefono partì e quando sentii il tonfo, godetti come un pazzo. Sicuramente stava ancora suonando quando affondò nell’acqua.

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Sentimentale / La favola della vigilia di natale
« il: Gennaio 05, 2012, 11:44:05 »
C’era una volta una strega cattiva, ma cattiva, cattiva, cattiva. C’era anche una bimba brava, ma brava, brava, brava. S’incontrarono in una storia strana, ma così strana che una vigilia di Natale si raccontò da sola.
Era la prima volta che la storia faceva da sé senza nessuno che la narrasse. Il racconto risultò confuso, alcune cose rimasero non dette e l’intera vicenda non fu mai del tutto chiara. E quando le campane di mezzanotte posero fine alla vigilia, la storia smise di raccontarsi e si dissolse col fumo dell’ultima candela rimasta accesa.
Prima di andar via, la storia disse che la strega era a sua volta vittima di un incantesimo. Costretta ad essere cattiva e a nutrirsi d’odio dalla cieca malvagità di uno stregone a cui aveva liberato il merlo. E lui per dispetto aveva resa una strega cattiva lei che era una donna che amava gli animali e non poteva sopportare di vederli in gabbia. Nessuno conosceva il vero nome della strega: lo stregone mise in giro la voce che si chiamasse Grimilde, mentre per altri era solo la “vecchia della mela”.
Anche quest’incantesimo, tuttavia, poteva essere rotto, come tutti gli incantesimi che si rispettino. Bastava solo che la persona giusta facesse la cosa giusta al memento giusto.
La storia che si racconta da sé disse che la bimba era così brava che si era creato un  mondo fantastico in cui non era per niente brava e da cui aveva eliminato tutti gli angoli e le zone d’ombra. In questo mondo irreale non c’era posto per i cattivi e tanto meno per le streghe malvagie che offrivano mele avvelenate. Ma la bimba era brava, ma così brava che aveva capito, lei e solo lei, il nome della strega. L’aveva trovato nascosto in una frase che solo all’apparenza era un rituale magico, ma che molto più probabilmente era un’inconsapevole richiesta di aiuto.
“Specchio, specchio delle mie brame…..”.
La bimba e la strega non si erano mai più incontrate dopo la prima terribile volta: la bimba l’aveva cacciata fuori dalla sua vita, non entrava mai nel suo quartiere e stava per abbandonare la città e la nazione dove viveva la strega per non correre il rischio di imbattersi in lei.
La storia non chiarì come successe che un giorno straordinario di un anno eccezionale la strega e la bimba brava si incontrarono. Ma la storia ci raccontò che furono attimi di grande tensione: la bimba brava aveva paura, la strega godeva nel vederla spaventata.
La strega avanzò brandendo il suo sguardo come una spada affilata, la bimba brava indietreggiò con le gambe che tremavano.
Ma questa volta, nessuno sa perché, la bimba non scappò, ma sollevò la mano e indicando la strega disse:
“Vattene, piccuame”.
Fu come se si fossero aperte le porte del cielo. L’incantesimo era stato rotto: il vero nome della strega era stato pronunciato. La storia qui torna ad raccontarsi in modo confuso e lacunoso e non sappiamo cosa accadde poi.
Dovremmo forse aspettare la vigilia del prossimo Natale per ritrovare la storia che si racconta da sé e farcelo spiegare. Sappiamo però che la strega cattiva ora non è più cattiva e nemmeno strega. Una piccola statuetta di plastica; è tutto quel che rimane in ricordo del brutto periodo nel quale lei era costretta ad essere strega e la bimba brava ad aver paura
Non sapendo come la storia avrebbe finito di raccontarsi ma sapendo che la bimba è brava, ma anche amata, amata, amata, il finale non può essere diverso dal classico “E vissero tutti felice e contenti”.
O almeno questo è l’unico vero regalo che vorremmo per questo Natale e per tutti quelli che verranno

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Sentimentale / Saverio e Giulio o delle convergenze parallele
« il: Ottobre 26, 2011, 20:12:16 »
Saverio.
La lettera tanto attesa era arrivata.
Il mittente era scritto in rosso in alto a destra. Centro di studi Genetici. Via Dalmazio Birago 20, 73100 Lecce.
Saverio respirò profondamente e si appoggio sullo schienale della poltrona in pelle, nell’ufficio della Grandi Lavori Spa a Milano. Erano state tre settimane d’inferno, ma ora tutto si sarebbe chiuso. Avrebbe saputo la verità.
Per l’ennesima volta rivisse quella scena.
Stazione Porta Genova. Fermata della linea 2 del tram.
Una signora anziana sulla settantina vestita in modo elegante con una aria dolce ma decisa gli mise una mano sul braccio.
“Lei deve essere il figlio di Giulio Casavola. Io ho conosciuto suo padre”.
Lo aveva fissato da quando era salito sul tram.  Ed era scesa con lui.
“Guardi, si sbaglia. Io mi chiamo Saverio De Simone e il signor Casavola non so chi sia”.
“E’ di Lecce, non è vero? Lei è tale a quale a lui, una goccia d’acqua.”.
“E’ vero io sono nato a Lecce, ma mio padre si chiamava Luigi”.
“Lei gli rassomiglia veramente tanto. Giulio è stato un amico di mio marito e per un certo tempo anche un mio caro amico. Se viene a casa mia le faccio vedere delle foto di quando aveva quarant’anni. Sembrano foto sue, a parte l’abbigliamento.”
Dalla busta della spesa, prese lo scontrino, dalla borsa una penna; scrisse sul retro un numero di telefono e glielo porse.
“Mi chiami, così viene a casa mia e sarà d’accordo con me”.
Arrivò il suo bus e fece per salire, ma prima lo salutò.
“L’aspetto, allora.”.
Lesse la perplessità e lo smarrimento sul suo viso.
“Tu sei il figlio di Giulio, un uomo eccezionale”. E, passata al tu, scomparve dietro le portiere dell’autobus.
Confuso, turbato, con il foglietto che gli bruciava in mano s’incamminò verso casa. Al primo cestino lo buttò via.
A casa fra i ragazzi, la cena e la partita di Champions non ci aveva pensato più. Ma una volta a letto, tutto gli ritornò in mente. Non ne aveva parlato con sua moglie. I rapporti fra lei e sua mamma erano sempre stati pessimi e non voleva dare la stura a commenti al vetriolo.
Avrebbe voluto invece far l’amore con lei, rimanere dolcemente abbracciati dopo, farsi ricoprire di baci e tenerezze prima. Ma lei, come capitava spesso negli ultimi tempi, non rispose con particolare entusiasmo alle sue avances. Lui aveva bisogno di passione, dolcezza e amore, non di una scopata veloce fatta giusto per timbrare il cartellino settimanale. Allora desistette e lei ne sembrò sollevata.
Nei giorni successivi uscì più presto dall’ufficio e passò un sacco di tempo andando su e giù sul 2 sperando di rivederla. Ma rimase solo una speranza.
Allora decise di andare a Lecce. Era la prima volta da quando i suoi non c’erano più. Il suo papà, o almeno quello che fino a pochi giorni prima aveva considerato tale, era morto 3 anni prima. Sua madre s’era andata poco prima dell’estate.
Giulio.
Appena sveglio scorse la busta con l’indirizzo del suo editore italiano ancora aperta sul comodino, la prese per l’ennesima volta in mano. Era da tanto che non scriveva nella sua lingua madre. L’editore italiano dei suoi romanzi gli aveva chiesto un racconto sull’Italia e lui aveva scritto una storia d’amore. Aveva raccontato dell’unica donna che aveva veramente amato, lui che si era sposato tre volte e aveva cinque figli. Per la prima volta nella sua carriera di scrittore non aveva inventato una storia, ma aveva raccontato la sua storia. Aveva scritto del miracolo di ritrovare dopo quarant’anni la donna per la quale era fuggito in Argentina per poi perderla di nuovo, questa volta per sempre.  
Aveva firmato il racconto con il suo nome vero mentre il tutto il mondo era conosciuto come Pedro Delvida, autore di best sellers venduti in milioni di copie in Sud America e tradotti in 15 lingue, italiano compreso.
La busta non era ancora chiusa, ne approfittò per leggersi per un altra volta ancora il racconto, come sempre battuto con la sua Olivetti lettera 32 in duplice copia. Ne lesse solo alcuni brani, saltando da un pezzo all'altro senza una logica precisa.
Saverio
A Lecce avrebbe trovato le risposte che cercava. Avrebbe messo sotto sopra casa per vedere se trovava qualche indizio. Avrebbe cercato questo Casavola a costo di rovistare tutto il Salento.
A sua moglie inventò la scusa che doveva risolvere delle questioni aperte per la pratica di successione.
“Sarebbe il caso di venderla quella casa”, gli disse lei.
“Col cazzo che la vendo, è la casa dove sono nato”, pensò lui, ma non disse nulla.
Arrivato nella sua casa natale, l'aveva rivoltata tutta senza trovare granché di nuovo, solo un plico di lettere che suo padre aveva conservato in un cassetto. Erano di sua madre e si riferivano al periodo in cui suo padre era a Genova e lavorava come ingegnere nei cantieri navali. Sua madre aveva avuto un incarico d’insegnamento a Lecce e resisteva con tutte le sue forze all’idea di trasferirsi a Genova. Si percepiva un po’ di tensione, ma niente di più. Lui sapeva come era finita: la mamma aveva vinto e suo padre alla fine si era trasferito a Lecce a fare l’insegnante anche lui.
“Cosa pensavi di trovare, stupido?”, si era chiesto “Il diario segreto di tua mamma, chiuso con un nastrino rosa ben nascosto fra la sua biancheria?”.
Finalmente si assopì, ma ebbe bisogno di farlo sul divano con la televisione accesa e dopo essersi fatto promessa solenne che il giorno dopo avrebbe telefonato a tutti i Casavola dell’elenco del telefono.
Si svegliò presto con qualche doloretto qui e lì: i cuscini del divano avevano perso quasi tutte le piume, come lui d’altra parte, pensò con sarcasmo.
Fece colazione, cappuccino e pasticciotto, in piazza Sant’Oronzo, in una splendida giornata di sole.
Amava l’ottobre leccese; ti poteva regalare delle giornate splendide, calde, accoglienti e con una luce intensa, più dolce e rotonda di quella estiva. Era come se il tempo ti strizzasse l’occhio facendoti sentire per le ultime volte quel caldo rassicurante che ti avrebbe nascosto poi fino alla primavera. Amava Lecce, nonostante tutto.
Tornò a casa e aspetto che fosse un orario da cristiani prima di iniziare il suo giro di telefonate. Su paginebianche.it trovò 10 Casavola. Parlò con tutti: ma nessuno era Giulio e nessuno sembrava conoscerlo.
Giulio
Torno a Lecce dopo più di quaranta anni. Tutto è diverso. C’è una città moderna che non conosco cresciuta caoticamente dopo che me n’ero andato. Ma anche il centro storico è tutta un’altra cosa. Le putee, le classiche osterie leccesi, e le botteghe artigiane sono sparite sostituite da locali animati da giovani e meno giovani condannati al divertimento perenne e da negozi per turisti. Le facciate delle chiese e dei palazzi sono pulite e restaurate, ma sembrano aver perso l’anima. Nelle case un po’ cadenti del centro una volta abitavano i leccesi più veri, puttane comprese, ora nei palazzi ristrutturati ci sono i professionisti della Lecce bene.
Eppure..., eppure quel barocco leggero ed elegante ancora mi accarezza il cuore. Eppure, se chiudo gli occhi ancora sento l’odore della città dei miei vent’anni.
Riaprendo gli occhi la vedo. Sta camminando verso di me, mi guarda. Capisco che si sta chiedendo se sono proprio io. Io non mi sono chiesto se fosse lei, io l‘ho subito riconosciuta.

Saverio
Poi gli venne in mente la Laura, Laura Bacile, una vecchia amica della mamma, forse la più cara. Si erano conosciute quando, entrambe giovani giovani, avevano iniziato ad insegnare.
Gli sembrò sveglia e arzilla tanto da riconoscerlo immediatamente, quando la chiamò al telefono; era contenta  che lui andasse a salutarla.
“Che belli quegli anni, Saverio. Iniziavamo a lavorare, a guadagnare, ad essere indipendenti. Ora sembra normale, ma allora per una donna a Lecce non era una cosa da poco”.
“Io non avevo ancora conosciuto quello che sarebbe diventato mio marito e tua mamma era sposata ma Luigi era a Genova. C’era qualcuno che mi corteggiava e io accettavo qualche appuntamento ogni tanto e spesso mi portavo dietro Anna.”
“Giulio me lo ricordo bene, era un uomo affascinante, misterioso ed elegante e quindi molto pericoloso. Allora usava essere ragazze serie - che sciocchezze! - e noi due lo eravamo”
“Ci vedemmo solo due volte tutti e tre insieme. Poi Giulio non si fece più vivo, almeno con me”
“Una volta che ero uscita da casa mia madre, vidi Anna e Giulio in un caffè dalle parti del Duomo”.
“Non ti nego che fui colta da un attacco di gelosia. Anna è sempre stata più bella e attraente di me, aveva un fascino naturale e quella che oggi chiameremmo una sensualità istintiva. In più era intelligente e con una forte personalità. Questo metteva molti uomini in soggezione, ma non certo quelli come Casavola”.
“Il giorno dopo gliene ne parlai. Mi disse che l’aveva incontrato per caso sul corso e lui l’aveva invita a prendersi un the. Nulla di più. Le credetti, come sempre.”
“Si ricorda quando tutto questo successe? Che anno era?”, le chiese.
“Fammi pensare. Era l’anno prima che io conoscessi Luciano, quindi doveva essere la primavera del 66”.
Lui era nato nel febbraio del 1967.
Il suo turbamento dovette trasparire chiaramente sul suo viso, tanto che Laura gli carezzò dolcemente il braccio sinistro.
“Cosa vai a pensare, Saverio? Tu sei figlio di tuo padre che Dio l’abbia in gloria. Se tua mamma avesse avuto anche solo dei dubbi, sicuramente me ne avrebbe parlato. E io, al contrario di quella mezza pazza, non vedo nemmeno tutta questa somiglianza. O forse a pensarci bene erano Giulio e Luigi a somigliarsi un po’, almeno fisicamente, perché per il resto e per tua fortuna, erano molto diversi.”
“Ma cosa è successo poi a Casavola?”
“Non ti saprei dire, in verità. So che ad un certo punto emigrò in Sud America, mi pare. Qualcuno disse che era scappato per i troppi debiti. Io non seppi più nulla di lui”.
Giulio
Mi aveva dato appuntamento in un bar del corso. Fino ad allora era stata attentissima a non farsi mai vedere in giro con me. Capii ben presto perché aveva scelto un locale pubblico.
“Giulio, finisce tutto qui. Luigi ha avuto la nomina all’Istituto Tecnico Industriale. Ha deciso di accettare di tornare a Lecce. Io sono sposata e Luigi è un brav’uomo e io gli voglio bene. E’ stato bello, molto bello, ma non ce la faccio più. Questa storia mi sta distruggendo, devo scegliere e ho scelto di rimanere con Luigi. E’ stato bello, forse troppo bello, ma non sarebbe dovuto mai succedere.”
“Anna io ti amo, andiamocene via. Ho cugino a Buenos Aires, lì potremo ricominciare da capo. Nessuno conoscerà il nostro passato”.
“Giulio non sempre siamo padroni del nostro destino. Forse se ti avessi conosciuto prima.... Ma ora il mio posto è qui. Non pensare che mi spaventi il giudizio della gente, se lo volessi veramente affronterei tranquillamente lo scandalo e rimarrei qui a testa alta. Ma non è quello che voglio”

Saverio
Laura abitava in una bella villetta nel quartiere Castromediano nella periferia di Lecce. Per tornare a casa ci avrebbe messo almeno una mezz'oretta a piedi. Un po’ di moto l’avrebbe forse aiutato a placare l’ansia che gli attanagliava lo stomaco.
Tante cose tornavano. Giulio Casavola e sua mamma si conoscevano e i tempi erano assolutamente compatibili con la sua nascita. Lui si chiamava Saverio, Giulio Arturo De Simone. La virgola aveva provvidenzialmente evitato che il secondo nome, Giulio, comparisse negli atti ufficiali. Ma, virgola o non virgola, il nome Giulio era lì, fra quello dei suoi nonni. Potevano essere solo delle coincidenze?
“Saverio, Saverio..”
Si volse e vide il faccione simpatico e cordiale di Elio che lo salutava dall’ingresso della sua farmacia. Avevano fatto tutte le scuole insieme: materna, elementare, media e liceo classico. Dopo si erano allontanati, avevano fatto l’università finalmente in posti differenti, e poi lui era andato a vivere a Milano, mentre Elio era tornato a Lecce per lavorare presso la farmacia del padre.
La sua farmacia era uno dei posti che non mancava di visitare tutte le volte che scendeva a Lecce. Un caffè e quattro chiacchiere con Elio erano un piacere di cui, se poteva, non faceva a meno.
“La sai un cosa buffa? Son contento.”, disse Elio.
“No, non ti sto pigliando per il culo. Avevi un’aria terribile, sembravi distrutto. Quando ho sentito che mi dovevi dire una cosa importante, ero sicuro che avessi un grave problema di salute, tu o qualcuno dei tuoi. Questa, invece, è la migliore brutta notizia che mi potessi dare”.
“Ma lo sai o no che io e tutti noi bambini di allora, ti invidiavamo il papà e dico quello vero non quello supposto biologico. Ti ricordi quando ci caricava in 6 nella macchina e ci portava al boschetto di san Cataldo, quando ci faceva giocare a ruba-bandiera o giocava con noi a palla-prigioniera? Nessuno di noi aveva un padre così”
“Hai avuto, per quel che so io, un ottimo padre. Cambierebbe qualcosa se scoprissi che non ti ha trasmesso i suoi geni?”.
“Leggevo l’altro giorno che circa un figlio su dieci non è figlio del suo padre anagrafico. Sicché tutti noi abbiamo il 10% di possibilità di non essere figli di chi crediamo anche senza vecchie pazze che ci fermino per la strada. E allora, dico io…chi se ne frega”.
“E poi pensa a tua mamma. Anche lei era una donna splendida e fino all’altro giorno tu eri il primo a pensare che fosse stata una buona moglie. Tuo padre le voleva un bene dell'anima. Anche se e sottolineo mille volte il se, perché io proprio non ci credo, avesse avuto un momento di sbandamento, cosa cambia per noi, per te? Tu non hai sbagliato mai?”.
“Parole sagge, Elio, che credi che non me le sia dette? E non una sola volta. Ma io devo sapere la verità. Quello che mi sta distruggendo è proprio l’incertezza. Sapessi di essere figlio di questo Casavola molto probabilmente non cambierebbe nulla, forse smetterei anche di cercarlo e continuerei a pensare a Luigi come a mio padre. Ma sapere di non sapere mi far star male.”
“Se è questo il problema, potresti fare un esame del DNA. Ho un amico che ha un laboratorio collegato con l’università. Non fanno test per i privati, ma per me farebbero un’eccezione. Ma come fai? Mica hai nulla di tuo padre, che per altro era, come te, figlio unico“.
“Senti, ora devo tornare in farmacia. Vieni a cena da noi, stasera? Mariella ne sarebbe contenta”
“Ci sto; porto il dolce”.
S’incamminò verso la casa sua pensando che non gli rimaneva altro che scendere a patti con la sensazione di inquietante incertezza. Il guaio è che non era la sola. Il lavoro l’aveva annoiato e stancato e l’ambiente diventava sempre più competitivo con tanti colleghi più giovani che non aspettavano altro che lui facesse un errore. Sua moglie, altra incognita. Era ormai evidente che si stavano allontanando. Parlavano poco e scopavano ancora meno e quasi sempre più per dovere che per piacere. I suoi figli, poi. E se fossero anche loro De Simone solo di nome? Se lui non era il figlio che credeva d’essere, forse non era nemmeno il padre che pensava. E poi ha già superato i quaranta: il futuro gli sembrava un hard discount, scaffali tristi pieni di prodotti mediocri in scatoloni di cartone, mentre il passato si divertiva con lui al gioco delle tre carte. Carta vince, carta perde, papà Luigi, papà Saverio…
Giulio
Ci può essere una amore travolgente quando hai passato i sessanta? Questioni da rotocalco femminile, avrei pensato fino all’altro ieri.
A me, a noi è capitato. Ma era un ritorno di fiamma dei vent’anni e forse non conta. Quel che posso dire è che ho desiderato questa splendida sessantacinquenne con una forza e un impeto molto maggiore di quanto abbia mai desiderato le tante fans molto più giovani che mi si offrono spesso e volentieri. Ma è un ritorno di fiamma dei vent’anni e forse non fa testo.

Saverio
Il rasoio, si ricordò all’improvviso del rasoio. Quando Luigi morì, lui e sua mamma decisero di regalare tutti i suoi vestiti alla Caritas. Ma lui insistette perché le sue cose nel bagnetto che tutti chiamavano il bagno di papà,  rimanessero così come erano. Tanto non lo usava quasi mai nessuno. In realtà aveva cominciato ad andarci lui, ogni tanto, quando era a Lecce, gli piaceva mettersi il dopo barba di Luigi. Il profumo di quel dopo barba, sempre lo stesso per tutta la vita, era il ricordo olfattivo di suo papà.
Giulio
Che lungo amore breve vi vengo a raccontare.
Una settimana che avevo aspettato quarant’anni. Poche notti e pochi giorni. Ma tanti progetti. Sarebbe venuta in Argentina, saremmo ritornati a Lecce, saremmo andati a Milano, avremmo fatto una crociera e girato il mondo. Magari ci saremmo sposati, chissà. Mi ha chiesto il tempo di parlarne al figlio, voleva farlo con calma anche perché le sembrava stesse attraversando un periodo difficile. Poi avremmo iniziato una vita insieme.
Così alla fine della settimana io partii per Londra per presentare la versione inglese del mio ultimo libro e lei si sarebbe sentita con il figlio e gli avrebbe parlato. Mi disse anche che finché non incontrava il figlio era meglio se noi non ci fossimo sentiti. Mi telefonò invece l’amico che mi ospitava a Lecce. Aveva saputo la notizia. La mia splendida rosa di maggio era sfiorita il primo giugno.
Che dolore tremendo non vi vengo a raccontare.

Saverio
Arrivò correndo a casa, aprì la vetrina del mobile a specchio e il rasoio Phillips era lì. Glielo aveva regalato lui un Natale passato, quando il vecchio Remington di Luigi mostrava abbondanti segni di decadimento. Aprì delicatamente la testina e lo trovò pieno di residui di rasatura.
“Peli da barba, ho dei peli da barba sono sufficienti per l’esame?“, disse subito a Elio quando rispose al telefono.
“Penso di si, comunque, per sicurezza chiamo il laboratorio e ti dico.”.
Erano sufficienti, gli disse. E finalmente passò una bella serata tranquilla con Elio, Mariella e i loro splendidi figli. Non c’è niente di meglio dello spettacolo di una famiglia in armonia, anche se non è la tua, per sollevare il tono dell’umore. Ecco perché nella pubblicità il testimonial più efficace è sempre una sunshine family.
Giulio
Ripose i fogli del racconto e iniziò a piangere. Gli era venuto in mente l’unico, piccolo, breve momento in cui vide uno sguardo di disappunto comparirle sul viso nella settimana d’oro che avevano passato a Lecce. Quando lei si accorse che si stava facendo la barba nel bagno piccolo.
“Perché stai usando quel rasoio ? Era di Luigi. Saverio lo conserva come una reliquia.”
Non aveva il suo, anche perché non aveva programmato di rimanere a casa di lei per la notte e stava usando un rasoio trovato girando nel bagno piccolo, mentre lei faceva la doccia in quello grande.
Non era stato un vero e proprio bisticcio, ma il viso imbronciato e dispiaciuto di lei che ancora oggi ricorda perfettamente, lo commosse immediatamente. Posò il rasoio e corse ad abbracciarla. L’abbracciò teneramente chiedendole scusa, anche se non capiva bene di cosa, la baciò e mettendole le mani dentro l’accappatoio, questa volta non ebbe bisogno di un aiuto chimico per rendere concreto il suo desiderio di amarla.
Prese i fogli, si alzò, apri la cassaforte dove teneva le cose di valore e li mise lì. Sarebbero stato un tesoro solo suo. Più tardi avrebbe scritto un raccontino di maniera sull'Italia e l’avrebbe firmato con il nome d’arte. Questo era il suo più bel ricordo e, se l’avesse reso pubblico, l’avrebbe perso. Non intendeva dividerlo con nessuno.
Saverio
Pigiò il tasto e la macchina partì. In pochi secondi, la busta era scomparsa nella fenditura ridotta in mille striscioline piccolissime.
Aveva distrutto il risultato del test, senza leggerlo.
Chi se ne fotte, pensò.
E finalmente tornò a sorridere.

15
Sentimentale / 1982: pizza, mondiali e maturità parte II
« il: Settembre 16, 2011, 11:23:15 »
Piero l’aveva trovato solo un giorno e mezzo dopo, quando stavano per dare l’allarme anche in Italia. Tutta l’isola aveva saputo la storia dell’italiano che era scappato e magari si era tolto la vita.
A lui di uccidersi non era mai passato dalla testa. Aveva, questo sì, avuto voglia di uccidere, ma anche questa gli era ben presto passata. Voleva starsene per conto suo, da solo cullarsi il suo dolore, curarsi con la medicina del risentimento e dell’autocommiserazione.
All’inizio si era steso sul fondo di una piccola barchetta nel porto. Sotto una tendina che lo proteggeva dal sole e dagli sguardi dei curiosi, si lasciava dondolare dal mare che compativa le sue pene e scioglieva piano il suo odio. Lì era stato fino all’alba del giorno dopo, quando il pescatore proprietario della barchina lo svegliò. Era un uomo strano con corpo da vecchio e un viso da giovane, lunghi capelli neri che gli arrivano alle spalle e due occhi dolci e vivacissimi. Il viso era disteso e privo di rughe, il corpo magro, rinsecchito, leggermente piegato in avanti e segnato da tante cicatrici. La voce era profonda, forse troppo per quel corpo esile, il suo italiano fatto di pochi termini ma corretti.
E fu anche strano che non gli chiese niente, non volle sapere nulla ma gli disse “Se vuoi stare solo, conosco posto buono per te”.
Lui fece un cenno d’assenso, il pescatore liberò la cima, si mise a remi e partirono. Quando furono fuori del porto, si fermò, apri una sacca, ne cacciò fuori un pezzo di pane e uno di formaggio e li divise con lui. Poi prese una bottiglia di vino denso e scuro che colorava il vetro. Lui tentò di rifiutare il vino, dicendo d’essere astemio.
“Astemio, cosa essere astemio? Bevi, non vino questo, questo medicina per te”.
Bevve un sorso, poi bevve ancora e poi ancora di nuovo. E fu davvero salutare.
Non si ricorda quando il pescatore si rimise ai remi né quando arrivarono e scese dalla barca. L’ultimo ricordo è il vino denso che gli riempiva la bocca e anestetizzava il dolore.
Piero lo aveva trovato in una grotta naturale di una piccola caletta sconosciuta i più.
Nel vederlo, gli si era fatto incontro abbracciandolo stretto.
“Portami via” gli disse  “Non voglio vedere nessuno né quella puttana né quel bastardo”.
*******
Pizza, mondiali e maturità. In realtà, il loro motto, tutto maschile, era “fica, mondiali e maturità”. E specificavano, “nell’ordine”. Anche se qualcuno, pochi esaltati, era disposto ad mettere i mondiali prima della fica.
Ma avevano usato una versione più soft e unisex.
15 membri del gruppo: mancavano in pochi. La Marinella, la più intelligente e libera della classe, era sicuro che si sarebbe tenuta fuori dalla nuova schiavitù dei social network, e infatti non c’era. Poi ne saranno mancati degli altri, perché in classe erano una ventina, ma non gli venivano in mente.
Anna non ci poteva essere, visto che era un anno più piccola. Ma c’era Massimo. Quanto l’aveva odiato: quanto l’odiava ancora, trent’anni dopo.
L’odiava non tanto perché s’era scopato la sua ragazza: in fondo visto che lei c’era ampiamente stata, forse, forse gli aveva anche fatto un piacere. Ma l’aveva condannato al cinismo, tradendolo. Aveva ucciso quel ragazzo aperto, cordiale, fiducioso in tutti e l’aveva trasformato in una persona aggressiva e diffidente: gli aveva strappato l’illusione che il mondo fosse innocente. D’allora non scendeva in strada se non indossava la sua armatura.
E alla fine si trovò sul suo account, quasi senza volerlo. Non gli aveva chiesto l’amicizia, e non gliela comunque avrebbe data se lui avesse avuto il coraggio di chiederla. Ma Massimo aveva settato il suo profilo in modo che tutti i membri del gruppo PMM lo potessero vedere.
Seguendo un infantile desiderio, sperava di scoprirlo solo, fallito e infelice. Ma ovviamente non fu così. Era un professore universitario di Storia alla Sapienza. Sposato con Giulia, una donna non bellissima, ma dal viso intelligente e con un corpo ancora discreto almeno se erano veritiere le foto sul suo profilo. Tre figli, due femmine e un maschio, un mucchio di amici e una collaborazione con blog di politica contemporanea di cui aveva sentito parlare.
La vita sembrava essere stata più che generosa con lui.
Sorrise all’idea che Massimo campava con la storia e lui aveva vissuto una storia che non lo faceva campare.
*****
Piero era sulla barca di Christos che si era offerto di aiutarli a cercarlo.
“Voglio tornare a casa, senza vederli, aiutami”.
Senza fare troppe domande, Piero lo caricò sulla barca e invece di raggiungere il porto turistico vicino alla casa presa in affitto, andarono al porticciolo dei pescatori e Christos lo piazzò in casa sua per farlo riposare e per dargli da mangiare e da bere.
Voleva ringraziare il pescatore che lo aveva portato alla grotta e lo aveva curato con il vino. Lo descrisse a Christos perché lo portasse da lui. Christos si fece ripetere la descrizione e ogni volta faceva delle domande sempre più particolari sui modi di fare e sull’aspetto del pescatore che lo aveva aiutato.
Tanto che lui rimase stupito quando il pescatore disse, non senza mostrare imbarazzo:
“Non conosco nessuno così, non so chi sia.”
Piero organizzò tutto: prese i suoi bagagli dalla casa che avevano preso in affitto, cambiò la data al suo biglietto, lo accompagnò al traghetto. Gli aveva chiesto ripetutamente se volesse essere accompagnato, ma lui rifiutò. Voleva viaggiare da solo, così, forse, poteva dimenticare ciò che era avvenuto.
Nel salutarlo, Piero gli chiese:
“Ma cosa hai raccontato a Christos per turbarlo tanto?”
“Niente di particolare. E lui che mi è parso strano, io volevo solo mi conducesse dall’uomo che mi aveva aiutato”.
 “Christos dice che questo tizio è morto dieci anni fa”.
******
 “Mi scusi signora, ma ha mica visto un libro che ho dimenticato su questa panchina”.
La voce era leggermente affannata, come di uno reduce da una corsa.
Giulia alzò gli occhi e subito arrossì.
Era stata sorpresa a leggere la dedica.
“Non so se mi spaventa di più l’idea di perderti,
o quella di perdermi in te. Per sempre”
“Oh, mi scusi. Era qui sulla panchina. L’ho preso istintivamente”.
“Non si preoccupi. L’importante è che l’ho ritrovato.”
Senza chiedere permesso si sedette alla panchina.
“Mi scusi se approfitto, ma ho fatto una corsa, appena mi sono accorto di averlo lasciato qui.”  
“Per me questo libro è importante e non voglio perderlo”.
Giulia gli porse il libro. Era “Di cosa parliamo quando parliamo di amore” e disse.
“Anche a me piace molto Carver, anche se questo non l’ho ancora letto”
“E’ il mio scrittore preferito: i suoi racconti sono asciutti, taglienti. Sono carta vetrata che leviga la vita quotidiana. Racconta in modo mirabile vicende banali di persone mediocri, rendendole storie straordinarie.”
Poi ridacchiò e continuò: “Ho usato troppi aggettivi, Carver non scriverebbe mai un dialogo così”
Sorrise anche lei.
“E poi sono legato proprio al libro, al volume”.
“La capisco. La persona che glielo ha regalato deve volerle molto bene”.
Lui la guardò con fare interrogativo.
“Le chiedo scusa ma ho letto la dedica, volevo vedere se c’era un nome, così magari da restituire il libro”
“Io. Io le volevo molto bene. Che dico... l’amavo da morire. L’ho scritta io la dedica. Quando mi ha lasciato, cinque mesi fa poco prima che ci sposassimo, non ho voluto niente indietro. Le ho chiesto solo di ridarmi il libro con la dedica”
“Pensi che non si ricordava nemmeno dove l’avesse messo”.
“Si dice che un diamante è per sempre; sbagliato. Una parola, una parola scritta è per sempre”.
La guardò negli occhi. Il suo viso era più bello visto da vicino, le foto non le rendevano giustizia. Lei rispose al suo sguardo senza abbassare gli occhi.
Quasi vergognandosi di essersi aperto troppo, saluto frettolosamente e andò via, senza presentarsi.
Voleva che lei pensasse a lui con curiosità e mistero.
Fece passare un paio di giorni e tornò.
Tornò con un sorriso e un pacchettino in  mano. Sapeva di trovarla alla solita panchina.
Lo sguardo che lei gli regalò quando lo vide gli confermò che il piano che aveva studiato con cura funzionava a meraviglia: il pesce stava abboccando.
“Mi sono permesso di comprarti una copia del libro dell'altra volta e speravo proprio di ritrovarti qui.”
Le disse passando direttamente al tu.
Non era speranza, era certezza, l’aveva osservata bene nei giorni precedenti. Così come consultando il suo account su facebook aveva scoperto anche i suoi gusti letterari.
Iniziarono a parlare, di letteratura, di vita e di loro stessi.  
Era un bell’uomo, consapevole del fascino che esercitava sulle donne. E poi ci sapeva fare.
Benché fosse profondamente diffidente nei confronti delle donne, o forse proprio per questo, le conosceva bene. Sapeva parlar loro e ancora di più le sapeva ascoltare.
Amava le donne così quanto odiava l’amore.
Fu più facile di quanto avesse pensato.
******
La portava sempre allo stesso albergo, dove portava tutte le sue conquiste, almeno quelle che non avevano una casa dove far l’amore. Nessuna era mai venuta a casa sua, con nessuna aveva mai passato la notte.
Aveva filmato di nascosto buona parte dei suoi incontri con lei.
La faceva parlare del matrimonio e della vita sessuale con suo marito. La spingeva a fare paragoni dai quali lui usciva vincente e Massimo umiliato. Le faceva dire che pensava a lui e al suo cazzo mentre apparecchiava la tavola o aiutava i figli a fare i compiti o mentre faceva malvolentieri l’amore con il marito.
Il suo piano era quello di mettere i filmati in rete nei siti di video hard amatoriale. Di lì si sarebbero facilmente diffusi e prima o poi qualcuno avrebbe riconosciuto la professoressa di matematica del liceo Pasteur o meglio ancora la moglie di un noto professore della Sapienza. E avrebbe avuto la sua vendetta. E avrebbe trovato pace. Almeno così pensava.
********
“Sai ieri a scuola è successo un piccolo dramma. Due ragazzi si sono presi a botte”.
Dopo l’amore siamo tutti diversi. C’è chi si addormenta, chi si fuma la classica sigaretta. Una donna con cui aveva passato un mese denso di incontri, aveva l’abitudine di mangiare appena fatto l’amore. Si portava sempre dei biscotti da mangiare dopo a letto.
“L’antica e vecchia questione del triangolo: lui aveva sorpreso la sua ragazza con il migliore amico”.
Abbiamo comportamenti diversi dopo l'amore. Giulia parlava, parlava, parlava. Gli raccontava episodi della sua giovinezza così come episodi di vita familiare o dei suoi studenti.
“Praticamente non abbiamo fatto lezione: fortuna che nelle ultime due ore avevo compito in classe nella terza. Altrimenti avrei dovuto gestire io anche il dopo scazzottata: sono il docente referente della classe.”  
Lui rispondeva spesso a monosillabi inserendo una sorta di pilota automatico della conversazione che gli permetteva di rimanere nel suo mondo e di pensare alle sue cose. Adesso poi era del tutto indifferente. Aveva deciso di finirla lì. La sera prima aveva caricato in rete la maggior parte dei video, nei quali aveva oscurato il suo viso mentre quello di lei era ben in evidenza. Tanto lui fra 10 giorni sarebbe partito. Ma avrebbe seguito tutto sul pc. Lo scandalo sarebbe stato grande.
Ma all’improvviso il suo radar d’emergenza captò qualcosa che lo interessò: le parole Massimo e Grecia. Si sintonizzò immediatamente sul racconto di Giulia.
“Ma la storia di Massimo era molto più complessa e romantica. Non riuscì mai a dirglielo al suo amico. Lui non lo volle mai incontrare. Poi gli scrisse una lettera, ma non ha risposto.”
“Comunque al mio alunno è saltato un dente e vuole chiedere i danni”.
“Scusa cosa hai detto?”, chiese interessato mentre il cuore gli era saltato in gola.
Si era messo a sedere sul letto e il suo viso era teso.
“Ti stavo dicendo che i dentisti ci guadagnano anche dai conflitti amorosi adolescenziali.”
“Che cazzo me ne fotte dei dentisti, raccontami di tuo marito e della Grecia”.
“Che te ne importa? E’ una storia di trent’anni fa.”
“Ma non se l’era scopata Massimo, la ragazza del suo amico? “
“No”.
“Allora era Piero!”
Lei spalancò gli occhi del tutto sorpresa.
Le aveva preso le spalle fra le mani e la stava strattonando.
“Allora è stato Piero? Dimmelo cazzo.”
La lasciò subito quando vide che la sua espressione era passata dalla sorpresa al timore.
“Piero si, Piero quel gran figlio di buona mamma. Io non lo sopporto. Lo sai che ci provò anche con me poco tempo dopo che mi ci eravamo messi insieme. Massimo comunque ha praticamente smesso di frequentarlo: non gli ha mai perdonato di non aver confessato la verità al loro amico.”
Poi lo guardò dritto negli occhi e aggiunse, “Ma tu come sapevi che si chiamava Piero?”
Lui si stava già rivestendo.
Si ricordava delle lettera che gli era arrivata quasi un mese dopo. L’aveva tenuta sul tavolo indeciso se leggerla per più di dieci giorni. Poi l’aveva buttata nel camino senza aprirla.
Si girò verso Giulia, le accarezzò il viso.
“Perdonami, perdonatemi”, le disse.
Lei si meravigliò delle parole ma ancora di più del viso distrutto dal dolore. Le lacrime che gli stavano riempiendo gli occhi, li rendevano ancora più verdi e vivi. Quegli occhi le avevano fatto fare cose che mai avrebbe immaginato di fare, quegli occhi che gli avevano fatto dire che mai aveva detto a Massimo e che credeva che non avrebbe detto mai a nessuno. Quegli occhi che ora amava disperatamente.
Lo vide andar via e ancora non capiva perché. Ma sapeva che non l'avrebbe più visto. E allora pianse anche lei.

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