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Topics - gipoviani

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Sentimentale / 1982: pizza, mondiali e maturità parte I
« il: Settembre 16, 2011, 11:22:25 »
Sera. Solo la luce debole di un lampione di strada illuminava la stanza.
Appena entrato, si era buttato sul divano, tolto le scarpe, e aveva pesantemente abbandonato la testa all’indietro. Neanche casa sua gli dava pace. Aveva sperato che entrando in casa l’angoscia si sarebbe placata. Anzi forse era peggio, gli sembrava che le sue cose si girassero dall’altra parte quando le guardava.  
Si sforzava di rimane immobile: se si fosse alzato avrebbe spaccato tutto.
Forse parlare con qualcuno gli avrebbe fatto bene, ma si vergognava come un pedofilo. Tanto era solo questione di tempo e ne avrebbero parlato tutti.
Per ora gli toccava ascoltare la voce paciosa di Jerry Scotti col suo quiz che il professor Di Natale del piano di sotto sparava a mille visto che era duro di orecchi così quanto era buono di cuore.
Prese il telefono. Mike rispose quasi subito.
“Hi Mike. I’m Calò. Listen, I’ve changed my mind. I’ll accept your offer. If you want I can be at London even tomorrow. Actually I’ll be there tomorrow.”
“Really? Oh, it’s fantastic. I knew it. It’s a great opportunity. We sign the contract and we can leave for Nairobi as soon as possible”.
“As soon as possible. I’ll call you soon after my lending in London”.
In realtà non aveva mai pensato di accettare. Avrebbe dovuto stare tre anni senza tornare a Roma. Erano tanti soldi, ma prima non ci aveva mai pensato veramente. Stasera avrebbe accettato anche di andare a cercare petrolio sulla luna, gratis.
La furia gli era passata: l’idea della lunga fuga lo aveva placato. Oramai scappare per lui era diventata un’abitudine. Il dolore che gli lacerava il cuore però era rimasto lì. Allora aprì una bottiglia di Lame del Tenente, un vino salentino denso e deciso. Si sedette  e iniziò a bere, proprio come quella volta. Accese il pc e si prenotò il primo volo per Londra e visto che c’era si cancellò da facebook. Non si fosse mai iscritto.
*************
“Zio, bisogna che ti fai facebook anche tu. A parte che puoi vedere tutte le foto che posto, poi sai quello che faccio. Conosci le mia amiche che subito ti chiederanno l’amicizia, e magari puoi vedere anche il profilo di Luca. Così dirai alla mamma che non è brutto come dice lei.”
Come era bello vedere la faccia allegra di Sara sullo schermo del computer via Skype. I suoi occhi erano ancora più azzurri che al naturale. Il loro colore era certo un regalo del padre, ma per il resto Sara era una Calò fatta e finita. Il viso elegantemente ovale impreziosito da con occhi grandi e pieni d’espressione; ma la bocca, con labbra carnose e perfettamente disegnate che quando si aprivano in un sorriso creavano delle fossette tirabaci al centro delle guance, la bocca era il marchio di fabbrica delle donne Calò.
“Ma dai, Sara, è una roba da giovani. Poi mi ci vedi a me che scrivo: oggi mi sono svegliato allegro, esco e mi faccio il bagno con un tuffo dalla piattaforma”
“Ma guarda che se l’è fatto anche papà. E dice che gli serve anche per il lavoro, per rimanere in contatto coi colleghi e per comunicare con gli alunni.”
Lavoro, ma quale lavoro, se tuo padre fa l’insegnante? Avrebbe voluto dirgli, ma si mangiò la lingua.
Era da una vita in competizione con Simone. Da quel sabato di tanti anni fa quando la sorella lo portò al mare a casa al mare, a porto Santo Stefano. Non era il primo ragazzo di Gabriella, ma presto capì che gli altri non erano stati niente. E che da quel momento sua sorella, non sarebbe più stata solo sua. Ora gli invidiava Sara, anche più di Gabriella. Lui si era preso le donne più importanti della sua vita e avrebbe pure dovuto essergli simpatico?
Suo cognato, poi, non sapeva cosa significa lavorare veramente. Lui si che sgobbava; tre mesi su di una piattaforma petrolifera in mezzo all’oceano indiano con un caldo che ti sfiniva quando non era la stagione delle piogge. Per non parlare di quando arrivavano gli uragani. Un mese a Roma e poi di nuovo tre mesi in mezzo al mare.
Faceva questa vita da 15 anni e anche se non lo avrebbe ammesso con nessuno, era stufo. Diceva a tutti che questa era la vita che aveva sempre sognato. Le piattaforme lo avevano tenuto lontano dalla routine di un matrimonio e di un lavoro in ufficio.
“Voi non sapete quanta libertà mi ha regalato stare 9 mesi all’anno chiuso in una piattaforma in mezzo all’oceano” andava dicendo ai suoi, pochi, amici romani. Loro spesso ci credevano e magari lo invidiavano pure. Lui aveva smesso di crederci da tanto.
Gli avevano appena proposto di dirigere una piattaforma di nuova generazione in fase i costruzione al largo delle coste keniote. Un monte di soldi e di responsabilità, ma significava anche non poter tornare a Roma mai almeno per i primi tre-quattro anni. E lui già era stanco di questa vita. Aveva fatto finta di prendersi qualche settimana per pensarci, ma già sapeva che avrebbe rifiutato.
Così decise di farsi un account su facebook. Ci avrebbe postato le foto più belle e le canzoni più cool: così poteva stracciare Simone anche sulla rete.
***********
Per una volta, l’aereo atterrò in perfetto orario. Come sempre Fiumicino gli sembrò bellissimo eppure lui ne aveva visti di aeroporti in giro per il mondo, parecchi molto più efficienti, accoglienti e attrezzati. Ma quell’aeroporto significava casa.
Si sentiva carico e lievemente eccitato, come in attesa di un evento straordinario, come se stesse per ricevere una notizia e fosse sicuro che sarebbe stata ottima.
Se era stato contento di arrivare a Fiumicino, fu felice di entrare in casa. Aprire la porta appena tornato dai tre mesi in mezzo al mare comportava una specie di scarica di piacere erotico. Infilare la chiave nella toppa, girarla, spalancare l’uscio, riconoscere l’odore umido e sensuale di quelle stanze, penetrare con decisione nel salone, togliersi le scarpe per sentire il suo parquet accarezzargli i piedi, capire che le sue cose lo stavano aspettando con trepidazione, arrivare alla porta finestra, alzare la persiana, farsi abbracciare dalla luce erano un crescendo di sensazioni che culminava con un orgasmo puro quando usciva fuori e vedeva i tetti di Roma arrossati dal sole al tramonto.
La serata del suo arrivo era tutta e solo dedicata alla sua città. Dopo la doccia, usciva e passava per quei quattro o cinque posti, fuori dai circoli del turismo di massa, che conosceva a memoria e che voleva salutare rassicurandosi che fossero rimasti sempre uguali. Trascurava la Roma di massa, dove andavano gli altri; quelle strade erano invase oramai dalle stesse vetrine che si trovavano a Parigi o a Bangkok. Quanto odiava la globalizzazione dei consumi, proprio lui che il più globalizzato dei lavoratori.
La prima serata romana finiva immancabilmente alla trattoria Zio Gipo a Trastevere. La scimmia da amatriciana veniva placata con una porzione e mezza abbondante che gli serviva oramai in automatico Gipo in persona, un curioso milanese che cinquant’anni fa si era trasferito a Roma per amore e aveva imparato a cucinare romano meglio della sora Lella. Il secondo variava a seconda della stagione, dei consigli di Gipo, dell’estro del momento: saltimbocca, cotolette d’agnello, fritto alla romana.
Quella sera, una splendida sera di maggio, era in vena più che mai e si sparò una bella trippa, alla faccia del colesterolo e dei trigliceridi. Non beveva vino, mai più.
Tornato a casa si sedette un po’ al pc prima di prendersi due dita di grappa di Teroldego e mettersi davanti alla tv e lasciarsi addormentare piano.
“Piero Prosperi vuole stringere amicizia con te su facebook” recitava il messaggio.
*********
Estate del 82, estate della maturità e dei mondiali in Spagna. Un gruppo di ragazzi straordinario, come tutte le comitive e tutti i diciottenni. Lui e Anna, la sua ragazza, Piero e Celeste, altra coppia inossidabile e Massimo detto lo sciupa femmine, perché non se ne lasciava scappare una e nessuna, pare, si faceva scappare lui. Ebri della promozione e con ancora negli occhi e nelle orecchie l’urlo di Tardelli, organizzarono un viaggio in Grecia. Partirono solo in quattro, perché una vecchia zia di Celeste pensò bene di morire il giorno prima della partenza e lei alla fine rinunciò.
Avevano preso in affitto per poche lire una casa a Paxos un’isola ionica pochi chilometri a Sud di Corfù. Quindici giorni di solo mare, sole, mangiare e bere. Divertimenti pochi ma tanto sarebbe dovuti essere due coppie e Massimo che si voleva prendere un paio di settimane di sabbatico dalle donne; andava dicendo che Paxos sarebbe stata per lui quella che Singapore era stata per Vecchioni nella canzone dei Nuovi Angeli.
Andavano spesso a pesca subacquea, anche se lui era l’unico ad avere la fissa. Era anche l’unico che ci sapeva fare. Col pesce che prendeva mangiavano tutte le sere gratis al miglior ristorante dell’isola  e quando andava bene si portavano anche qualche dracma a casa.
Un pescatore di Paxos, Christos, li accompagnava nelle secche di fronte all’isola dove si poteva trovare pesce in abbondanza.
*********
Aveva subito accettato l’amicizia e si era fiondato sulla sua pagina. Era secoli che non lo vedeva ed era curioso di sapere come se la passasse.
Una moglie, carina, anzi proprio bella. Ovviamente non era Celeste, ma questo lo sapeva già. La loro storia non era durata poi molto più a lungo della sua. Due figli maschi che giocavano a pallone. Un mestiere che gli si addiceva: l’informatore farmaceutico. Aveva la parlantina sciolta, la faccia simpatica e un aria da caciarone di classe. Chissà quanti medici e dottoresse riusciva a convincere che i suoi prodotti erano panacee per tutte le malattie possibili. E poi aveva quella spregiudicatezza e quel relativismo morale che per far affari coi medici è fondamentale.
Postò due video trovati in fretta e furia su youtube e seguendo le indicazioni di Sara riuscì a taggare Piero Prosperi. Il primo era di Cocciante: Celeste Nostalgia. Era una delle hit di quegli anni: ma principalmente era usata dagli amici per canzonare Piero quando lo scoprirono innamorato di Celeste, appunto. Era quasi sempre Massimo che iniziava a fischiarla, prima a basso volume e poi sempre più forte trascinando gli altri. E Piero allora partiva coi moccoli e le grida, almeno fino al momento in cui scoprì di essere ricambiato. Da quel momento sorrideva compiaciuto quando qualcuno iniziava a cantarla: e infatti di lì a poco i suoi amici, perso ogni gusto, smisero di farlo.
Invece Hard to say I’m sorry dei Chicago era stata la canzone di quell’anno. A lui i Chicago non facevano impazzire e Cuccurucù Paloma di Battiato gli piaceva di più. Ma ricordava benissimo che appena entravano nella macchina di Piero, lui infilava la cassetta dei Chicago di cui si ricordava perfettamente il colore.
“Come stai, brutta canaglia?” gli scrisse in bacheca.
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Di quel giorno lui ricorda ogni particolare: era andato a pesca da solo, ma arrivato a metà strada dalla secca, quando stava cominciando ad indossare la muta si ricordò che il giorno prima aveva perso il carichino  scivolatogli in acqua mentre ritornavano a riva. Il carichino è un aggeggio di plastica nera piccolo e insignificante ma assolutamente necessario per caricare il fucile subacqueo.
Cercò nella sacca da sub il sacchetto dove teneva alcuni carichini di riserva. Ma non li trovò, evidentemente erano nell’attrezzatura che aveva lasciato a terra.
Da buon pescatore legato alle piccole superstizioni, fece buon viso a cattivo giuoco e se ne uscì dicendosi che non era cosa di pescare quel giorno, il destino era stato chiaro. Ignorava ancora che il destino era stato anche cinico e baro, come prammatica prevede.
Arrivati al molo, un signore francese che conosceva gli propose un’uscita in barca a vela: c’era un bel vento costante con un mare con delle belle onde lunghe che invitava a prendere il largo con una deriva.
Rifiutò, avrebbe invece raggiunto Anna e avrebbero fatto il bagno insieme.
E si diresse verso casa per lasciare la pesante sacca con l’attrezzatura.
L’appartamento che avevano preso in affitto era in cima ad una collinetta con una splendida vista sul porticciolo. Per arrivarci, non seguì il sentiero di pietrisco che l’avrebbe condotto alla porta d’ingresso che dava sulla piccola stanza da pranzo da cui partiva una scaletta interna che permetteva di raggiungere le due stanze da letto del piano superiore. Prese invece un sentiero di terra, ripido e tortuoso ma più breve che arrivava al retro della casa dove c’era una la terza stanza da letto, più piccolina delle altre due perché ricavata nel seminterrato. Era la camera che avevano lasciato a Massimo che era da solo. Volendo si poteva entrare in casa di lì o si potevano fare ancora pochi metri di salita, girare intorno alla casa ed entrare dall’ingresso principale.
La prima cosa che vide furono i capelli che riconobbe subito. Si chiese cosa stesse facendo in quella stanza. Stava per chiamarla, quando dopo aver fatto un passo in più ne poté vedere la testa per intero. Il viso era contratto, gli occhi chiusi, e si muoveva ritmicamente. Ora era alla stessa altezza dei suoi occhi chiusi e purtroppo poteva anche sentire i suoi versi. Si fermò e gli parve che si fosse fermato anche il suo cuore e con questo tutto l’universo mondo. Era a quattro zampe sul letto e un uomo di cui lui non poté vedere il viso per via della persiana abbassata a metà la stava prendendo da dietro. La sua Anna stava scopando e lo faceva con gran gusto a quanto sembrava. Non riusciva a muoversi, era ipnotizzato dal quel viso, da quei capelli ricci che ondeggiavano su e giù. Il ritmo stava aumentando e i suoi gemiti erano più forti. Brutto stronzo, altro che sabbatico.
In quel momento lei aprì gli occhi e lo vide. Lanciò un grido.
Nei giorni che seguirono lui si era continuamente chiesto se quell’urlo fosse dovuto al piacere o alla vergogna. Nei trent’anni successivi avrebbe scoperto che la vergogna amplifica il piacere.
Se ne scappò via.
**************
“Finalmente anche tu nella nostra tribù di Facebook.”
Il messaggio di Piero in chat gli arrivò mentre curiosava ancora fra le sue foto e i suoi vecchi post. Si sentì quasi come se fosse stato sorpreso a spiare di nascosto nei cassetti della camera dell’amico. Doveva chiedere a Sara se era possibile che Piero l’avesse veramente visto mentre girellava curioso nella sua vita.
“Ciao Piero, come stai?”
“’Na bellezza. E tu? Da che parte di Roma abiti, che se sei vicino vengo e ci andiamo a bere una birra insieme”
“Al momento sarebbe difficile sono in mezzo al mare, nell’oceano indiano”, mentì spudoratamente, ma non era ancora pronto a rivedere Piero, aveva ancora paura di visitare quegli anni.
“Vai ancora a pesca?”
“Oggi come oggi pesco solo fregature. Sto lavorando”.
E gli raccontò del suo lavoro, tanto e della sua vita, poco.
“Allora quando torni a Roma, ci vediamo, promesso?” gli disse salutandolo.
“Sicuramente” rispose. Ma non ne era certo.
“A presto, allora”
“A presto”.
“A proposito, ti volevo dire che c’è un gruppo. Pizza, mondiale e maturità: noi della V C. Con tutti i compagni di scuola, almeno quelli che sono su facebook. Iscriviti.”
“Ok, ora vedo”

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Altro / SDAT
« il: Agosto 11, 2011, 10:32:37 »
SDAT

La vita è un labirinto dove perde chi esce per primo.
Marsilia ha lo sguardo vuoto. All’improvviso si anima e racconta di quella volta che un bombardamento la sorprese a Livorno. Si salvò solo perché un soldato sconosciuto le si buttò sopra coprendola. Gli dette uno schiaffo, Marsilia, quando le bombe smisero di cadere: il soldato aveva messo le mani dove non doveva. Non rispose al primo schiaffo e nemmeno al secondo e le grida non lo smossero. Era morto così, con la mano fra le cosce di Marsilia.
La vita è un labirinto dove vince chi perde la strada senza smarrire se stesso.
Il suo sguardo si è fatto assente di nuovo.
“A cosa pensa, Marsilia”
“A niente, mica si può pensare sempre a qualcosa” e se ne va.
Fa solo mezzo giro del lungo tavolo che è al centro della sala. Sistema con cura il tappeto che vi è sopra, poi finisce il periplo e torna verso di me.
Mi saluta come se mi avesse appena visto e, con una aria cospiratoria, mi chiede.
“Mi dice come si fa ad uscire da questo posto? Quelle non mi fanno andar via” e indica le suore che vigilano la grande porta che dà sul giardino.
“Fuori c’è mio figlio che m’aspetta, sarà in pensiero. Ieri so’ uscita e non so’ tornata a casa. Starà cercandomi per tutta Poggibonsi”
“Signora Marsilia, mi dispiace, non so come si esce.”
“Nemmeno lei lo sa come s’esce? Però, la facevo più in gamba…”
“Sa che facciamo? S’aspetta che le suore vadano a dormire, ci si vede qui e poi si scappa insieme”
La vita è un labirinto: si cerca continuamente l’uscita ma quando la troviamo è sempre troppo presto.
Ada grida e lancia moccoli, continuamente. Bestemmia e s’arrabbia con Dio e si innervosisce che lui non le risponda.
“LA MAMMA L’ERA MAIALA E IL BABBO BECCO ALLORA GIÙ BOTTE COL BASTONE QUESTE DONNE TUTTE DI MERDA SON SPORCHE E LO PICCHIARONO FINO A FARGLI USCIRE TUTTE LE BUDELLA DA FUORI L’ERAN PUTTANE TUTTE”
Sta quasi sempre in una stanza da sola in compagnia delle sue stesse grida. Racconta storie confuse di amore, morte, violenza.
Come se ricordi di vicende drammatiche venissero prepotentemente a galla nella sua mente e fosse costretta a farli uscire fuori.
Appena mi vede, smette e si fa muta. Sono segreti che non devono essere rivelati.
Vorrei conoscere la sua storia. Vorrei sapere se c’è del vero nei suoi racconti o se il dramma è avvenuto tutto dentro la sua mente.
Vorrei conoscere la vita che ha fatto; da giovane deve essere stata una bella donna. Vorrei sapere chi è la splendida ragazza trentenne, che riesce a nuotare dolce e affettuosa in quel mare di rabbiose bestemmie e che la chiama nonna. E le assomiglia come una goccia d’acqua assomiglia ad un’altra goccia.
Nessun altro parente ho visto mai. Forse neanche lei esiste ed è solo un ologramma dell’Ada del passato.
E anch’io forse mi sto perdendo, ma vorrei mi prendesse per mano e mi portasse a vedere il film della vita di sua nonna e lei fosse la mia personale voce narrante fuori campo e ci fossimo solo noi nella sala all’aperto e lo schermo fosse sotto un cielo stellato in una sera d’estate accarezzata da una fresca brezza. E vorrei ci baciassimo solo dopo la parola FINE.
La vita è un labirinto e usiamo le nostre lacrime per segnare la strada: se qualcuno le asciuga, ci perdiamo.
A Beppino son sempre piaciute le donne. Ma la cosa non è mai stata reciproca, almeno finora. Poche esperienze molte delle quali con professioniste e una moglie noiosa e troppo bigotta per farlo felice. E ora che il sesso è l’ultimo dei suoi problemi, ora che gli tocca continuamente mettere in ordine tutto, dalle sedie ai tavoli, in questo accidenti di posto perché gli altri mettono sempre tutto a casaccio, quella donna lo chiama continuamente. Lo chiama senza dire mai il suo nome.
“Vieni, vieni” le dice dall’altra parte della stanza. E fa segno con la mano.
Che se una volta, una sola santissima volta, l’avesse chiamato Beppino, allora si che l’avrebbe presa con sé per il resto della sua vita.
“Vieni, vieni” quando la portano a tavola.
Una amico una volta gli disse che l’uomo che si fa trovare non è mai veramente amato. “In amor vince chi fugge, Beppino mio” gli diceva il Duccio Guerrieri che di donne ne aveva sempre avute più di quante se ne potesse permettere.
Lui non era mai riuscito a fuggire, erano fuggite sempre prima loro. Anche la moglie se n’era andata prima di lui e l’aveva lasciato solo come un cane, con un figlio che non lo veniva mai a trovare e una figlia che s’era andata a vivere a Messina, pensa un po’.
E l’aveva lasciato con la testa confusa che a volte non si ricordava più nemmeno qual’era bene la differenza fra maschi e femmine. L’amore l’aveva studiato poco e praticato meno e comunque adesso l’aveva bello e dimenticato.
“Vieni, vieni”. Le ripeteva lei.
“Mo’ vengo. Più tardi, ho da fare adesso”. Duccio sarebbe stato orgoglioso di lui.
“Devo sistemare tutte queste seggiole. Mannaggia a chi le sposta sempre”.
E vacci, cazzo, penso io. Falla contenta. Che questo solo l’è rimasto.
Osservo la scena, su l’uscio della porta del salone dove son tutti. Mi sono fermato perché ho sentito la sua voce che chiamava. Non sono entrato indossando il solito sorriso d’ordinanza e recitando il saluto più caloroso che riesca ad interpretare. Mi sono lasciato li, a spiare, non visto, la sua nuova vita.
La vita è un labirinto: non aiuta osservare la fatica di vivere degli altri ma non smettiamo di fare l’errore di aiutarli.
“Gesù, Giuseppe e Maria, ti proteggano sempre”. Sembra un deodorante automatico la Rosina. Appena transiti sufficientemente vicino a lei, emette il suo augurio di tutela divina.
“Finchè c’è la fede c’è tutto” continua poi come a giustificare la ragione del suo provvidenziale intervento.
Buona e dolce la Rosina, ma nessuno le fa mai compagnia. Dove saranno i parenti che magari si son già spartiti l'eredità, perché si fanno pregare per venire a sentirla pregare. E allora ogni tanto parla con me, quando riesce a essere lucida a sufficienza e si emancipa dalle preghiere e dalle richieste di grazia divina.
“Al mi marito gli ho voluto un sacco di bene: per me era un angelo sceso dal cielo”
Beato lui, ho pensato, io che marito son stato anch’io, questa fortuna non l’ho avuta. Sarà perché non sono un angelo e soffro di vertigini e col cielo c’ho poca dimestichezza. E non ho nemmeno la capacità di essere quel diavolo che le donne venerano molto più degli angeli.
“Le nostre tre bambine, quanto gli voleva bene.”
“Era tutto lavoro e famiglia. Ma gli era sempre a giro, faceva il ferroviere, il mi marito”
“Quando tornava dai campi, io gli facevo trovare la tavola apparecchiata. Ma lui prima di mangiare mi dava un bacio e mi diceva che ero la su regina”.
“E poi la domenica andavamo a messa e ci mettevamo nei primi banchi: io, lui e Ascanio il nostro unico figliolo”.
“Il mi marito si che ci sapeva fare: sapeva aggiustare tutto. L’era giornalaio e se li leggeva più lui de’ su clienti i giornali. La sapeva di ogni cosa, il mi povero marito.”
“L’era bravo, tanto bravo. Bastava fossi andata dal parrucchiere, o mi fossi messa un vestito più bello e nemmeno mangiava, ma mi portava in camera, chiudeva la porta chè nostra figlia non entrasse e … lei mi capisce…., vero?”
Invece ci avevo messo un po’ a capire. Prima pensavo fosse colpa mia e avevo sensi di colpa. Non prestavo la dovuta attenzione alle sue parole e sentivo senza ascoltare, finendo per perdermi nei meandri delle sue parole e dimenticarmi i particolari del racconto.
Invece Rosina mi ha fregato. Eppure questo posto che frequento da un po’ . Rosina è riuscita a stupirmi: si inventa ogni volta una storia nuova. In fondo fa sempre quel che noi vorremmo fare, si inventa un nuovo io ad ogni giro. Son convinto che non lo fa per ingannare gli altri o per apparire interessante, Rosina lo fa per se stessa. Si consola inventandosi la vita fantastica che più le piace in quel momento. Gioca a far la narratrice, lei. Mi sa che sono un po’ malato anch’io.
La vita è un labirinto: chissà quante volte passiamo dallo stesso posto e non ce ne accorgiamo.
“Vieni, vie…”, si blocca quando mi vede e il suo viso s’illumina.
La vita di Rita io la conosco, almeno quella ufficiale e quella che mi ha voluto raccontare. Rita l’ho portata io in questo posto una sera di un freddo Febbraio. I vigneti che circondano la casa erano innaturalmente coperti di nebbia, c’era brina fredda sulla parete della chiesa, sugli olivi, sulla cancello di ferro battuto. Una brina che diventava una patina di gelo che stringeva il mio cuore scaldato solo dall’amore dell’angelo che mi accompagnava.
“Andiamo, andiamo” mi dice come prima cosa.
“Andiamo dove, mamma?”
“A Lecce”
Lecce è uno dei tre nomi propri che ancora riesce a maneggiare: Gigi, Rita e Lecce.
E riassume tutti gli altri: casa, gioventù, passato, amori, ricordi: tutto precipitato nella parola Lecce.
Dove non tornerà mai più e se tornasse non se ne accorgerebbe.
E per quanto possa apparire strano, visto che son io che l’ho portata qui: darei un occhio per riportarla a Lecce. Ma non alla città dove entrambi siamo nati e nemmeno alla sua casa dove io sono cresciuto fra le sue pizze con la crusca, le sue lezioni di matematica, il suo sorriso e il suo amore. Ma vorrei portarla alla Lecce che sogna lei.
Mi piacerebbe toglierle, almeno per mezzora, la polvere e le incrostazioni che le bloccano il cervello: restituirle i ricordi, i segreti, le passioni, la sua vita passata. Restituirle i sostantivi, gli aggettivi, i verbi, gli avverbi con cui possa di nuovo raccontarsi la vita.  
Ma quando usciamo fuori dal cancello, la maggior parte delle volte, mi dice:
“Torniamo, ho paura. Torniamo dalle persone”.
Vorrebbe andare a Lecce, ma teme di uscire dal cancello. Sa meglio di me che nella sua Lecce, lei non tornerà più. La sua vita, il suo passato se l’è portata via la SDAT (Senile Dementia of Alzheimer Type) che tiene in ostaggio il suo futuro. E io non posso pagare il riscatto.
La vita è un labirinto.

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Altro / La foto su Facebook
« il: Aprile 16, 2011, 20:43:00 »
“Strano”
Penso leggendo i commenti dei miei ex compagni di classe alla foto del pranzo di classe, poche settimane prima della maturità, che ho postato su facebook. Roba di una trentina di anni fa. E nessuno ricorda chi sia la ragazza parzialmente voltata verso di me che sta fra l’Emanuela in piedi e Tino accucciato in prima fila.
Strano non la ricordino.
Qualcuno di loro storse il naso quando dissi che l’avrei portata e chissà quanti commenti al vetriolo fecero alle mie spalle. Nessuno di loro l’aveva vista prima, nessuno l’avrebbe vista poi.
Ma in quel periodo io e Carmen eravamo insieme tutte le volte che potevamo: ogni separazione mi pareva dolorosa ed eterna.
Capita, a diciannove anni.
Era comparsa un giorno dal nulla. In un corteo di studenti nei giorni tragici del sequestro Moro.  All’improvviso me la vidi accanto.
La notai subito e insieme a me tutti i maschi del corteo.
Non si notavo solo perché era bella ma perché era, come dire, luminosa. L’unica a colori in una foto in bianco e nero.
Aveva qualche anno più di me.
La manifestazione finiva con l’assemblea nell’aula magna dell’università. Feci il mio intervento poi sedetti sulla scalinata ascoltando gli altri.
Lei posò una mano sulla mia e mi guardò. Solo allora notai quanto fossero grandi i suo occhi verdi.. Ci cascai dentro e non riuscì più ad uscirne.
Non era d’accordo con me, mi disse. La violenza fa parte della storia, o lo fai o la subisci, aggiunse. Bloccò i miei tentativi di ribattere, dicendo che doveva andar via.
Se volevo ne potevamo parlare più tardi e mi invitò per la sera nella casa che divideva con altri compagni nel centro in via Idomeneo, vicino a porta Napoli.
Volevo.
Mangiammo una pizza piegata in due, come usava allora, seduti sul suo letto, mentre la voce di Mike Buongiorno che poneva la ferale domanda “Handicap o Cavallino?” arrivava attenuata dall’appartamento accanto.
Per due mesi ci vedemmo tutti i giorni anche se era sempre lei a decidere dove, quando e per quanto.
Avevo molto da imparare in amore. Fu una maestra paziente. Io fui scolaro  molto entusiasta.
Quando le parlai della gita e del pranzo, insistette per venire. Non capii mai bene perché. Non era riuscita ad andare a quella della sua classe, si giustificò.
Al ritorno dalla gita, distesi sul letto in via Idomeneo, mi disse che doveva partire. Le chiesi ancora tranquillo quando sarebbe tornata. Iniziai ad aver paura quando mi disse che non sapeva, cominciai a tremare quando mi resi conto che aveva impacchettato tutte le sue cose liberando la stanza, precipitai nella disperazione quando scorsi i suoi occhi che sapevano di addio.
Non la rividi più.
Dieci giorni prima dell’esame di maturità, mentre annoiavo la Titti parlandole della ginestra di Leopardi, mi cadde l’occhio sul titolo della Gazzetta del Mezzogiorno. In uno scontro a fuoco a Genova con i carabinieri del generale Della Chiesa, una terrorista delle BR era stata colpita a morte. Il suo nome era Carmen Santoro.
Una parte di me si dissolse a Genova con lei.
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 “Papà, allora i tuoi amici si sono accorti del trucco?”
“Shiiii..che sto scrivendo potrebbero leggerci….”
Mia figlia è una maga di Photoshop con cui riesce a fare le cose più difficili. Lavorando su una mia foto e’ riuscita persino a farmi più magro.
Quando le ho chiesto se per scherzo riusciva ad inserire una sconosciuta nella foto di classe, ha detto che sarebbe stato uno scherzo per lei. Nessuno s’accorgerà di nulla, aggiunse. E così è stato: per giorni i miei ex-compagni hanno discusso di una ragazza che non esiste, una ragazza virtuale.
E poi ho raccontato loro una storia incredibile, la storia di Carmen.
“Ma la foto dove l’avevi presa? Era perfetta, abbigliamento dell’epoca, acconciatura anni settanta, il volto che non si vede completamente..”
“In un sito, uno sulla storia del movimento studentesco”.
“Bravo papy, bello scherzo”.
Tecnicamente ho detto la verità, come sempre alle mie figlie.
Solo che il sito dove vi sono ricordi del movimento studentesco è in una scatola di cartone in cima al mio armadio. Fra le altre cose, avevo messo la foto di Carmen e la lettera che mi mandò pochi giorni dopo la sua partenza.
Non la vedevo da quando le avevo detto che non potevo portarla al pranzo di fine anno della III E. C’eravamo messi d’accordo perché nessuno portasse ragazzi o ragazze. Il pranzo era solo per noi,
Al ritorno la cercai inutilmente. In via Idomeneo non c’era nessuno.
Pochi giorni dopo mi arrivò la sua lettera. “Lo so che non sei d’accordo, lo so che in altre circostanze mi avresti addirittura denunciata, ma io entro in clandestinità. Sono stati due mesi splendidi. Ti prego di distruggere questa lettera dopo averla letta, se te la trovano potresti passare dei guai”.
Io invece avevo conservato tutto, la lettera e la foto sopra l'armadio, lei dentro di me.
L'altro giorno, prima di dare la foto a mia figlia, ho finalmente bruciato la lettera.

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