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Topics - chospo

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Altro / Un'uscita
« il: Gennaio 30, 2013, 18:50:49 »
Devo ancora sfoltirlo ma spero vi piaccia  dharmas

Ok, ora dovrebbe essere leggibile  :top:

Un'uscita
____________

Erano a tavola quando il padre gli chiese:
"Dunque, oggi?"
"Oggi cosa?" rispose lui rimestando con il cucchiaio nella minestra.
"Niente."
E tornarono a mangiare tranquilli. Non volava una mosca. Poi la signora F., che da tempo guardava marito e figlio senza toccare cibo, disse:
"Dunque, oggi?"
Alla domanda entrambi alzarono la testa dal piatto. D. aveva un rigagnolo di brodo sul labbro, l'aria  infastidita e gli occhi persi nel vuoto. Il signor F. lo esortava a rispondere usando il gomito, si puliva i baffi con il fazzoletto. "Dice a te," borbottò.
"Sicuro che dica a me?"
"Sì, siamo sicuri." disse la signora F.
"Non so..." disse D.
"Non sai cosa?" disse la signora F.
"Basta, basta," disse il signor F., "Se non vuole, non vuole, non sono affari nostri, in fondo", concluse, e nonostante il tono rilassato prese a mangiare con voracità, sicché buona parte della minestra gli colava dalle labbra sino al piatto. Il signor F. era un uomo corpulento, testa da rinoceronte ed occhietti spenti. Lo annoiavano le tiepide minestrine, i polentini insipidi, tutte quelle cose che tolgono piacere allo stomaco. Era di certo più avvezzo alle porcherie, lui, eppure aveva quasi terminato l'insidiosa pietanza. La moglie lo aveva messo a dieta forzata; nel vederlo così cooperativo lo applaudì a scena aperta, tanto che il figlio, vergognandosi della situazione, la rimproverò aspramente.
"Dunque, oggi?" ribatté lei, "Dovrai pur fare qualcosa oggi."
"Credo che... credo che uscirò."
"Sarà meglio. Guarda che ora è!," disse la signora F.,  e svelta indicò il grande orologio vicino alla finestra. Erano le nove in punto. Fuori, nella notte di un cielo vuoto, il vento agitava le chiome degli alberi. I lampioni mandavano una luce uniforme sulle strade deserte.
"Sì, sì." disse D. alzandosi da tavola e afferrando la giacca abbandonata sulla sedia.
"Guarda, guarda, sto uscendo mamma... vedi? Esco." disse ancora, ed evidentemente stizzito si concentrò sui guanti che stava indossando; tremava da capo a piedi, sul punto di scattare da un momento all'altro.
"Come, esci adesso?" fece la madre, anche lei già in piedi e fermente. "Finisci prima di mangiare, no?"
"No, esco. Vuoi che esca, no? Allora esco."
"Fai come ti pare." sbottò lei, rossa in volto.
"Ma cosa ti prende?"
"Esci con lui, vero?" chiese ora più pacata, e si mise di nuovo seduta, le braccia incrociate, gli occhi fissi sul marito. Questi sembrava inerte, la testa sul piatto vuoto, come colpito da un ictus.
"Bah..." sbottò lei, che forse cercava nel marito una qualche reazione alla sortita del figlio; poi, vedendo che quest'ultimo si stava già appressando alla porta, scattò giù dalla sedia.
"Allora?!" urlò, agitando un pugno, "Esci con lui, vero!?"
"Sì," sospirò D., ormai oltre la soglia, "Io, lo trovo... lo trovo interess..."
"Sei un bugiardo!" urlò ancora la madre.
"D." gli voltò le spalle e proseguì sul vialetto, verso il cancello che dava sulla strada. La signora F. lo rincorse per un bel pezzo. Lo tirava per la giacca, sbraitava parole terribili, e "D." fu costretto più volte a darle qualche strattone per levarsela di dosso.
Quand'era ormai lontano, sebbene il vento gli fischiasse nelle orecchie, aveva l'impressione di sentire la voce della madre. La ricordava piegata in due sul giardino di casa, il volto straziato dalle lacrime, le mani imploranti alzate alla luna. Rise a quell'immagine, e continuò sulla sua strada.
_______

D. aspettava l'amico nella piazza principale della città, al solito posto convenuto, sotto il monumento: una statua di donna che brandisce una spada. Ha gli occhi tristi, davvero tristi sebbene scolpiti nella pietra. L'arma è sguainata verso il cielo senza stelle.
C'era il freddo pungente dell'inverno inoltrato. La città era deserta, pochi passanti sotto grandi ombrelli neri. D. si era dimenticato il suo, ma non aveva voglia di ripararsi. Il suo amico era in ritardo, un'ora circa, come sempre; la tristezza era troppa persino per trovare un rifugio. Così si era spento, aveva ingannato il tempo immergendosi nelle mura degli antichi palazzi. L'architettura barocca, le ampie arcate, i marmorei balconi; tutte cose che conosceva a memoria, e che osservava solo per svuotare la testa.
Poi sentì la voce dell'altro:
"Ehi."
Era lì di fronte, un ombrello in mano, ammiccante sotto le folte sopracciglia nere. Sembrava al colmo della felicità. Ad influire su quest'impressione vi era il suo abbigliamento: un impermeabile rosso vivo, due volte più grosso di lui.
"Sei in ritardo." lo ammonì D., senza troppa convinzione.
"E' vero," rispose C. Le labbra e il volto gli tremavano. "Ma tu mi hai aspettato, sì, sì" disse con voce squillante, attaccandosi alla mano dell'amico e tirandolo a sé; poi lo guardò in faccia e scoppiò a ridere. La lingua gli usciva a scatti dalla bocca.
"Non puoi arrivare sempre in ritardo," disse D., per nulla turbato.
"Posso, se tu mi aspetti." si riprese quell'altro, ora serio ed immobile.
"Anche questo è vero," rispose D.
"Senz'altro vero," concordò C.
Si erano incamminati in silenzio, sotto la pioggia. D. tentava di tenerlo vicino a sé, voleva dargli il braccio, camminargli a fianco, ma C. si scostava, a volte guardandolo con disprezzo, altre volte ridendogli in faccia. Presero vicoli bui, dove le pareti degli edifici sembravano quasi toccarsi. C'era odore di muffa, di chiuso. D. non aveva le scarpe adatte, e ben presto cominciò a sentire i piedi intorpiditi, i calzini bagnati. Non parlavano di nulla, guardavano per terra, sospiravano o sbadigliavano.
"Dove stiamo andando?" chiese D., fermandosi e trattenendo l'amico per l'impermeabile.
"Non so." disse C., e scaltro si mosse per liberarsi.
Ma D. lo prese per le spalle e lo guardò dritto negli occhi. Le mani gli tremavano, il volto era teso, cercava un po' di coraggio dentro di sé.
"Ogg-g-ggi," balbettò, poi prese fiato, poiché era diventato viola, e concluse più sereno: "Oggi ci siamo sentiti. Volevi fare qualcosa, mi hai detto."
"Si, penso sia vero." disse C., e sputò un altro risolino.
"Ok", fece D., scostandosi da lui e osservandosi i piedi. "Quindi? Cosa facciamo?" chiese titubante.
"Camminiamo, facciamo un giro." disse C.
"E dove andiamo?"
"Non so." rispose C.
Tornarono a camminare, e ben presto tornarono a fermarsi.
"Da qualche parte potremmo andare." propose D. a bassa voce.
"Il solito posto?" si arrese C.
"Il solito posto." concluse D., sorridendo per la prima volta.
Il pub in cui entrarono era affollato. Sedettero su una panca, ad un tavolo unto. Fumo, mormorio da chiacchericcio, risate, urla concitate, qualche coro da stadio. Le luci erano rosse e soffuse, musica pesante, incomprensibile a tratti. Passò mezz'ora prima che qualcuno si degnasse di prendere l'ordine. L'amico di D. ci mise altrettanto a scegliere. Infine presero patatine fritte e vodka. Mangiarono a sazietà, ingurgitarono ogni cosa senza mai guardarsi in faccia.
Erano ancora tra le strade, camminavano in silenzio, ora più distanti l'uno dall'altro, e per giunta con lo stomaco distrutto. D. sentiva una profonda nausea, avrebbe voluto vomitare, ma gli sembrava quasi inutile a questo punto. Uno strano vuoto gli tormentava l'animo: non si doveva fare qualcos'altro in quella sera?
Guardò C. come si guarda una cosa qualsiasi, ma una cosa qualsiasi che si ama. Sì, lui lo amava, ma non sapeva come dirlo, né a lui né tanto meno a se stesso. Dentro di sé era poco più che un sussurro, una certezza infondata nei fatti. Perché mai avrebbe dovuto amarlo?
"Senti," gli disse C.,"tu cosa vuoi fare? Altrimenti io andrei a casa."
"Potremmo giocare." propose D.
"Giocare? Sul serio?" rispose C., che non credeva alle sue orecchie, e istintivamente prese la mano a D. Questi ebbe un sussulto, poi un sorriso nervoso.
Così mano nella mano si avviarono, diretti alla meta predestinata. D. si sentiva felice: ora si sarebbe fatto qualcosa! Sì, certo, sapeva già cosa, ma questo non importava: "Andrà tutto bene," si diceva fiducioso. Lui odiava giocare, mal sopportava quel genere di cose, eppure, che altro fare?
Giunsero in un'altra piazza, nella periferia. Qui gli edifici erano molto più alti e opprimenti, con tutte le finestre accese nel buio della notte. Si udiva il latrare di molti cani.
Grandi pioppi si ergevano tra le aiuole disposte a triangolo nella piazza spazzata dal vento. Giornali ed altre cartacce rotolavano ovunque. Al centro c'era un'ampia discesa - uno scivolo scavato nell'asfalto - e sul bordo di questa tantissime sfere colorate.
"Andiamo! Forza, alle grosse biglie!" gridò C., trascinandosi dietro l'amico. E nella notte, indifferenti alla pioggia, si scagliarono sulle sfere con ferocia, colpendole e ridendo, buttandole giù dalla rampa in uno sfogo infantile, quasi volessero esorcizzare una paura inesprimibile a parole. D. si sforzava di partecipare alla gioia dell'amico, ma poi ci prese gusto: quella che gli era sempre sembrata un'idiozia, ecco che in quella notte lo liberava da ogni preoccupazione. Guardava ora C., ora le enormi biglie che si scagliavano nel baratro cozzando l'una sull'altra. Ah! Quanta felicità in corpo!
A lungo andare gli venne meno il fiato, si sedette a gambe incrociate per terra, rosso in volto dalla fatica. D. neppure se ne accorse, preso com'era dal suo gioco. Spingeva, urlava, spingeva, e a C. per un attimo sembrò che il numero delle sfere non diminuisse, che il gioco non potesse mai finire. Gli venne a noia guardarlo, e nuovamente uno strano vuoto gli pervase l'animo. D'istinto guardò il cielo a caccia di una luce, ma non una sola stella si mostrava, persino la luna era oppressa dalle nubi. Improvvise le lacrime gli sgorgarono dal viso, sintomo di una tristezza a lungo repressa. Gli piaceva molto scrivere, si portava sempre dietro un taccuino. Poeta scansafatiche lo chiamava qualcuno. Per dimostrare a sé stesso che qualcosa sentiva, prese la penna e scrisse di getto:

"Nell'universo sei loquace
muta luce finita che non posso capire,
nella certezza del vuoto
pietrifichi il cuore,
eppur ti sento
e ti voglio amare."

Nel leggerla si asciugò le lacrime, esaltato dai suoi stessi versi. C. gli si fece accanto, silenzioso, e senza farsi notare lesse quel che l'amico aveva scritto.
"Allora a modo tuo anche tu sei un'idiota." gli disse.
"Idiota?" chiese affranto D.
"Sì, le idiozie che hai appena scritto."
D. dapprima corrugò la fronte, mise via il taccuino, colpito nell'ego, sentendo vergogna per sé stesso e disprezzo per quelle parole incuranti dei suoi sentimenti. Cosa voleva da lui quel cretino che lo aveva portato ad abbassarsi a un comunissimo gioco di biglie? Lui era superiore! Solo lui poteva capire!
Poi C. scoppiò nel suo ennesimo risolino e gli cinse il collo con un braccio, facendosi sempre più vicino, sempre più vicino. D. sentì un brivido lungo la schiena, una verità implacabile infondergli l'animo, e rileggendo i suoi versi non poté fare altro che dire, felice:
"Sì, hai ragione, ho scritto proprio un'idiozia."
E di quelle ultime parole risero insieme, innamorati senza perché, vicini nella notte infinita priva di luce.
Il vento continuava a soffiare, i pioppi mormoravano inquieti, cercando inutilmente di farsi capire.
_____
Quando la mattina dopo, al nuovo calare del giorno (poiché la notte difficilmente è infinita nel vero senso della parola), D. fece ritorno nella casa paterna, fu per prima la madre a chiedergli:
"Allora, com'è andata?"
"Una merda, al solito" rispose lui, facendo spallucce. "Una noia mortale."
"Te l'avevo detto," disse lei ridacchiando, "quando ti decidi a mollarlo?" E visto che anche l'adorato figliolo rideva, la madre propose di berci sopra.
Nelle due ore successive si ubriacarono senza patemi di sorta. Il padre non partecipò, la sua testa era ancora buttata sul piatto dalla sera prima. Qualche mosca gli ronzava attorno: la dieta era stata troppo severa.

2
Altro / Disgregazione
« il: Ottobre 16, 2012, 23:58:45 »

Disgregazione
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Albert sognò di morire. Giaceva in una zona d'ombra, asfissiante e noiosa. Di lontano sentiva il fischio di un treno. Poi si palesò la prima carrozza, ed egli si vide già sotto le ruote, tranciato in due nell'oscurità.
Era convinto fosse giunta la morte, quando balzò fuori dal letto. Ma in pochi secondi tornò alla realtà: egli respirava a pieni polmoni. Solo ricordava l'oblio, il dolore vissuto nel sogno.
Eppure, indifferente al disagio, incatenato agli automatismi della banale giornata, si trasse di peso fuori dalle coperte. Pensò: "Devo lavorare."
Come sempre si guardò allo specchio, fece il necessario per rendersi presentabile al mondo, addentò e bevve qualcosa. Appena pronto si trascinò all'aria aperta, masticando i resti della colazione. La sarabanda cittadina gli era indifferente. Nella testa aveva il banale ritornello di una canzone qualsiasi.
Il cielo mostrava rade nuvole che passeggiavano lente. Non vi buttò neppure uno sguardo. L'aria profumava di primavera, ma egli era privo di olfatto: il tempo e le stagioni passavano attraverso il suo corpo, senza rumore.
Nuovi colori sbocciavano nei viali alberati. D'ovunque edifici opachi. Era impossibile capire se fossero uffici o abitazioni private, tanto sottile era la differenza. Il traffico vibrava di vita autonoma. Albert camminava a schiena retta. Al rosso dei semafori si fermava e attendeva il suo turno.
Poiché non era mai giunto in ritardo, giunse a lavoro puntuale. Garantiva costanza. Timbrava passivo, sedeva alla scrivania, lavorava per inerzia. Teneva un ritmo sostenuto, come se un  meccanismo ne movesse il corpo in assenza dell'anima. Conseguiva ottimi risultati. Una calma neutralità lo preservava dall'errore. Era asciutto, incisivo. I superiori lo guardavano, approvando e plaudendo. Egli non si accorgeva di quella stima. Era poco esigente. Mai aveva chiesto un permesso, mai si era degnato di influenzarsi, né conosceva la promozione.
Quel giorno lavorava a testa china. Isolato, demoliva ogni stimolo esterno. Fu quindi con suo imbarazzo che un fischio lo colpì nelle orecchie, come una sberla.
Balzò in piedi, irrigidendosi con un pugno sollevato nell'aria. Sbattè le palpebre, vedendo che stringeva un timbro.
Da dove...?
Vide, accanto alla sua, molte scrivanie che si allungavano in linea retta. Dozzine di impiegati vi sedevano, sovrastati da colonne di fogli. Timbravano i documenti, li passavano al vicino di banco, muovendosi in sincronia. Nell'aria vibravano colpi ininterrotti.
Albert osservava quella catena di uomini e si mordeva la lingua. Viveva da estraneo in quell'ambiente.
Il vicino di banco lo guardava interdetto. "Il ciclo lavorativo non dovrebbe mai essere interrotto", gli disse, prendendolo a calci negli stinchi. Ed ecco che la paralisi venne meno: Albert si accese, e timbrava, timbrava, timbrava...
Nella mente una nebbiolina lo soffocava e conduceva all'incoscienza.
Ma un altro fischio lo prese d'assalto, questo più forte del precedente. La visione di un treno gli passò nel cervello. Giunse la paralisi, una forte emicrania.
Cosa faceva lì? Perché timbrava quei fogli? Sì, certo, era il suo lavoro; ma perché? Lo stipendio fu la prima risposta, e d'un tratto si vide al bancomat, intento a prelevare grossi fogli di carta.
Perché? Da cosa gli veniva il desiderio di sapere, sin ora estraneo?
Voleva chiedere spiegazioni ai colleghi, ma questi erano assenti ed immersi nella realtà. Poteva rivolgersi ai superiori, ma non sapeva dove si trovassero né che aspetto avessero.
Il vicino intanto era tornato a colpirlo. Albert rabbrividiva all'idea di reagire; desiderava isolarsi.
Per la prima volta fuggiva comprendendo di fuggire, agiva in piena coscienza di sé.
Voleva tornare alla sua vera natura, quella del vuoto, dell'incoscienza fine a sé stessa.
Sin da piccolo lo avevano spronato a scegliere un destino. Gli adulti mostravano un itinerario ed egli poteva sceglierne le tappe. "Cosa vuoi essere Albert?" chiedevano, ed egli scrollava la testa.
Non desiderava essere nulla, neppure desiderava d'essere il nulla, sebbene fosse destinato a incarnarlo. Conosceva il desiderio attraverso le parole altrui. Nel suo animo albergava il silenzio indifferente di una necessità senza coscienza di essere. Era inconsapevole, immune ai perché. L'automatismo del cuore lo spingeva a camminare, a godere della luce del sole, del sentire comune. Esisteva trascinato da una corrente, fluttuante sul precipizio nel quale non poteva sprofondare, poiché da quello stesso precipizio era nato. Il desiderio di morire gli era estraneo quanto quello di vivere.
La giornata lavorativa si protraeva lunga e interminabile. Albert ne soffriva. Il fischio e la visione del treno lo strenuavano a brevi intervalli. Egli cercava l'isolamento; le fughe duravano qualche minuto, forse qualche ora, in fede sua non sapeva dirlo: era confuso dallo scorrere del tempo di cui mai aveva avuto cognizione.
I nervi gli tendevano sotto la pelle. Forti mal di testa lo costringevano al dolore. Era chiaro che i colleghi detestavano la sua inadempienza. Forse anche un tempo aveva ricevuto quelle occhiate di disappunto, ora però le sentiva e ne era disturbato.
Nel rapporto con il prossimo Albert era sempre stato evanescente. Tante mani aveva stretto nel tempo, e in nessuna aveva percepito affinità o calore. Ora più che mai sentiva uno strano bisogno d'approvazione.
D'improvviso non seppe più trattenersi e disse al vicino: "Questi fogli... questi fogli sono bianchi."
"Non è una giustificazione." disse quell'altro, e lo fece di malavoglia, sibilando le parole a denti stretti.
"Sì, ma perché li timbriamo?"
"Perché li timbriamo."
"Dove finiscono?".
"Perché li timbriamo" ripeté il collega, e lo colpì sulle caviglie.
Albert svolse le rimanenti ore lavorative oppresso da un'attenzione febbricitante. Squadrava gli effimeri dettagli dell'ufficio, convinto di trovarvi la risposta alle sue domande, il perché di quell'affannarsi.
Il locale era uno stanzone disadorno, bianco nelle quattro pareti, senza finestre né mobilio, a parte l'immensa fila delle scrivanie. Ai piedi di questa, dentro un'enorme teca di vetro, grazie a quattro ventilatori, turbinavo centinaia di fogli.
Albert notò che all'interno di quel vortice si nascondeva qualcuno. Due uomini in divisa stavano là, a gambe incrociate, con la schiena curva e l'aria da malinconici pensatori.
Che fossero loro i superiori?
Del resto, se non superiori, erano diversi dagli altri. Albert voleva porre loro qualche domanda. Purtroppo il suo turno era finito: un allarme sonoro ricordava agli addetti che era giunto il momento di recarsi a casa; bisognava dedicarsi al tempo libero.
Albert, che si era attardato a lasciare la sua scrivania, nella stanza ormai priva di esseri umani, si avvicinò alla gabbia di vetro. Ma subito un terzo uomo sbucato alle sue spalle gli intimò di timbrare e lasciare l'ufficio.
"Lei è un superiore?" gli chiese Albert mentre quello si lisciava i lunghi baffi sotto il naso adunco.
"Io sono." gli rispose l'uomo in tono autoritario. "Per tanto timbri, e vada a casa."
E Albert andò a casa.
L'aria era sempre viziata dalla primavera. Albert, inondato sino al cervello da quell'odore nuovo e inaspettato, scelse di passare attraverso i viali alberati.
Dalle strade adiacenti, personaggi ambigui lo indicavano. Alcuni bambini grassocci si attaccavano ai finestrini delle macchine e si battevano il sedere.
Il fischio gli rintronò nelle orecchie e lo costrinse a inginocchiarsi. La testa gli esplodeva tra le immagini del treno. Sangue nero gli scendeva dalle narici. Desiderava morire.
Con il fiato corto, una mano stretta al petto, tossiva nel tentativo di alzarsi. Le macchine si accostavano e lo molestavano tra grida e risate di scherno.
Un urlo liberatorio gli proruppe dal cuore e riuscì a mettersi in piedi. Il mondo barcollava tutt'intorno. Non si vedeva più niente se non una distesa bianca, senza confini, come una gigantesca salina.  L'odore della primavera era stato sostituito da un miasma simile alla candeggina.
Di colpo ai suoi lati due treni sfrecciarono roboanti, lunghi e senza fine, tra migliaia di carrozze. Al loro passaggio quel piattume bianco si strappava e svelava squarci di un abisso nero e insondabile.
Albert si rattrapì al suolo, le mani strette ai timpani: era quello l'aspetto del mondo in cui viveva?
Poi la crisi passò. Giunse il silenzio. Una pace soffice e consolatrice. Ogni cosa sembrava andare per il meglio. Albert tirò un sospiro e svenne.
Al suo risveglio era nel letto di casa. Il sole del mattino inondava la stanza dando nuova vita ad ogni cosa. Se ne riparò con una mano, come sempre si alzò dal letto, come sempre si guardò allo specchio, come sempre fece il necessario per rendersi presentabile al mondo, e... dapprima un ronzio, poi il fischio, inesorabile, piombarono nella sua testa a ricordo delle sofferenze del... del giorno prima?
Quando era successo? si chiese Albert - quanto tempo era rimasto privo di sensi? Com'era tornato a casa?
Le domande erano tante, ma il tempo stringeva, l'orologio indicava l'ora, e non poteva sbagliarsi: era un nuovo giorno, una nuova mattina, Albert doveva entrare in turno di lì a mezz'ora, quindi non poteva supporre, non poteva domandare, doveva solo agire, mangiare, vestirsi, lavarsi, vivere, camminare, fare, far, ar, f.
Ed infatti così fece. La colazione gli colava giù per il tubo digerente, sana e leggera come da consuetudine.
D'istinto si passò una mano sul labbro. Toccò qualcosa d'appuntito. Era un foglio accartocciato dentro la sua bocca. La nausea gli salì alla gola, traballò sulla sedia e dallo spavento cascò al suolo. Teneva le mani premute a terra e vomitava. Poi si alzò a fatica in preda alle vertigini, minacciando di cadere da un momento all'altro.
La paura di sapere perché, più della paura di volere quel perché, lo faceva bestemmiare invano. Quante altre volte aveva vissuto lo stesso fenomeno continuando a esistere senza problemi, incosciente di quel male incurabile! Maledetto treno!
Percepì un calcio agli stinchi, sobbalzò, come sbalzato da una dimensione all'altra. Era seduto alla scrivania. Il vicino di banco lo guardava sprezzante. "Sono stufo di te." osò dirgli, guardandosi rapido attorno e riprendendo il lavoro.
Nulla nell'ufficio era mutato. Ad Albert sembrava che i suoi colleghi masticassero carta e ne strappassero brandelli dalla bocca. Quelle labbra serrate, bianche e pallide, si sfibravano come filamenti cartacei.
"Sono di carta, sono tutti di carta," gli venne in mente al colmo della disperazione. "No, no, ero a casa, adesso di colpo sono in ufficio..." si diceva, e d'un tratto comprese la sua ingenuità: dietro la porta spalancata dell'ufficio c'era la sua cucina. Gridare gli sembrò quasi inutile.
"Fuggo, provo a fuggire di nuovo..." si disse, e cercò la pace fasulla della sua natura. Immergersi nella meditazione, chiudere gli occhi, continuare a timbrare. Non conta altro, non conta altro, si ripeteva, non voglio sapere e devo dimenticare. Appongo i timbri, faccio finta di nulla, placidamente percorro il sentiero donatomi dall'esistenza, non conta altro, non conta altro, timbro, e timbro ancora.
Piangeva a dirotto, sopraffatto da sentimenti sconosciuti. Nel profondo malediceva quel fischio che lo aveva sottratto alla cecità, senza donargli la forza di reagire. Non aveva volontà, interesse, quell'ambizione che indirizza verso nuove strade. Gravido di uno scetticismo universale, pensava che il vuoto fosse ovunque, indipendentemente da dove si gettasse lo sguardo.
Era tormentato tra il desiderio di sapere, mai conosciuto, e il desiderio d'incoscienza anch'esso mai conosciuto e generato dal primo.
Quel giorno, in ufficio, venne il medico aziendale per una visita di rito. Albert, che pensava al medico come ad un dio terreno, gli andò incontro a braccia aperte: ma quale fu il suo terrore quando l'anziano signore lo accolse nell'ambulatorio con un "Ciuff Ciuff" divertito.
"Signov Albevt, Signov Albevt," gli disse il medico, "pvoblema con tvenivo? Pvoblema?", e si sedette sul tavolo di marmo al centro dell'ambulatorio, dove un trenino elettrico si muoveva a spirale.
E così Albert tornò al lavoro: timbrava, timbrava, ignorava le lacrime, sentiva gli sguardi delusi dei colleghi.
"Perché!?" urlò, scoppiando in un crisi isterica. Batteva i pugni sulla scrivania: nessuno gli faceva caso o lo ammoniva, poiché il suo turno era finito.
"Non ti licenzieremo, mi dispiace." gli disse uno dei prigionieri della gabbia di vetro.
Albert, che adesso dubitava anche di quell'uomo a cui prima si sarebbe offerto in sacrificio, scappò sbattendosi dietro tutte le porte possibili, maledicendo ogni cosa, e in particolar modo il Creatore.
Sì, Dio, ecco!, era quello il nuovo nome che gli fischiave nelle orecchie: lui, ancor più terribile del treno, e forse suo gemello, lui il tiranno che lo aveva destinato all'incapacità di volere, imprigionandolo in quel mondo di carta!
Che poi, era davvero questo Dio il colpevole? Chi era Dio? Non ne sapeva nulla, lui, di Dio! Era una parola come un'altra nella sua bocca, il pretesto per appigliarsi a qualcosa: uno sfogo di poco conto. Ne aveva sentito parlare un giorno: unico creatore del cielo e della terra, qualcuno aveva detto; ma non era forse una menzogna in quella vita senza senso, o era forse Dio a essere senza senso? Quale logica perseguiva? Chi era? Era Dio il suo nome o non ne aveva nessuno? A chi rivolgersi? A chi ribellarsi? Chi bestemmiare?
Stanco e affranto, Albert correva incontro alla sua via d'uscita.

"Che abbia trovato la via giusta
nella mia via giusta," pensò, come in delirio.


Il fischio nelle orecchie era tornato a scuotergli le sinapsi. Vedeva doppio, triplo, sangue nero gli colava dalle narici. Correva, correva verso la salvezza: verso la stazione.
Quando vi giunse controllò gli arrivi: il primo treno del primo binario avrebbe fatto al caso suo, e dopo un attesa spasmodica, con quindici minuti di ritardo tipico dei treni ad alta velocità, Albert si lanciò tra le ruote della prima carrozza, urlando al cielo la sua ribellione.
Ma non si fece nulla. Neppure un graffio.
Provò la sensazione di venire meno, di cessare di essere, e come da un sogno si svegliò sul binario, circondato da spettatori d'ogni età che gli ridevano in faccia.
Ragazzi cenciosi e donne anziane in vestiti variopinti lo circondavano tra i flash delle macchinette fotografiche; qualcuno filmava.
Come...? Eppure aveva sentito il peso del macchinario!, il dolore strappargli via le ossa!, il sangue spruzzargli fuori dalle vene; possibile si fosse immaginato tutto?
"Dio, che tu sia maledetto Dio! Chi sei!? Ci sei!? Voglio sapere!" gridava, coi pugni all'aria, travolto dalle risate degli spettatori che si affollavano sul primo binario.
"Aspetto il prossimo!" gridò anche a loro, "il prossimo sarà quello giusto!"
Al treno successivo non cambiò nulla. Albert provava la morte, la intuiva, non cessava di esigerla, ma persino il suo corpo rimaneva integro, come immune al passaggio del treno. "Sono fatto di una carta dalla quale si può passare attraverso," si disse, oppresso dall'onnipotenza di quel mistero.
E dopo lunghi insuccessi cadde svenuto. Al mattino seguente si svegliò. Era di nuovo a casa. Si trasse fuori dalle coperte, come sempre guardò il sole benevolo, come sempre fece il necessario per rendersi presentabile al mondo, e andò a lavoro con un piano ben preciso.
Esasperato da quel fattore sconosciuto che gli proibiva di mettere fine ai suoi dolori, per dispetto appiccò un incendio nell'ufficio.
"Vediamo, vediamo se adesso non mi licenziate!" gridava, ridendo tra le fiamme che inghiottivano il mondo e i colleghi. Il fuoco si sprigionava intorno, pire umane correvano ovunque, gettandosi e rotolandosi al suolo.
Aveva bloccato tutte le uscite, era deciso a immolarsi nella speranza di morire. Vomitò l'anima quando vide che i colleghi, sebbene avvolti nelle fiamme, non urlavano dalla disperazione, bensì ridevano inebriati d'una felicità insensata.
Alcuni, fermi sul posto, in piedi sulle scrivanie, lo plaudivano sganasciandosi dalle risa. Danzavano simili a fuochi fatui. Odore dolciastro di carne si spandeva nell'aria insieme al fischio inesorabile del treno.
"Perché!?" imprecò Albert, che voleva vederli contorcersi dal dolore, accomunati a lui dalla sofferenza.
Non si sorprese quando di colpo si ritrovò fuori dalla stanza. Era sulla strada di fronte al palazzo degli uffici impiegatizi. Osservava le fiamme divampare dalle finestre dei piani più alti, tra dense colonne di fumo. Alcune sagome si lanciavano nel vuoto e si abbattevano al suolo come stelle cadenti.
La morte li aveva presi, una morte felice, ed Albert provava nei loro confronti un'invidia più insidiosa delle altre, poiché sconosciuta.
Un uomo lo avvicinò, osservando quello spettacolo di rivolta e distruzione.
Era vestito in giacca e cravatta, grigio ed immobile nella sua eleganza sfarzosa. Un monocolo gli brillava all'occhio sinistro. Disse, atono, stringendo la mano ad Albert: "Lei quest'oggi ha ottenuto promozione. Signor Albert, lei appena effettuato svolta nella sua vita: WhitePlus Inc. le impone contratto tempo indeterminato come Operatore Incendiario, impossibilità licenziamento, ottima paga."
E rovistandosi nelle tasche ne trasse un lungo contratto che Albert, con suo tenue stupore, sembrava aver firmato qualche anno prima. Siccome si toccava la testa, e un nuovo treno sicuramente incombeva, il funzionario aziendale gli diede una pastiglia contro il dolore. "Duole, lei, vero?" chiese non curante, "Passerà lei."
Passò difatti. Quando Albert il giorno dopo si alzò di nuovo nello stesso letto di sempre, non si stupì per nulla: ogni mattina tornò ad alzarsi puntuale. Andava in un nuovo ufficio uguale a quello precedente, e vi dava fuoco con calma e incoscienza. Veniva pagato a percentuale: più decessi causava, maggiore era l'incasso.
Nel suo settore divenne un'artista: appiccava incendi alla moda, d'un certo spessore. I pompieri gli fornivano l'occorrente. La polizia si congratulava, poiché sapeva con quale passiva dedizione egli si cimentasse nel mestiere.
I dipendenti degli uffici lo attendevano gioiosi, scattanti all'idea di bruciare per mano dell'innovatore del dolo.
Albert li guardava prendere fuoco come fogli di carta, perdersi nella cenere, andare verso la morte, felici; ma era tornato all'inconscienza: non sapeva più di provare invidia, non sapeva più di provare dolore.
C'erano tantissimi uffici da bruciare, il lavoro non gli mancava, e sebbene non ne fosse consapevole, negli anni perse ogni speranza ma non perciò divenne un uomo disperato.

3
Altro / Immolarsi
« il: Febbraio 15, 2012, 22:47:09 »
Ricordo, ricordo un parco...
E forse era un sogno, perché il parco... bé, il parco era immenso, tetro, illuminato dai soffici raggi lunari. Faceva un bel fresco, di quelli notturni, di cui talvolta sembra quasi di potersi saziare.
C'era odore di libertà, ma anche un particolare tanfo di benzina. Lunghe ombre si stagliavano tristi, tra gli alberi rumorosi e le placide e inerti panchine di legno. Qualche foglia rotolava piano piano, come a non volersi far sentire, ma più era cauta, più...
E.. sì, sì, doveva essere un sogno. E del resto, perché mai non doveva esserlo? Chi si aggira a quell'ora di notte in un parco?
Di certo non io, e forse neppure coloro che mi circondavano.
Non ero difatti solo.
Disposte in cerchio con il sottoscritto c'erano almeno una cinquantina di persone. Gente casuale, di quella che si confonde facilmente nella folla, di cui non noti nulla perché non vuoi notare nulla. Buona parte si massaggiava di continuo il mento, con totale tranquillità e un espressione in viso che suggeriva pensieri profondi; come avessero voluto ostentare un qualche tipo di conoscenza superiore.
Di primo impatto mi piacque, di questi individui, l'assoluto silenzio. Purtroppo questo non era destinato a durare a lungo. Ben presto difatti capii dì essere partecipe a un piccolo spettacolo, credo una cosa di poco conto, ma comunque abbastanza importante per dare aria alla bocca di quei rispettabilissimi signori dal mento indurito.
Protagonista di questo intrattenimento era un giovane piantato come un palo proprio al centro del nostro assemblamento.
Da lui ci separavano una trentina di passi. Lo accerchievamo. Era quanto bastava a renderlo isolato. Indossava giacca e cravatta, un cappello a larghe falde (nella speranza di coprire un incipiente calvizie),  e aveva occhi irrequieti e ansiosi che sembravano schizzargli ora da una parte ora dall'altra, come alla ricerca di possibili pericoli.
"Che nessuno, che nessuno mi fermi," borbottò sin da quando ebbi coscienza di vederlo, e, mentre con una mano ben aperta in segno di stop, si teneva a distanza da noi curiosi, con l'altra si versava addosso del liquido scuro da una tanica marrone; la poggiò a terra dopo essersi imbevuto per benino.
"Perché, perché si vuole far del male?" chiese uno dei miei compari, e fu come se la domanda fosse stata posta anche da tutti gli altri in coro.
"Qui vorrei precisare," disse il giovane, "che non voglio farmi del male, bensì voglio darmi fuoco!"
"C'è una bella differenza!," aggiunse poi, e, mutato il volto nella più ferrea maschera di compunzione, si mise a cercare qualcosa nelle tasche. Muoveva solo le mani, freneticamente, e con gli occhi ci invitava a sfidarlo.
La puzza di benzina era un avvertimento piuttosto chiaro, eppure tra di noi qualcuno se la rideva, se pur sommessamente. Il giovane però non sembrò dar peso a quell'evidente scherno.
"Non cerco.. non voglio la vostra approvazione, né il vostro aiuto. Andate, andate via!" disse, continuando maldestramente a setacciarsi le tasche. Dovevano essere enormi, e quante cose contenevano! Con il passare del tempo vicino ai suoi piedi si vennero a creare montagnette di foglietti sbiaditi, scontrini fiscali accortocciati e non, tessere del videonoleggio, della libreria; insomma, di tutto fuorché un portafoglio.
"Ci dica almeno perché, ci racconti la sua storia," incalzarono nuovamente in due o tre. Ed erano decisamente i più preoccupati. I restanti sbadigliavano un po' risentiti. Si sentivano commenti poco gradevoli, bisbigliati con aria di complotto: "Ma quando si decide?" "Qui facciamo l'alba!" "Che delusione." "Tornerei a casa volentieri, mi aspettano degli ospiti domani e.." "Vedi tu che ha dimenticato.."
Notai che i più audaci offrivano loro stessi l'accendino al giovane. Ma questi rifiutava con sdegno.
"No, solo con il mio! Il mio! Dev'essere il mio! Cosa volete da me? Perché siete qui? Potreste, potreste non osservare?" diceva frugandosi ormai anche nei calzini a caccia del suo strumento fatale.
Poi alle continue e insistenti domande di chi voleva sapere, rispose che il suo non era un gesto di protesta, che non voleva rivendicare una vita difficile, una storia di povertà o maltrattamento, né tantomeno era disoccupato o in preda a chissà quale morbosa depressione. Semplicemente desiderava darsi fuoco.
"E perché ha scelto un luogo pubblico?"
"Saranno pur fatti miei!"
E detto ciò si dilungò nel spiegare che di certo non si aspettava che in un parco, alle quattro di notte passate, potessero esserci una tale quantità di appassionati curiosi e professionisti del sociale. Uno dei tanti detrattori del giovane suicida, un uomo sulla quarantina infagottato in un maglione a rombi rosa, sì obbligò a fare un passo, tremando come una foglia, e si sperticò in una ramanzina sconcertante.
"No, ma deve capire che essendo un luogo pubblico.. cioé.. disturba.. e.. poi, di quale utilità è? Sà, lo si dice per lei, se ne ricavasse qualcosa da questa scemenza.. magari.. Domani, assolutamente domani in centro città, a mezzogiorno, in piazza! Ho degli amici in comune, potremmo organizzare la cosa.. acquisterebbe una certa notorietà.."
In molti approvarono quel discorsetto. Il suicida mostrò il pugno all'uomo che aveva osato avvicinarsi.
"Scusi.. ma andare a casa sua a fare certe cose, no eh?" biascicò da qualche parte una voce femminile intrisa di vera indignazione.
Intercettai con la coda dell'occhio costei e, notai basito che tutta quell'indignazione non l'aiutava di certo a muovere un solo passo da qualche altra parte. Ma del resto non potevo giudicarla, io stesso non riuscivo ad andarmene.
Ero fulminato dalla curiosità. Anzi, non che io fossi realmente curioso, ma dentro di me ugualmente sentivo qualcosa di simile alla curiosità, una specie di richiamo affascinante, e per forza di cose, per quanto ne fossi inorridito, il mio corpo si rifiutava di assecondare il disgusto che provavo in quel momento verso me stesso. Ricordo che proprio allora ebbi la chiara visione di un incidente stradale, di corpi carbonizzati tra le lamiere, e nelle tasche forse, invece di un accendino, cercai una macchina fotografica.
Poi sputai per terra, contrariato.
Ah! Infame debolezza! Ancora poco e avrei aperto anch'io la bocca insieme a tutti quegli altri! Riuscivo solo a odiarmi, a odiarmi senza tregua.
Il giovane nel mentre aveva finalmente trovato il suo amato accendino, uno di quelli a benzina, costosi, ricaricabili, tutto tutto platinato. "Guarda.. guarda che accendino.." bofonchiò qualcuno, "No no, non è disoccupato."
Notai che il ragazzo avrebbe voluto seguire il consiglio della signora; era evidente che non se la sentiva più di darsi in pasto al suo pubblico, e, tentennante, indietreggiava a caccia di una via di fuga.
Ma ugualmente si guardava attorno sperduto, spaurito, con il terrore vivo come non mai negli occhi. Forse in quegli istanti pensava che qualche brav'uomo gli sarebbe saltato addosso per consegnarlo ad un istituto d'igiene mentale, alla polizia, o a qualche altra associazione benefica, a salvaguardia della vita umana e del prossimo, ma soprattutto dell'equilibrio e della serenità da cui dipende l'ordine pubblico. E i suoi timori avevano fondamento, poiché, del mio gruppo non ce n'era uno solo che, se pur mostrando un apparente disinteresse alla sorte del malcapitato, indietreggiasse o lo lasciasse libero di scappare.
Anzi, ora che l'uomo aveva trovato l'accendino, ecco che gli osservatori prendevano coraggio e di passettino in passettino lo stringevano sempre più in una morsa letale. Avrei voluto aiutarlo ma da solo non potevo fare la differenza, né tantomeno sentivo di possedere le capacità adatte a corrompere qualcuno dei miei compagni di sventure.
Di salvarlo dalle fiamme non né avevo alcuna intenzione: non erano fatti miei quel che voleva fare del suo corpo. E da sempre ricordo le parole di una canzone famosa, da me pienamente condivise:

"Io sono libero di morire quando lo desidero."

Sicché, ancora immobile nel mio rimescolio di pensieri contradditori e di rimorso cocente, venni spinto in avanti da due signori che mi tenevano stretto stretto per le ascelle.
Erano due bassi omini pelosi, con la coppola grigia e dai cui sguardi potevo chiaramente leggere: "Lo sappiamo, lo sappiamo cosa vorresti fare.."
"Lontani, lontani," gridava disperato il suicida, e ci minacciava vanamente con l'accendino proteso verso tutti quei volti a lui ostili.
Ma in cuor suo penso avesse timore di coinvolgere qualcuno nelle fiamme.
Quell'uomo aveva scelto uno spiazzo isolato del parco, forse per tramutarsi in cenere senza recare danno alcuno neppure agli alberi. Immaginai che avesse scelto questo luogo appunto per rimirare per un ultima volta quel poco di verde che aveva da offrire la città, lo spettacolo della luna, il fragile silenzio di quella notte stellata.
Ma erano solo supposizioni, non osai chiedere. Anzi, mi vergognai di quelle supposizioni!
La piccola cerchia avanzò lentamente d'un altro passo. Sembrava volessero, anzi, sembrava volessimo torturarlo piano piano, toglierli il respiro a poco a poco, sadicamente. In quell'istante dalla disperazione dei suoi occhi capì che aveva compreso: ormai non si sarebbe potuto più togliere la vita neppure di fronte a noi! Il rischio di un incidente era troppo elevato, o al primo tentativo qualche onesto cittadino (poiché ce n'è sempre qualcuno) si sarebbe scagliato verso la sua mano tentando di portargli via l'accendino. "Perché? Cosa volete?" mormorava tra sé e sé, come un disco rotto.
Era incredibile come nel mio gruppo tutti fossero compatti nell'accerchiarlo nonostante il vociare indicasse sempre i differenti propositi. C'era sempre chi si augurava che facesse in fretta, altri che volevano salvarlo, chi ancora consigliava di rimandare la cosa all'indomani per un successo garantito di pubblico, etc...
Ma ora tutte queste cose le bisbigliavano sommessamente, in un brusio continuo, con gli occhi luccicanti di un piacere vibrante e sconosciuto.
Pure io mi sentii gli occhi bagnati, ma, con mio stupore, non ebbi la debolezza di pensare a delle lacrime. Anche la mia era sordida eccitazione, e non potevo evitarla; mi ero come sdoppiato: la voce della mia coscienza, di un altro me, risuonava dalle profondità di un lungo e buio cunicolo, infliggendomi terribili tormenti.
Ma erano utili solo a sentirmi umano. In un flash vidi ancora macchine contorte, corpi carbonizzati, impietose sirene di ambulanze... e nella mia testa già si andava formando una volontà superiore, un piano ben preciso, per sfuggire a quell'orribile supplizio. Dovevo solo tentare la fortuna, solo tentare la fortuna, solo tentare la fortuna... e... con un colpo veloce mi liberai dei miei aguzzini, e sgusciai veloce verso la nostra vittima. Di primo impatto lui rimise in tasca l'accendino, parandosi il volto con le mani, ma io mi ero già apprestato alla sua tanica, rovesciandola speranzoso sulla mia testa.
Tirai un sospiro di sollievo scoprendo che avevo avuto fortuna: c'era ancora abbastanza benzina anche per me. Guardando i miei ex compagni con occhio di sfida gridai:
"Mi darò fuoco! Ma con un accendino a vostra scelta! Tirate a sorte!"
Io sì, io volevo attenzione. E quella variante, se pur banale, colpì nel segno l'uomo alla costante ricerca di una novità.
La piccola folla ammutolì di colpo, si fermò come una combricola da cui sprizza quel tanto di vita che si può vedere in un gruppo di morti viventi disorientati. Notai felicemente che alcuni di loro già tornavano a lisciarsi il mento, e indietreggiavano osservandomi incuriositi.
Altri ancora si stropicciavano le mani. Ero il nuovo fenomeno del momento, assai più interessante di quello vecchio, poiché avevo sicuramente motivazioni differenti dalle sue, da studiare, da capire, da contestare, in profondità, in tutte le direzioni, bramosamente, fino a rosicchiarne le ossicina. E poi, accipicchia, si poteva tirare a sorte e scegliere l'accendino!
Il ragazzo suicida mi guardò con occhi letteralmente fuori dalle orbite, forse voleva chiedermi perché, perché lo avessi fatto, ma suppongo non ne avesse il coraggio, e così supposi un altra volta, e un altra volta nella mia supposizione risposi:
"Io sono libero di morire quando lo desidero."
Forse la mia ipotesi era corretta, perché lui sorrise, mi strinse la mano, e un attimo dopo già correva lontano, ormai dimenticato dalla folla che adesso aveva occhi solo per me.
Un minuto dopo vidi in lontananza un piccolo fuoco che avvampava frenetico; che danzava libero nell'oscurità di una notte dove la luna era già sepolta da fitte nubi. Alle narici mi arrivava un tenue odore di carne bruciata.
"Allora," dissi a quelle carcasse, "Chi tira per primo a sorte?"
Ma quelli neppure mi risposero, e da subito compresi a cos'ero destinato.
Il primo chiese:
"Perché, perché si vuole dare fuoco?"
Oh, c'era stata quindi un'evoluzione!
Ma non mi interessava seguirne il seguito, e quindi mi accinsi a rompere a mia volta le regole del gioco: estrassi il mio accendino finché avevo tempo a disposizione. Osservai la lunga fiamma, mentre quelli già avanzano borbottando le solite frasi sconnesse.
Pensai: "Per quale motivo dovrei farlo? In fondo non mi sono già immolato?"
E difatti suppongo che un motivo non c'era... eppure quel fuoco, maledizione, quel fuoco era così invitante...
Ma ripensandoci bene... forse... forse, sì, forse era stato solo un sogno.

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Altro / La fossa
« il: Gennaio 05, 2012, 17:04:11 »
Falth passeggiava tranquillo quando d'un tratto la terra gli crollò sotto i piedi. Non fece in tempo a reagire, subì la caduta passivamente, come un infarto, e perse i sensi.
Poi si svegliò sdraiato supino in una grande buca. Aveva abiti e capelli pieni di polvere ma, per sua fortuna, sembrava non aver riportato nessuna ferita. Sentiva solo un po' di indolenzimento al collo e un fastidioso prurito agli occhi. Sopra di lui il cielo sembrava l'unica via di fuga e un rumore indefinito, come di macchinari in funzione, comprimeva l'aria ronzando tutt'intorno. Di secondo in secondo cresceva d'intensità. Falth pensò d'essere all'inferno, ma ben presto si dovette ricredere, poiché due operai si affacciarono dall'alto osservandolo incuriositi. Indossavano larghe camicie a quadri e scintillanti elmetti di protezione. Sulle prime non dissero nulla, poi con un tono contrito, come controvoglia, sputacchiarono qualche parola.
"Ci sono dei lavori in corso." disse uno.
"Dovrebbe fare più attenzione." aggiunse l'altro.
"Non erano segnalati." rispose Falth
Nel mentre si era alzato e, a piccoli passi, misurava larghezza e profondità della sua prigione. Le pareti, un misto di terriccio e sporgenze di pietra, erano alte il doppio dell'uomo. Non sarebbe riuscito a uscirne senza aiuto.
Purtroppo i due operai non sembravano minimamente interessati alla presunta gravità della situazione; sostavano da quelle parti, come fossero di passaggio e nulla più. La loro morbosa curiosità ricordava vagamente quella dello spettatore tra le gabbie dello zoo. Si erano accesi una sigaretta e scandivano il tempo con le grosse scarpe antinfortunistiche, ben attenti a non scivolare di sotto.
Falth volle sollecitarli. Prese un po' di terriccio e glielo lanciò verso gli occhi.
"Allora? Cosa fate là impalati? Volete darmi una mano?" chiese con stizza.
"Dovrebbe fare più attenzione." ripeterono i due, poi, lanciati a terra i mozziconi, si voltarono sparendo a passo svelto.
Falth li sentì persino correre. Pensò che fossero andati a cercare aiuto: in fondo da soli non potevano fare granché. Il loro atteggiamento non faceva ben sperare, ma Falth riponeva fiducia un po' in chiunque; quando la situazione lo richiedeva egli era capace di mettersi completamente nelle mani del prossimo. Del resto la sola idea di arrampicarsi lo metteva in soggezione. Aveva provato a sfiorare una delle pareti e la sensazione era stata di sconforto totale, come se anche solo poggiandovi una mano potesse provocare un altro crollo.
Con suo gran sollievo gli operai apparvero nuovamente sul bordo della fossa. Tra le mani callose tenevano due grosse pale di ferro.
"Le vede queste?" chiesero a Falth, e agitarono gli arnesi al vento come fossero soddisfatti di possederli. Falth fece per rispondere ma ancor prima che aprisse bocca i due lo inondarono di terriccio bagnato. Palata dopo palata, veloci e solerti, sembravano più che intenzionati a seppellirlo vivo nella fossa.
Falth di primo impatto si coprì il viso, tentò di chiamare aiuto ma ogni parola gli rimaneva incastrata nella cassa toracica. La terra non gli arrivava ancora al ginocchio quando cominciò a irrigidirsi a causa del panico. Sentiva le cavità nasali otturate, gli occhi ormai prossimi a spegnersi, misurava ogni battito convulso del cuore, e un folle desiderio di morire al più presto gli martellava ferocemente nelle tempie.
La paura era tale che subentrò uno stato simile all'incoscienza. Lo seppellirono senza patemi. Fu come un istante. Dal giorno alla notte in un solo momento.
Con suo grande terrore si risvegliò, aprì gli occhi e ovunque non c'era altro che il vuoto di un'avvilente oscurità. Riusciva a pensare e non gli piaceva proprio per niente: se pensava allora non era morto, se sentiva qualcosa allora non era morto: e se invece fosse stato quello il destino dell'uomo dopo la vita terrena? Condannato ad ascoltare per l'eternità; immobile, eppure in movimento; in pace, eppure senza riposo.
Poi d'un tratto si sentì come sbalzato, lanciato velocemente dentro e fuori quell'impalpabile buio, e lo scenario cambiò ai suoi occhi in un secondo.
Una distesa di sabbia nera si spandeva uniformemente, senza confini, fin dove Falth poteva vedere. Qua e là spuntavano sterpaglie bruciate, tronchi di alberi spogli e numerosi cumuli di grosse pietre bianche. Il cielo era di un pallore cadaverico, come appiccicoso, colmo di nubi sottili. Nell'aria vibrava un ronzio insopportabile.
Superato il primo momento di perplessità e inquietudine, Falth tentò di muoversi per cercare risposte, per sfuggire a quell'abberrazione. Ma fare anche un solo passo gli risultò impossibile. Guardando verso il basso si accorse di non avere più i piedi; e non solo: in lui non c'era nulla di umano. Era diventato di pietra. Era diventato un muro di pietra. Poteva solo osservare, passivo e imperturbabile. Avrebbe voluto sradicarsi dal suolo, ma un inaspettato istinto di conservazione gli suggerì che quella mossa avrebbe solo peggiorato le cose. Sentiva che quella strana sabbia gli forniva un qualche tipo di nutrimento, una fonte di vita a cui attingere.
Un bambino tozzo, dai capelli castani, gli apparve di fronte come un sontuoso miraggio. Due lunghi incisivi gli spuntavano dalle labbra rendendolo in tutto e per tutto un castoro. Con un gesto rapido si abbassò i pantaloni urinando sopra quello che un tempo era stato un uomo.
Falth non sentì né il minimo ribrezzo, né il minimo calore: sentimenti, reazioni umane, sensazioni, erano svaniti lasciando spazio ad un estasiante bisogno inconfessabile di subire, subire e ancora subire. Pian piano apparvero altri bambini e il muro divenne loro compagno di giochi. Alcuni ci disegnavano sopra, altri lo prendevano a calci; c'era chi semplicemente mostrava il posteriore o si sprecava in insulti.
"Ancora! Ancora", pensava il muro, "Resisto! Resisto! Non potete farmi niente! Non potete farmi niente! Sono indistruttibile!"
Avrebbe riso se ai muri fosse concesso di ridere. Ben presto Falth capì che più angherie sopportava, più cresceva rafforzandosi e allungandosi a piacimento. Era quello l'obiettivo della sua nuova natura: dimostrare. Mentiva a sé stesso, fingeva una soddisfazione propria degli uomini, mentre superava in altezza altri muri che di minuto in minuto sbucavano lentamente da quel suolo malato. Di centimetro in centimetro, approdando su nuovi piani, Falth affrontava passivamente nuove difficoltà; era ormai in ascesa, oltre il cielo, e udiva chiaramente voci sconosciute, di incoraggiamento, tese ad elogiare la sua foggia, il suo valore di resistenza. Gigantesche mani apparivano e applaudivano tutt'intorno a lui, in cerchio, come una giostra di immagini veloci e sfocate; lo incitavano, lo incitavano a continuare.
"Resisto! Cresco, cresco e resisto! Nulla mi può scalfire! Nulla!"
Poi d'improvviso tutto svanì, Falth si sentì scrollare da parte a parte, scosso all'interno, strappato dalla sua nuova vita. Era sul bordo di una grande buca, profonda almeno una dozzina di metri, e due operai lo scuotevano al pari di un vecchio straccio. "Cosa dici? Cosa ti deve scalfire?" lo apostrofò uno dei due schiaffeggiandolo.
Falth lo ignorò, intontito, come un perfetto ebete. Non rispose nulla né azzardò una qualche reazione. I due operai continuavano a parlargli, a cercare di capire in che condizioni versasse, lo esortavano a dire il suo nome.
Falth non poteva sentirli. Una cacofonia devastante gli assediava il cervello.
Nella zona la manovalanza effettuava scavi a casaccio, senza utilità alcuna, trivellando il terreno con veri e propri eserciti di martelli pneumatici. Non si contavano le bocche spalancate in grida silenziose, i pugni tesi minacciosamente ad aumentare il ritmo lavorativo; alte impalcature d'acciaio, intrecciate tra loro in un labirinto senza fine, serpeggiavano brulicando di migliaia di operai. Il clangore metallico degli attrezzi da lavoro risuonava cupo, simile a un eco infernale. Al centro del cantiere, conficcate a X, svettavano sopra ogni cosa due monolitiche colonne di un viscido metallo nero. Talvolta dalla struttura scaturivano spessi strati di pulviscolo e lunghi getti di vapore. In cima, tenuta in sospeso da due lunghe catene, vi era collegata una gigantesca gabbia di ferro. Al suo interno Falth notò un uomo in età avanzata, magro e sottile, con il volto scarno e il corpo nudo coperto a malapena da lunghi e luridi stracci.
Falth prese a osservarlo, in un ipnosi a metà tra estasi e delirio. "Chi sei? Chi sei?" balbettava.
Il vecchio parve quasi sentirlo, poiché si aggrappò  alle sbarre e contorse il volto in un urlo disumano.
Vedendolo in quello stato, Falth tremò in tutto il corpo, si staccò a passo svelto dagli operai e, gridato qualcosa di incomprensibile, si gettò nuovamente tra le braccia della fossa.
Fu come un istante. Dal giorno alla notte in un solo momento.



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Horror / Sull'autobus - terza e ultima parte
« il: Novembre 15, 2011, 11:30:47 »
Il Controllore mise una mano nel taschino della divisa, e ne estrasse un lucidissimo fischietto nero. Lo utilizzò a lungo, diffondendo nell'aria qualcosa di simile al richiamo di un corno da guerra. Subito sull'autobus affluirono altri uomini con la sua stessa divisa e il suo stesso aspetto, come una mandria di bufali inferociti. Erano talmente tanti, affluivano in numero così crescente, che l'ossigeno cominciava a scarseggiare. I passeggeri volevano scappare ma le miriadi di Aiutanti li tenevano inchiodati ai loro posti con le famose bacchette di ferro. A turno cominciarono a sbatterle ovunque, su tutte le superfici, creando una cacofonia inarrestabile.
"Ecco, ecco cos'ha portato qui. Le sto mostrando la conseguenza delle sue azioni. Osservi, osservi," diceva il Controllore, estasiato in tutto lo spirito dalle gesta dei suoi amici di merende. Un paio tra gli Aiutanti si avvicinarono ai seggiolini riservati agli invalidi, li sradicarono di netto e poi li lanciarono fuori dai finestrini. A bastonate distrussero la macchinetta dei biglietti, gli anelli per appendersi durante il tragitto, scioglievano i poggiamani con grandi fiamme ossidriche scaturite direttamente dalle loro stesse bocche.  I passeggeri sussultavano in tutto il corpo, immobili eppure contorcendosi ugualmente nelle viscere, con occhi allentati dalla pressione del terrore. Volevano dormire, volevano solo dormire, dormire senza risveglio. Il terribile clangore metallico continuava a diffondersi nell'aria come l'immutevole rumore della catena di montaggio.
"E' lei, è lei il colpevole! La causa di tutto questo!" urlava il Controllore dritto in faccia a William Charpanvam, "Vi sarà tolto tutto, vi sarà tolto tutto! E adesso vediamo di rimettere in funzione questa vecchia carcassa di un'autobus, venga con me, venga con me."
Prese William in consegna e nuovamente lo trascinò fino alla cabina del Conducente. "Vattene fuori dai piedi", urlò a quest'ultimo e se ne liberò con un calcio.
Uno dei due principali Aiutanti si avvicinò al suo maestro, tentando di calmarlo con un abbraccio affettuoso. Sul viso gli si leggeva una profonda preoccupazione. "Lei è un Controllore, e sta perdendo il controllo, stia attento, sta perdendo il controllo e lei è un Controllore, stia.." Ma quell'altro lo allontanò con uno schiaffio ben mirato, gridando come un ossesso.
"Finiscila, Il Signor William Charpanvam ha bisogno di una lezione, ha bisogno di una fottuta lezione."
"Ma.. ma.. ma lo ha già arrestato, non le basta? Portiamolo via, comincio ad avere.."
Il Controllore neppure lo ascoltò, prese William per la collottola e di peso lo mise al posto del Conducente. Gli tolse le manette strattonandolo senza riguardo. Charpanvam era tornato a tremare, a tacere, non tanto per sé, quanto per gli altri; sentiva i passeggeri urlare di disperazione dietro le sue spalle, ed ognuna di quelle voci si infiltrava nel suo corpo come una colla umidiccia e pesante.

"E' colpa.. e' colpa dell'umidità..."

"Ora metti in moto, sbrigati, voglio vedere come sai guidare." disse il Controllore a William, e messa mano ad un altra tasca della divisa ne estrasse una pistola d'ordinanza. Con il braccio fermo la puntò alla testa di William. "Metti in moto, metti subito in moto, hai voluto la libertà di lamentarti, ebbene, adesso la sconterai, la sconterai fino all'ultima goccia."
Alla vista della pistola William si pisciò letteralmente nei pantaloni. Tornò a balbettare. "M-m-ma.. io.. ecco.. ecco.. non credo di poterlo fare.. non so.. non ho neppure la patente B... La prego.. la prr-r-rego Signor Controll.."
"Ma sentitelo questo cretinotto," ridacchiò il Controllore ormai fuori controllo. I suoi stessi Aiutanti lo guardavano allibito. Nessuno di loro si promuoveva più in azioni di terrorismo gratuito. Con la bocca spalancata dallo stupore, passeggeri e Aiutanti seguivano la scena in trepida attesa di una conclusione. La tensione sfrecciava nell'aria come un fitto stormo d'uccelli chiassosi.
"Vedi di mettere in moto, o ti sparo, qui, adesso, in questo preciso istante. Neppure io ero un Controllore un tempo, lo sono dovuto diventare, ho dovuto imparare, adeguarmi al mio ruolo, non mi piace quello che faccio ma lo faccio al meglio, ed è proprio per questo che siamo qui, per assimilare, divorare il nostro ruolo e professionalizzarci. Per tanto accetta il tuo nuovo ruolo, sii Conducente, e metti in moto."
William non se lo fece ripetere due volte e diede sfogo all'autobus mettendo piede all'acceleratore. Il mezzo da prima avanzò piano piano, sicuro, poi, sotto il controllo inefficace del suo Conducente, cominciò a sbandare di lato in lato, minacciando di sfracellarsi di qua e poi di là. Finì per andare contromano evitando solo per miracolo il contatto con altre vetture. William non riusciva a dominare il bestione di metallo, girava il volante a sinistra e si ritrovava ad andare a destra, la frizione semplicemente pareva non esistere, il freno rispondeva solo a tratti. Tutto gli era sconosciuto e misterioso come la prima volta sotto le coperte bagnate di sudore.
Il Controllore notava la sua difficoltà e rideva di gioia. Morire non gli importava. Avrebbe portato tutti all'inferno piuttosto che togliere quell'incompetente dal posto di guida.
"Allora?" ripeteva inebriato di piacere, "Ti piace? Ti piace la tua libertà? E' facile guidare? Ora non fai lo spaccone vero? Ora non ti lamenti? Eppure ti schifava la mia guida, ne sono certo, potevo sentire il tuo odio e il tuo disprezzo a chilometri di distanza per il mio atteggiamento al volante. Ma nonostante quello che vedi con gli occhi, ebbene, senza conoscere la difficoltà, non puoi mettere bocca sul lavoro altrui. Non hai idea dello stress, della diffamazione e dell'umiliazione continua, ed è solo colpa tua, solo colpa tua se adesso io sono Un Controllore!"
William lo ascoltava senza parole, sudando in ogni centimetro della pelle, braccato da quella verità incontestabile. Allora non si era sbagliato! Il Controllore era stato un Conducente! E forse come lui, prima d'essere un Conducente era stato anche un passeggero!
"N-n-on volevo... n-n-non volevo.." disse balbettando. L'autobus era ormai fuori controllo, i passeggeri lanciavano grida disumane lasciandosi trasportare dal moto del mezzo, sbattuti come biglie da ogni parte.
"La prego.. riprenda il controllo.. riprenda il controllo del mezzo.. siamo tutti uguali, tutti uguali di fronte alla morte.. nessun Conducente, nessun controll.."
"Ti sbagli, ti sbagli di grosso ragazzo." gli urlò il Controllore tenendo il dito tremante sul grilletto, pronto a sparare più che mai.
"Non parlare di uguaglianza, non parlare di giustizia, non parlare, non parlare e basta, guida, guida, guida!"
William aveva perso la speranza, non sarebbe riuscito a convincerlo. Era il disastro ad aspettarlo, ad aspettare tutti quanti. E la colpa era solo sua. La colpa era stata la sua. Lui che voleva cambiare le cose, per gretto egoismo voleva cambiarle, vedere tutto di un colore invece che di un altro. Impuntarsi su delle sciocchezze gli era costato caro; la colpa era stata esclusivamente sua. Un alone di depressione gli permeava il corpo come un pesante sudario. Anche se si fosse sacrificato lasciandosi uccidere, nessuno gli avrebbe potuto raccontare il finale, nessuno gli avrebbe potuto assicurare che gli altri si sarebbero salvati. Poi sentì qualcosa arrampicarglisi dai piedi fino alla gamba, ed una voce sussurrargli:
"Non arrenderti, non arrenderti."
William si distrasse solo un attimo dalla strada e abbassando lo sguardo incrociò quello di una piccola pera verde, dal gambetto vivace. La piccoletta stava sulla sua gamba e lo guardava con occhi pieni di fiducia, infusi di una fede impossibile da non abbracciare.
"Io credo che tu possa farcela," gli disse con voce soave la pera, "tu puoi fare di tutto, accetta il rischio, vai oltre il dubbio, sei in un territorio nuovo, lo so, ma puoi riuscire, puoi riuscire. Liberati dalla paura. E' la paura. E' la paura," continuava la pera, "E' la paura che ti incatena, che ti serpeggia nel corpo, che ti stupra da dentro divorandoti l'anima. Tu sei immobile nella pancia della paura. Nulla è una sciocchezza, prendi posizione quando necessario! Combatti, e non combatti da solo, perché siamo in tanti, siamo in tanti," e a queste ultime parole salì sul volante fissando dritta negli occhi William. Poi alzò la voce a tal punto da sentirla rimbombare ovunque come un monito, il timbro era baritonale; scandiva le seguenti parole a ripetizione, come un incitamento alla resistenza:

"Mostrate Chi siamo
Mostrate Quanti siamo
Che assaggino il fuoco dell'incoscienza,"

Da subito il motto si propagò tra le bocche degli altri passeggeri. William fu il primo a ripeterlo, ad urlarlo fino allo sfinimento, e ora, sì, ora qualcosa stava cambiando. lo urlava e sorrideva, lo urlava e sorrideva. L'autobus cominciava ad assestarsi sulla strada, ma non era ancora abbastanza. La guida di William non era ancora perfetta, ancora non aveva tutti i pezzi del puzzle. Da dietro tutti i passeggeri prendevano di mano le bacchette agli Aiutanti, e adesso erano loro a sbatterle con forza ovunque. Se pur feriti, se pur impauriti, o striscianti al suolo, prendevano coraggio intonando quel coro di rivolta, di speranza. Era come il battito di un cuore feroce, destinato a non spegnersi mai nell'eternità. Avanzava galoppando a ritmo scatenato, travolgendo le orecchie del Controllore e degli Aiutanti tutti, lasciandoli instupiditi come tanti piccoli manichini di legno.

"Mostrate Chi siamo
Mostrate Quanti siamo
Che assaggino il fuoco dell'incoscienza,"
"Mostrate Chi siamo
Mostrate Quanti siamo
Che assaggino il fuoco dell'incoscienza,"

William Charpanvam scattò in una risata interminabile, senza senso, rumorosa abbastanza da soffocare tutto il resto. Ora, ridendo, teneva le mani salde sul volante e guidava sapendo sempre quello che faceva. Inseriva le marce con rapidità, e tutto gli era così abituale, così facile e comprensibile. Ben presto tutta la confusione cessò, fu silenzio; il mezzo andava cauto nel traffico cittadino. William era divenuto un Conducente. Ma tra i passeggeri non ci furono scrosci d'applausi, o regali destinati a lui: ben presto in due o tre cominciarono a reclamare sul sistema di ventilazione. William era costretto a sorbirsi tutte le loro problematiche. Il Controllore era perplesso, affascinato da una simile trasformazione. Già da un pezzo aveva abbassato la pistola. Era sconfitto. Annichilito. La vita si era spenta nei suoi occhi di marmo, presagio di quel che stava per avvenire.
Un Aiutante, Elbert, quello più anziano, gli si avvicinò e lo abbattè con un colpo di pistola alla tempia.

"Lei è dismesso dal suo incarico."

Schizzi di sangue volarono su William e sulla pera. Quest'ultima disse: "C'è sempre qualche conseguenza."
William osservava tristemente la scena. L'Aiutante che ora era divenuto Controllore gli tese la mano e disse con voce sibillina: "Ora lei è il nuovo Conducente. Mi congratulo. E' arrivato puntualmente a lavoro, come ci aspettevamo da tempo. Sono sicuro che andremo d'accordo. Posso invitarla a cena questa sera? La mia famigl.."
Ma William lo bloccò subito scuotendo la mano. No, quella sera non avrebbe potuto, e forse neppure quelle successive. Aveva un autobus da guidare.
E non solo quella sera, a lungo guidò l'autobus, a lungo si destreggiò tra le strade di quella vorticosa città dall'aria malata, come un baluardo incontrastato della sicurezza dei passeggeri. I primi tempi la pera lo seguì nelle sue vicissitudini, sempre, costantemente, gli dava apporto e sostegno. Poi un giorno la cara amica prese a vedersi sempre più di rado sull'autobus, scomparve quasi; i due si incontravano solo ed esclusivamente al di fuori del turno lavorativo, per passare una serata in allegra compagnia e nulla più. William si sfogava con lei, parlandole di tutti i problemi relativi a quel mezzo complesso che è l'autobus. La pera ascoltatava attentamente, buttando in corpo due o tre bicchierini di prosecco.
Di tanto in tanto, qualche passeggero, che conosceva a memoria la leggenda della pera, si accostava alla cabina del Conducente e gli chiedeva:
"Che tipo è? Che tipo è questa pera?"
William tendeva a non rispondere, o tutt al più formulava cose scontate e banali. Ma nella sua testa, all'immagine dell'amica dalla fede incrollabile, associava sempre un unico, dolce pensiero:

"Attraverso i suoi occhi il mondo è venuto a stanarmi
e adesso si aspetta che io mi inchini alla vita,"

6
Horror / Sull'autobus - seconda parte
« il: Novembre 15, 2011, 11:24:05 »
Ma ben diverso fu l'atteggiamento dell'ex Conducente. Si accostò infine a William e squadrandolo serio disse: "Il biglietto prego."
"Mi dispiace," disse subito William veloce, balbettando e incastrando le parole l'una nell'altra.
"Ecco io, vede, le spiego, anzi, ma l-le-lei dovrebbe già sapere-re, tutto, no?"
"Ho capito, ho capito," disse il Controllore agitando una mano come stesse trattando una sciocchezza di poco conto. E chiamò a se gli Aiutanti. Questi si disposero al suo fianco, le braccia conserte. Ora usavano le sbarre di ferro sui poggiamani accanto alle orecchie di William. Se questo provava a tapparsi le orecchie, ecco che prontamente gli arrivava una bastonata sulla mano libertina.
"Dunque, ricapitoliamo, lei non ha il biglietto, vero? Lo immaginavo. Già da prima la stavo osservando. Lei ha il tipico atteggiamento di chi trasgredisce le regole. Ingrassa e impigrisce bollendo a fuoco lento nella nostra amata società."
"No, no, no", disse William agitando le mani nonostante le bastonate. Ora la paura lo faceva parlare alla svelta, ma tutto sommato comprensibilmente. "Io, deve sapere che prima, quando lei era un Conducente, e non un Controllore, io le ho spiegato che la macchinetta non funziona e che, ecco, mi hanno rubato il portafoglio, perché sà, io ho l'abbonamento annuale, e così.."
Il Controllore scosse la testa. "La finisca con queste scuse. La macchinetta oggi è fuori servizio, come sta indicato sul cartello affisso all'entrata dell'autobus" detto questo indicò un punto tra le porte all'entrata. William allungò il collo in quella direzione ma non vide nessun tipo di segnaletica atta ad avvisare del disservizio. "Non c'è nulla, lì" disse William facendo spallucce.
"Non mi prenda in giro. Elbert," disse il Controllore rivolgendosi a uno degli Aiutanti.
"Controlla sulle porte d'ingresso. C'è qualcosa, lì?"
Elbert annuì vivace con il suo testone. "Sì, sì, c'è qualcosa."
"Vede? C'è qualcosa, lì, a quanto pare."
"Ma non è assolutamente vero", sbottò William che cominciava a scaldarsi.
"Elbert, te lo chiedo di nuovo, c'è qualcosa lì?" ridacchiò il Controllore.
Ed Elbert sempre annuì, con rinnovato vigore e un sorriso di plastica.
"Ottimo. Quindi, ricapitoliamo: scuse a parte, rimane il fatto certo e inconfutabile che lei non possiede nessun regolare titolo di viaggio."
"Ma mi hanno rubato il portafoglio!" si lasciò scappare William; urlava e si agitava sul suo seggiolino che a fatica lo teneva sospeso nell'aria. Cigolava paurosamente.
"Questo lo afferma lei. Lo ha fatto presente all'autista?"
"Ma era lei l'autista, fino a qualche secondo fa!"
"Ancora con questa storia? Crede forse che un agente pubblico come il sottoscritto possa essere preso per i fondelli tanto facilmente? Non ho mai svolto la mansione di Conducente, tantomeno per una compagnia di mezzi di trasporto."
Il Controllore prese violentemente per un braccio William e, trascinandolo tra gli sguardi divertiti dei passeggeri, lo portò verso la cabina di guida.
"Eccolo qui, il suo Conducente. Le sembro forse io?"
Nella cabina c'era effettivamente un Conducente, ed era uguale e identico al Controllore; cambiava solo la divisa, ma i lineamenti del viso, persino la corporatura, denotavano una somiglianza inverosimile.
William annuì con la testa. "Sì, è proprio lei.. cioé... non so.. siete due.. ma .. beh, siete Voi, siete Lei, non so come spiegarmelo.."
Ma il Controllore già lo riportava al suo posto, lasciandocelo cadere di peso. Poi mise un dito sotto il mento, come nell'atto di pensare attentamente.
"Bisognerebbe ricordarsi sempre di fare il biglietto." disse infine, e già stava compilando un moduletto giallo.
"Ma io non me ne sono scordato" brontolò William, e con una mano afferrò il braccio del Controllore. "Perché, perché, non mi ascolta quando parlo?"
"La sto ascoltando" sbuffò lui controvoglia. Poi si scrollò di dosso William.
"Sto compilando il verbale. Devo aggiungere anche aggressione a pubblico ufficiale?"
Dietro, al di sopra d'una delle sue spalle, sbucava la testa della signora dalla gonna violacea. Immobile osservava di fronte a sé, e, senza muover nemmeno le labbra, imitava alla perfezione la voce di William:
"I-i-o non ho scordato di fare il biglietto, è solo che.. mi hanno derubato.. e questo.. sì, questo già gliel'ho detto.. e quindi.."
"Scuse e ancora scuse, e di nuovo scuse," si diede poi a inveire verso il Controllore. Gli sputava nelle orecchie.
"Signora, mi faccia fare il mio lavoro", fece lui. Con calma assoluta continuava a compilare il suo moduletto, ogni tanto si fermava, guardando in alto come imbambolato.
"Ecco, una firmetta qui." disse a lavoro ultimato. Agitava in faccia a William il foglio giallo, la penna puntata verso il suo occhio.
"Cosa, cosa sarebbe?"
"Una multa, che domande."
Ma nonostante William avesse il foglio a neanche un centimetro dagli occhi, tutto ciò che poteva distinguere non erano altro che scarabocchi insensati. Di leggibile c'era solo lo spazio dedicato alla sua firma. Sopra la linea tratteggiata c'era persino il suo nome stampato a grandi lettere.

"WILLIAM Charpanvam"

"Non capisco, non capisco." disse William.
"Cosa non capisce? La faccia finita una buona volta. Io gestisco solo fatti concreti. E per tanto, al momento, allo stato delle cose attuali, è evidente che lei è a bordo del mezzo senza regolare titolo di viaggio. Lei ha parlato di un furto, ma il Conducente sembra non saperne nulla, anzi, lei sostiene persino che fossi io il Conducente. Fosse in mio potere la farei visitare d'urgenza da uno psichiatra. Ora mi faccia il piacere, metta una firma qui, si rassegni a pagare la multa, così posso darle la ricevuta e proseguire il mio lavoro."
Ma William non voleva saperne. Nel suo cervello non c'era spazio per un'idea del genere. Una multa? E per quale motivo? Lui aveva l'abbonamento annuale, lo aveva! e lo aveva smarrito insieme al suo portafoglio, lo aveva regolarmente acquistato, lo aveva di diritto, lo aveva in ogni caso.
Stava perdendo la ragione.
Stava perdendo la ragione.
Di nuovo spiegò queste cose al Controllore e quello per tutta risposta lo ignorava, stringendo adesso la mano ai suoi due Aiutanti. I due ricambiavano con gioia.
Poi di colpo si girò verso William, sventolandogli il misterioso bigliettino giallo.
"Vedo che non ha ancora firmato" disse, poi gli Aiutanti lo presero da parte bisbigliandoli qualcosa nell'orecchio.
William avrebbe voluto cogliere l'occasione, fuggire senza pensarci due volte, ma la signora dalla gonna viola lo teneva fermo al suo posto, stringendogli le braccia fino a fargli male. "Lei, schifoso trasgressore. Nullafacente a tempo pieno. Ridicolo buffone" ripeteva senza tregua, guardandolo con aria schifata.
William, rosso in volto, la sopportava digrignando i denti, senza opporre la minima resistenza.
Gli mancava la forza necessaria a pensare, la testa gli si era svuotata come un pallone sgonfio, irrecuperabile; e in tutto il corpo percepiva una presenza estranea che avrebbe voluto strapparsi via a morsi, vomitare dall'altezza di un grattacielo, tra urla senza fine.
Una luce abbagliante cominciò ad accecarlo pian piano, nel cervello gli crebbe, come un tumore, una fitta simile a un segnale acustico insopportabile, e.. e.. vide, vide qualcosa di strano, come un immagine nitida sullo schermo di un televisore.
Si sentiva imprigionato in quella visione.

"C'è Un ragazzo in mezzo alla gente.
Cammina piano.
Si fa largo tra torme di gambe paralizzate, di facce sfocate.
Trasporta una cesta di frutta.
Sorride.
Sorride.
Sorride ma ha paura.
Indossa una camica ben abbottonata fino al colletto bianco.
Cammina piano.
Cammina piano.
Cammina piano ma ha paura.
Trasporta una cesta di frutta.
Dentro la cesta dozzine di pere lo guardano divertite.
Si ferma.
Si ferma e tutti si fermano attorno a lui.
Si fermano e lo guardano.
Lo guardano.
Lascia cadere la cesta.
Le pere rotolano ovunque veloci.
E lui le smaciulla ad una a una, le schiaccia.
Le schiaccia con l'incoscienza negli occhi.
Le schiaccia ridendo.
Ridendo.
La sua bocca riempe ogni cosa.
Si espande come un buco nero.
Ridendo.
Ridendo.
Il mondo si svuota d'ogni colore.
Nel nulla appare una pera luminescente.
E' fuggita e sorride.
E' fuggita e sorride.
Sorride."

William era di nuovo sull'autobus.
Era in piedi.
Si guardava le mani piene di sangue. Due manette gli luccicavano ai polsi. Su entrambi i fianchi era tenuto fermo dagli Aiutanti immobili, con la testa china.
Distesa a terra c'era una donna dalla gonna viola. Aveva il volto tumefatto, i vestiti strappati in più punti, e dalla bocca le usciva un filo di bava. A fatica si reggeva su un braccio, guardando William con il terrore marchiato a fuoco sul volto stanco.
"E' colpa, è colpa dell'umidità, l'umidità, mi dica che tutto va bene, mi dica che tutto va bene" borbottava tra i singhiozzi. Il Controllore le si avvicinò sollevandole la testa con la mano stretta ai lunghi capelli biondi. "Guarda, guarda cos'hai fatto," disse a William scrollando quella maschera di lividi e sangue. "Io, io, io non volevo, non volevo! Non è possibile che sia stato io!", gemeva William che nulla ricordava. Non poteva pensare d'essere stato capace d'un azione tanto sconsiderata; perdere il controllo di fronte a tutti, in quella maniera, no no, non era proprio da lui. Non era tanto lo stato critico della signora a preoccuparlo, bensì l'aver dato mostra di sé, aver messo a nudo una reazione inconcepibile ed anormale. "Perché, perché", si ripeteva mentalmente continuando a osservarsi le mani, "Possibile, possibile siano le mie mani, possibile si possano sporcare, queste mani"
Con uno sforzo sovraumano tentava di liberarsi della presa dei due Aiutanti, di fare anche solo un passo verso la sfortunata donna adesso lasciata giacere dal Controllore. Voleva chiederle, voleva sapere: "Sono stato io?" "Sono stato io?" Ma non disse nulla, poiché si sentiva colpevole a priori, colpevole anche solo nel dubbio, e gli mancava il coraggio di conoscere la verità.
"Forza, la aiuto a rialzarsi," disse il Controllore alla donna e finalmente questa venne rimessa in piedi con notevoli sforzi. Tra i passeggeri ci fu un fuggi fuggi generale per offrirle il posto. Si accalcavano a dozzine, pregandola di accettare, più e più persone arrivarono a discutere di quale fosse il posto più comodo per la povera disgraziata. A dire il vero tutti i seggiolini sembravano nelle stesse condizioni, ma di questo avviso non sembrava nessuno, e perciò si andò per votazioni. Il vincitore fu sommerso d'applausi, di complimenti, inviti a cena, strette di mani tra sorrisi a sessantaquattro denti.
"Ecco, così si ragiona, siamo pur sempre in democrazia" diceva il Controllore osservando la scena compiaciuto.
"Vede, Signor William Charpanvam," disse poi verso l'arrestato, "così si ragiona. Lei non l'ha capito. Sin dall'inizio non l'ha capito. Non solo non possiede il biglietto, non solo ha mentito spudoratamente, recidivamente, ma non ha saputo tenere sotto controllo i suoi impulsi, si è reso più umano del necessario, ha minato la serenità e la stabilità di questo luogo, e per tanto sono costretto a dichiararla in arresto - come può ben vedere dalle manette che le stringono i polsi."
"Ma .. questo.. questo è inamissibile," ripeteva tra sé William, spaventato anche solo a pensarlo. Si sentiva colpevole, eppure la condanna gli andava stretta.
"Come? Ha detto qualcosa?", gli fece il Controllore accostandosi e chinandosi fino al suo viso. Gli Aiutanti tenevano l'imputato schiacciato quasi al suolo, con le ginocchia tremanti e piegate.
"Sì'", rispose William con impeto, "Dico che tutto questo è inamissibile. Dov'è? Dov'è la giustizia?" chiese sputando ai piedi del Controllore. Questi non se ne accorse neppure, talmente era immerso nella contemplazione delle sue unghie.
"Eccoci alla capitolazione finale. Alle scuse aggiungiamo le lamentele gratuite" disse poi sorridendo e prendendo il viso di William tra le sue mani guantate di nero. Inaspettatamente lo baciò sulla fronte. Gli sussurrò: "Accetti, accetti e subisca."
"Ma qui.." balbettò William ".. qui si è compiuto un omicidio.. l'ho visto coi miei occhi.. quel povero vecchio.. Arresti me.. ma.. va bene, mi arresti.. ma arresti anche loro.."
"Signor William Charpanvam, lei ha mentito abbastanza per oggi. E anche se ciò che dice fosse vero, scommetto che lei sarebbe complice in quell'omicidio. Del resto io non sono tenuto a verificare quel che vedono i suoi occhi, ma solamente quello che interferiscono i miei. E' lei il colpevole qua dentro, e nessun altro. Si lasci portare via e facciamola finita una volta per tutte. Se oppone ancora resistenza, sarò costretto a insistere con altri metodi meno ortodossi."
"Questo è inamissibile," continuava William, e sputò ancora.
"La smetta. La smetta." tuonò il Controllore.
"Mai. E' inamissibile. E' inamissibile. E poi lei è un Controllore, con quale autorità mi arresta?" chiedeva William con lo sguardo fisso, senza remore, poiché adesso, se pur colpevole, in cuore non aveva più paura.
"Con la mia, con la mia autorità," gridò il Controllore alzando un pugno al cielo, "Io non solo controllo, ma sono autorizzato, autorizzato punto e basta. Non c'è altro da dire, altro da reclamare, né da discutere. Ma se vuole metterla sotto questi termini, allora..."

7
Horror / Sull'autobus - prima parte
« il: Novembre 15, 2011, 11:21:49 »
William non era mai salito su un autobus così squallido. I vetri dei finestrini erano sporchi e anneriti, i seggiolini scritti e spaccati, dal tettuccio cascava qualche goccina d'acqua. Un po' ovunque saltavano agli occhi bottigliette di plastica, lattine squarciate, al suolo c'era una sporcizia e una polvere da metter paura persino ai topi. William, indignato e impettito nel suo piccolo posto, scuoteva la testa dal ribrezzo. "No, no, così non va" ripeteva ogni cinque secondi, guardandosi attorno schifato. Era un piccolo omino bassetto, con la testa larga larga e due occhi vivaci e cattivi.
Egli era abituato a ben altro genere di mezzi pubblici. Si ricordava con tenerezza della volta in cui, avendo problemi nel salire su di un autobus, un gruppo di passeggeri gli aveva teso la mano. Da subito si erano dati a cedergli il posto, poiché portava due grandi buste della spesa, e tutt'intorno sembravano volersi assicurare delle sue condizioni. L'autobus stesso era cangiante come il cuore dei suoi occupanti, riluceva di una strana serenità; le sbarre a cui tenersi erano bianche e scintillanti; l'autista di tanto in tanto fermava il mezzo, controllava che tutti stessero bene, poi, fischiettando un motivetto, tornava a guidare con calma e sicurezza autoritarie. La strada non aveva misteri per lui, e lo faceva ben capire a William che, seduto a poca distanza, ne ammirava il sorriso e l'aria spavalda.
In quest'altro autobus, purtroppo, il Conducente aveva già dato segni di visibile squilibrio. Il mezzo sbandava a destra e a sinistra, come al ritmo di una strada ubriaca e accidentata. Si potevano vedere i passeggeri scuri in volto, ondeggianti di lato in lato, appesi come salami agli anelli pendenti dall'alto, oppure afflosciati come vegetali sui loro posti a sedere. Il Conducente, così aveva notato William, parlava al cellulare con un suo amico. "E non ha neppure l'auricolare! Quel disgraziato!" pensava William osservandolo a bocca spalancata. Ed effettivamente il lungo autista, un personaggio alquanto sgradevole e dal naso moccoloso, teneva il volante con una sola mano, mentre con l'altra, scossa dal nervosismo, portava all'orecchio un cellulare vecchio modello. Era due volte più grande di un cordless. William era allibito: il Conducente non dava neppure a nascondere il suo crimine efferato! Gridava come se dall'altra parte del filo non potessero sentirlo per qualche strano motivo!
"Si, caro, sono felice, felicissimo per te," sghignazzava stridulo quel povero pazzo in preda all'intimo bisogno di mettere a rischio gli occupanti del mezzo pubblico.
Come se non bastasse, William era costretto a rabbrividire di fronte al comportamento indecoroso dei passeggeri stessi. Aveva notato che in molte occasioni questi si piazzavano di fronte alle entrate, e, appena scorti possibili ospiti indesiderati - vecchi o paralitici - li intercettavano con un calcio in pieno volto. I poveretti rotolavano al suolo sulla strada. Alcuni demordevano, i più coraggiosi, che non avevano voglia d'aspettare il prossimo autobus, tentavano nuovamente la salita e nuovamente venivano respinti tra le risate del pubblico immobile sui propri posti a sedere. Avevano l'aria di grosse civette dagli occhi sorridenti. L'autista, in tutto questo, non solo non interveniva a favore dei disperati, anzi, quando ne notava qualcuno più disgustoso di altri, ecco che gli chiudeva le porte in faccia proprio a un centimetro dal naso. Con alcuni dava il meglio di sé, e, forse fortuna, forse abilità, riusciva a intrappolarli tra le porte; quando succedeva ecco che fermava l'autobus e, applaudendosi da solo, picchiandosi il pugno sul petto dalla soddisfazione, incitava i pestatori a randellare con gioia lo scemo del momento. Questo, dopo esser stato percosso con entusiasmo da chiunque - bambini compresi - veniva sospinto dolcemente fuori dall'abitacolo. Di tanto in tanto i persecutori si prendevano una pausa e qualche vecchietto sgusciava lesto tra le porte. Purtroppo gli toccava rimanere in piedi, poiché nessuno si degnava di cedergli il posto. Neppure a William era concesso di alzarsi per aiutare costoro. Al solo tentativo, veniva immediatamente spinto giù da due energumeni che già da un po' di tempo lo tenevano a bada. "Sei uno strano, " gli dicevano grattandosi il naso, "un tipo rivoltoso."
Ma a parte questi spiacevoli episodi, sull'autobus in questione, l'atteggiamento generale non era dei più sociali. Bastava chiedere "Che ore sono?" e la risposta solitamente avveniva in questi termini:
"Che cazzo ne saprò mai. Vai a fanculo."
William sarebbe voluto uscire da quel covo di pazzi. Già dai primi momenti si era accorto che qualcosa proprio non andava, là dentro. Purtroppo era in ritardo a lavoro. Se abbandonava l'autobus corrente, era costretto ad aspettare il prossimo. E se anche quello fosse stato nelle medesime condizioni? Di quei tempi non si poteva mai dire. Certe storie alla televisione facevano accapponare la pelle. William ricordava di autobus bruciati da soli, come per autocombustione, tra urla indicibili e odore di carne fumante. L'odore appunto non si sentiva, ma la giornalista lo descriveva con una tale enfasi da materializzarlo nella mente del telespettatore.
D'un tratto William, perso nei suoi pensieri, mise una mano in tasca e si accorse dell'assenza del portafoglio. Era stato derubato! Il terrore lo fece sbiancare. Sudava, e gli occhi, inquieti, si giravano di lato in lato a caccia di un possibile colpevole. Aveva l'impressione che tutti i passeggeri riuscissero a intuire il suo disagio. Uno dei tanti disse: "Oh! Oh! Oh! Sembra che qualcuno abbia perso qualcosa!"
Tutt'attorno si era fatto uno strano silenzio. Si sentiva solo l'uomo che aveva parlato, che adesso ruminava frenetico la sua gomma da masticare.
Il primo pensiero di William andò al suo abbonamento annuale. Era perduto insieme al portafoglio! Doveva fare il biglietto. La sola idea di un controllo, di un Controllore, lo metteva in agitazione a tal punto da fargli dimenticare dei documenti d'identità e delle carte di credito ormai in mani estranee.
Tentò di alzarsi ma venne prontamente bloccato da uno dei due omoni a sua guardia. "Dove vai?" gli disse indicando con la testa un vecchio a due passi da loro. Questi piagnucolava come un bambino. Era vestito di grigio, con larghi pantaloni di seta, e le lacrime rilucevano sul suo volto rosso e affossato.
"Devo, devo solo fare il biglietto a bordo." balbettò William.
"Ah sì?" continuò l'omone schioccandoli un'occhiataccia.
"Sei sicuro? Sei sicuro di non voler cedere il posto a questo miserabile?"
"No, cioé.." mormorò William confuso. Non riusciva a pensare. "Le spiego.. fosse per me, sì, fosse per me lo farei sedere.. ma adesso questo sì.. beh, sì, questo adesso non è il mio scopo principale, bensì vorrei timbr.."
"Quindi ti piacerebbe farlo sedere?" gli urlò addosso quell'altro mettendogli il naso a un centimetro dalla bocca. Lo annusava convulsamente.
"Ti piacerebbe farlo sedere?!" gridò adesso, come isterico. Batteva i piedi a terra. Ansimava come un cane in procinto di lasciare questo mondo.
"No.. ecco.. ecco.. io vorrei solo fare il biglietto.."
"Bene, allora dillo."
"Cosa, cosa dovrei dire?" chiese William implorando pietà con le mani giunte all'altezza del viso.
"Dillo! Dillo!"
"Cosa? Cosa?!"
"Dillo! Che non vuoi farlo sedere! Urlalo, adesso, qui, in mezzo a tutti noi! Voglio sentirti gridare! Avanti! Avanti!"
"Non voglio.. non voglio..." diceva William stringendo adesso i piccoli pugnetti. Una lacrima gli rigava il viso.
"Non voglio.. non voglio.."
"Cosa, cosa!? Dillo, dillo!"
"Non voglio farlo sedere!" urlò infine William. Si agitava sul posto come impazzito. Le mani, tese in alto, gli tremavano come farfalle dispettose.
Urlò ancora, più forte di prima: "Non voglio farlo sedere!"
Così l'omone lo prese egli stesso per le spalle, lo alzò a mezz'aria voltandosi verso i passeggeri. Ci fu un boato d'esultanza. Rantoli di piacere, cori infernali di parole incomprensibili, sputi nell'aria, si sovrapponevano sulle labbra di facce feroci contratte in uno spasmo di godimento. Il piacere e la gioia si diffondevano come un passaparola febbricitante. Il vecchio venne circondato, preso per testa e piedi da almeno cinque individui, e poi scaraventato oltre la vetrata posteriore del mezzo. Lo seguirono con lo sguardo, mentre rotolava contorcendosi nell'asfalto bollente. Due macchine lo evitarono al pelo, la terza lo sventrò da parte a parte come un soffice grissino.
"Quello però dovete, dovete pagarlo," disse l'autista continuando a guardare la strada. Le mani gli si muovevano lente e sensuali sul grande volante nero. Gorgogliava come una iena.
William intanto piangeva, piangeva e inseriva le monetine nella macchinetta dei biglietti. Quelle uscivano subito dalla fessura sottostante, senza dare risultato alcuno. Di titoli di viaggio non ve n'era traccia.
"Non funziona, non funziona!" gemeva William battendo le mani su quel pezzo di metallo inanimato. E d'insuccesso in insuccesso si diede a bestemmiare, a picchiare la macchinetta con calci furiosi. "Voglio," pensava in un turbine di raccapricciante esaltazione, "Voglio il mio fottuto biglietto"
Un uomo sottile e allungato come un seme gli si accostò e, allungando la testa verso la macchinetta vi poggiò la lingua lucidandola di centimetro in centimetro. "Prova così, prova così" bisbigliava continuando a leccare come in un accesso di voluttà. Uno dei suoi grandi occhi fissava con insistenza William. Tutt'intorno risate oscene si propagavano come in un'orgia di demenza senile.
William corse verso la cabina del Conducente, respirava a fatica, sentiva la testa girare e ovunque coglieva sguardi di derisione e scherno. "Sei una piccola troia!" gli urlò qualcuno.
"Signor Conducente, signor Conducente," disse William appoggiandosi al vetro della cabina e sgusciando poi con la testa proprio alle spalle dell'uomo alla guida. "Ho un problema. La macchinetta dei biglietti è guasta. Mi hanno rubato il portafogli, ho perso tutto! Ho perso l'abbonamento! Ho paura, ho paura che possa salire il Controllore!"
William non aveva mai visto un Controllore, eppure ne temeva l'esistenza. "Se non si è mai visto," pensava, "è solo perché si confonde tra il resto dei passeggeri. Non si può sapere quando sale, né tantomeno quando scende."
Il Conducente non rispose per qualche interminabile secondo, poi disse, con voce calma e neutrale: "Fai bene, fai bene ad avere paura. Secondo fonti certe oggi i controlli saranno intensificati nell'area urbana e suburbana. E sai," concluse sibilando e contorcendosi sul posto, ".. non me ne frega uno stracazzo di niente se la macchinetta è fuori servizio o se ti sei perso l'abbonamento nel buco del culo."
Poi strinse forte il volante, così forte che le vene gli affioravano sulla pelle come una violacea cartina geografica. Oltre il parabrezza luminescente, William scorgeva il panorama. Un cielo plumbeo era intaccato dal rossore del  tramonto, e tra file di interminabili palazzi si assestavano lunghi cantieri in fase di costruzione.
"Io... io.. io la contesto, le faccio un r-r-eclamo Signor Conducente! Q-q-questo non è l'atteggiamento adat-to! Qui d-d-entro è tutto uno schifo!" balbettò William e senza pensare, senza sapere perché, si volse frenetico e corse verso l'uscita. Accanto alle porte c'era un pulsante rosso, gigantesco, e un martelletto, entrambi chiusi in una scatoletta di soffice vetro. L'etichetta diceva: "ROMPERE IN CASO DI EMERGENZA"
William la infranse con un pugno, si impossessò dell'arnese di ferro e con quello colpì ferocemente il pulsante rosso.
In tutto l'autobus scattò una cacofonia d'allarmi, luci celesti lampeggiavano da moltissime angolazioni, spruzzi d'acqua salata si diffondevano rapidamente ovunque, ed infine il mezzo si bloccò sulla strada come se fosse morto di sua spontanea volontà. Il motore graffiava l'aria con rantoli convulsi.
William riprese fiato, si accasciò al suolo con le mani tra le ginocchia, stremato in tutto il corpo dallo scemare dell'ansia accumulata di minuto in minuto.
Si accorse che tutti i passeggeri erano seduti correttamente, immobili; sembrava che i senza posto fossero stati divorati per l'occasione.
Ora vestivano eleganti, rasati come militari avulsi alla vita mondana, accartocciati nello stesso abito nero e distinto; protendevano il braccio a mezz'altezza, ritto di fronte a loro, e da ogni mano si allungavano piccoli cartoncini bianchi. "Sono, sono dei biglietti", pensava William alzandosi e osservando l'ambiente completamente rinnovato. L'autobus brillava di una luce sulfurea, e l'aria, tutta, era rarefatta e a tratti irrespirabile.
"Attenzione Signori", gridò una voce alle sue spalle, e William si girò incrociando con lo sguardo il Conducente che adesso stava in piedi a pochi passi dalla cabina di guida. Era pervaso da una strana serietà, sul volto non si muoveva neppure un muscolo; lunghe basette nere gli scivolavano caute fino al mento. Indossava una divisa grigia con otto bottoni bianchi, sul petto saltava all'occhio un minuscolo cartellino identificativo. William non riusciva a leggerne le credenziali.
D'un tratto le entrate si spalancarono da sole, e da ognuna delle due emerse un uomo uguale e identico al Conducente. "Che siano gemelli?" pensò William.
"Attenzione Signori," gridò ancora il Conducente. Stringeva una lunga bacchetta  di ferro e la sbatteva con forza su un poggiamano. Quel rumore metallico penetrava subdolamente nelle orecchie di William.
"Attenzione Signori," ripetè per l'ennesima volta. Ora non urlava, solo aveva un tono da nazista moderno, autoritario, alto e preciso, che ti costringeva a sussultare, a porre attenzione ad ogni parola, tra battiti frenetici del cuore, scanditi a meraviglia da quella lunga bacchetta metallica.
"Io sono il Controllore" disse poi il Conducente divenuto Controllore.
"E' in corso una verifica dei titoli di viaggio. Se dovete scendere a questa fermata, indirizzatevi presso i miei colleghi. Il vostro biglietto verrà verificato e sarete lasciati andare"
Nessuno sembrava voler scendere; aspettavano imperturbabili.
Ai piedi del Controllore, una signora di mezz'età, dalla gonna viola di cartapesta, gli si strusciava sulle scarpe come un cagnolino ubbidiente. "La prego, la prego," farfugliava felice, "La prego, parliamo del tempo, dell'andamento dei controlli nell'ultimo mese, della viscida amoralità dei trasgressori, si dilunghi dettagliatamente sulle novità introdotte con l'avvento dell'abbonamento impersonale, mi sorrida, mi sorrida e dica che tutto va bene, mi sorrida e dica che tutto va bene"
"Non c'è bisogno di farla così lunga, signora," disse lui con tono canzonatorio. "Mi mostri semplicemente il biglietto"
Ma la Signora sembrava non intendere, poiché, anche ora che il Controllore avanzava tra i posti a sedere, egli era costretto a scrollarsela di dosso con grandi pedate. Quella lo intralciava senza sosta, sorridendo e biascicando frasi sconnesse sull'umidità e l'effetto serra.
William era tornato al suo posto e seguiva ogni più piccolo movimento del Controllore, cercando di indagare nei suoi occhi, di carpire quale misteriosi segreti celasse quell'individuo fatto tutt'uno con il suo ruolo. Tremava da capo a piedi, come un uovo che sta per schiudersi. Non poteva fuggire e lo sapeva: avrebbe tardato a lavoro, e non solo, gli Aiutanti del Controllore lo avrebbero fermato subito, diffamandolo in pubblico per la sua gravosa mancanza.
Il Controllore, irreprensibile e professionale, esaminava a lungo il biglietto che gli veniva mostrato, serio e impassibile come solo una pietra levigata sa essere. I suoi Aiutanti posteggiavano le uscite, guardandosi attorno e fischiettando. Perennemente picchiavano sui poggiamani con le loro sbarrette di ferro, e perennemente ripetevano parole d'esortazione in tono alto e inflessibile: "Questa è una verifica. Siete pregati di esibire i vostri biglietti."
Schioccavano la lingua come grigi camaleonti giganteschi.
William si teneva una mano sul petto, pronto alla storia da raccontare al Controllore. "Gli dirò della macchinetta, del portafoglio rubato, insomma, sono cose che conosce già! Però gliele ricorderò e lui sarà clemente! Da Conducente non sembrava un brav'uomo, ma adesso, beh, adesso è un Controllore!"
In tempi passati William aveva sperato di incontrarne uno, di questi famosi controllori, di inchinarsi con il braccio verso l'alto per mostrare il suo scintillante abbonamento annuale. Nella sua immaginazione il Controllore sorrideva benedicendolo con un simpatico occhiolino.

8
Altro / Il gioco - terza e ultima parte
« il: Ottobre 06, 2011, 00:10:47 »
Qualche ora dopo il duo era di fronte all'abitazione di The Crow. Era un villino grazioso, moderno, di colori chiari; ampie balconate segnalavano la presenza di tre piani ben distinti; da tutte le finestre provenivano luci, chiaro segnale di vita.
La notte inghiottiva la città, la luna alta nel cielo segnava il viso dei due ragazzini fermi nel giardinetto della proprietà privata; avevano scavalcato il cancello nonostante tutte le opposizioni di Federico.
"Ti decidi a suonare?" disse Filippo battendo con il gomito sulla spalla del suo compare. "Ma io.. ecco.. sei sicuro sia proprio casa sua?"
"Suona e basta dannazione!"
Federico obbedì e quasi subito alla porta si presentò una signora anziana, sull'ottantina; sulla testa teneva dei bigodini multicolore e aveva un tic nervoso agli occhi; le sobbalzavano mollemente da lato a lato. Non dava l'aria d'esser molto sveglia. "Chi siete? Cosa volete?" gracidò come una rana. "Salve Signora, quale onore è per noi incontrare la nonna di Giovanni!" esordì subito con un inchino Filippo stringendosi nel completo elegante che si era procurato per l'occasione. Federico lo guardò stupito: che già sapesse della sola presenza della vecchia e si fosse presentato un discorso per l'occasione? Ma l'anziana dal canto suo sembrava dura d'orecchi e imprecò in una lingua incomprensibile. Poi aggiunse: "Non mi interessa! Non mi interessa! Sono sola in casa! Via da qui o chiamo la polizia!"
Filippo, facendo spallucce contro interrogò la vecchia: "Ascolti, è sola in casa vero? Mi dica, se si avvicina al mio viso, ecco, si, proprio così, riesce a dirmi almeno di che colore ho gli occhi?"
La vecchia fece cenno di no con la testa. "La finisca! Cosa mi chiede mai! Non ci vedo un'accidente da tempo ormai! E ora fuori di qu.." ma non potè completare la frase che cadde a terra in un urlo straziante. La gamba le sanguinava sotto il polpaccio livido. Filippo l'aveva colpita con una spranga di ferro che teneva nascosta tra le mani tenute incrociate dietro la schiena, e adesso la guardava, raggiante di visibile soddisfazione.
Federico saltava da un lato all'altro, ora urlando, ora tirandosi i capelli e ansimando disperato. "Cos'hai fatto, cos'hai fatto," ripeteva con la testa che gli girava vorticosamente per la paura. "Lo sapevi cos'avrei fatto, è inutile che te ne cianci adesso. Sii un uomo per una buona volta nella tua vita. E adesso seguimi, entriamo a dare un'occhiata", così dicendo scavalcò la vecchia svenuta a terra e si portò dietro il tremante Federico. "Senti," gli disse Filippo fulminandolo con un'occhiata, "Ora cerchiamo The Crow, o quantomeno il suo computer; so per certo che abita qui, solo con sua nonna; entrambi i genitori sono morti anni fa. Dopodiché chiamiamo un'ambulanza. La vecchia non corre alcun pericolo e non ci riconoscerà mai. L'hai sentita poco fa no? Quindi adesso calmati. Prendi questi e perlustriamo questo posto." E Federico si trovò tra le mani dei fini guanti di lattice nero.
Dopo qualche minuto, saliti al terzo piano trovarono finalmente la camera di Giovanni, alias The Crow.
Sia Filippo che Federico non si erano sbagliati: la faccenda era più che strana. Federico vomitò l'anima nel constatarlo coi suoi stessi occhi: seduto alla sua scrivania, circondato da mozziconi di sigaretta, giaceva il corpo in via di decomposizione di un ragazzo dall'età indecifrabile. Il suo dito irrigidito si teneva stretto alla lettera [E] della tastiera. "Pazzesco, è morto per davvero questo stupido." disse Filippo trattenendosi a stento dal ridere. "Come avrà fatto la vecchia a non accorgersi di nulla? Quando si dice essere invisibili; puah! Bella roba!"
Filippo risolse al volo il problema: con un calcio scostò dalla sedia il cadavere, si tappò il naso con entrambe le dita ed infine andò alla tastiera digitando lettere a casaccio. "Dai Federico! Cosa fai lì imbambolato! Abbiamo vinto, vieni ad assaporare la vittoria! Non sai che gusto, che libidine nel toccare questi tasti!" Ma il suo amico non lo degnava d'attenzione; già era piombato sul cadavere di The Crow e sbracciandosi con la bava alla bocca infieriva sui resti calpestandoli in più punti.

Il giorno dopo il telegiornale diede notizia della tragedia. Il corpo dilaniato di Giovanni Ambosci, era stato ritrovato sulla rampa di scale che davano dal secondo al terzo piano. La polizia, messa in allerta da una segnalazione anonima, aveva fatto irruzione in casa del giovane verso la mezzanotte scoprendo una donna ferita che arrancava gemendo e strisciando sul pavimento.
La vecchia nonna, come Filippo aveva predetto, se la cavò con un mese di ospedale. Alle domande degli inquirenti la paziente si dava a negare con tutte le forze: non sospettava minimamente della fine prematura del suo nipote diciannovenne. Degli assalitori non si seppe mai nulla di preciso. A questo proposito la vecchia cambiava versione ogni due giorni: da prima parlò di piccoli omini, nani, poi si diede a inveire sui testimoni di geova, ed infine giunse ad affermare - probabilmente in delirio - che i suoi aguzzini altro non erano stati che insaziabili folletti magici insediatisi in città negli ultimi anni.
L'inchiesta si chiuse piuttosto in fretta. Il giovane The Crow era morto di cause naturali e nulla faceva pensare a un aiuto esterno di qualche tipo. Era spirato di fronte al computer, ucciso dalle sue stesse feci trattenute in corpo così a lungo da portare all'autointossicazione. Si aprì una controversia anche nei confronti di The Splite. Il gioco venne accusato di negligenza: possibile non si fossero accorti, tramite la webcam ancora accesa, che il concorrente era venuto meno? I gestori si difesero a spada tratta: il ragazzo, dicevano sbattendo in faccia il microfono ai media, risultava in salute da tutti i recenti filmati. Si impuntarono a tal punto sulla questione, che grazie a cavilli burocratici e leggi sulla privacy, respinsero l'ingresso delle autorità e il sequestro del materiale audiovisivo inerente al "morto della [E]". Questo nomignolo fu sulla bocca di molti per gli anni a venire, e tra i sorrisi generali, le battute sarcastiche, The Crow divenne presto celebre, oggetto di scherno tra i partecipanti al gioco. In molti lo definivano un pazzo, una persona senza vita, un esagerato che non aveva compreso a pieno il "vero scopo" di The Splite.
Anche gli organizzatori si muovevano su questa linea e ribadivano che ad oggi (per quanto potevano saperne loro) quello di Giovanni era il primo caso del genere. "Giovanni," si schermivano i gestori di The Splite, "Era affetto da turbe antecedenti al nostro gioco; non è stato condizionato in alcun modo dal nostro prodotto." Certo è, che, nonostante tutti i loro sforzi, fu abbastanza evidente la mancanza concreta di un controllo certosino di cui si tessevano lodi su lodi. Filippo e Federico rimasero perplessi sull'accaduto, continuando a chiedersi sino a che punto il sistema di vigilanza potesse realmente permettere uno svolgimento corretto di The Splite.
A loro si unirono in molti; vennero a crearsi gruppi di protesta, persone che, dopo l'increscioso accaduto, mettevano in dubbio la capacità degli organizzatori e la loro buonafede. Vennero respinti da una carica della polizia, proprio di fronte alla sede principale della "The Spliter(s)".
Il mistero dei messaggi dall'oltretomba non venne mai chiarito. Federico e Filippo non riuscivano a darsi una spiegazione logica di fronte al fenomeno che li aveva investiti; chi mai aveva inviato quelle minacce dal web?
Infine The Splite non giunse mai a una conclusione; ogni qualvolta i gestori sembravano muoversi in quella direzione, ecco che la data di chiusura veniva procrastinata con il pretesto di aggiornamenti speciali in grado di fornire nuova linfa vitale ai più annoiati.
Ogni tanto veniva appunto applicata una patch seguita da sconcertanti novità: l'ultima prevedeva la possibilità di cambiare la lettera vincente [E] con un'altra qualsiasi della tastiera. Questa decisione causò non poche proteste dai giocatori d'elite. Si scrisse persino una lettera di indignazione con oltre otto milioni di firme a sostegno della causa. "La lettera E," si diceva nella missiva, "è nel nostro cuore dall'inizio del gioco. Non si può sostituirla, questo guasta l'atmosfera del gioco!". Dopo mesi di dibattiti televisivi (il successo di The Splite era dilagato ovunque) la diatriba si concluse nel più felice dei modi: si stabilì infatti che la lettera E - di nessuna importanza relativa nell'alfabeto - aveva lo stesso valore e la stessa prestanza di tutte le altre lettere presenti sulla tastiera.
Negli anni successivi Federico tornò primo in classifica, non vinse mai nulla, s'intende, ma sul monitor degli iscritti il suo nome balzava su tutti, scintillante del suo punteggio destinato a non fermarsi mai.
Un giorno i suoi genitori, a cui venne in mente di portarlo di nuovo in montagna, lo trovarono accasciato sulla tastiera, gli occhi sgranati, il polso silenzioso. Vicino alla sua piccola mano pallida e rigida, trovarono un biglietto piegato in quattro parti. Dentro, scritte in un piccolo stampatello incerto, lessero le seguenti parole:

"Una coltre di nebbia copre ogni cosa.
Non c'è più nulla da toccare, solo da subire, in questo mondo dal quale vorrei sgorgasse sangue."

Al funerale Filippo era tra i primi a trasportare la salma. Molti testimoni, tra lo stupore dei più scettici, si diedero ad affermare che il ragazzino piangeva. "Nei suoi occhi," dicevano, "c'era un burrone, un precipizio; l'approssimarsi di un vuoto eterno ed incolmabile."

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Altro / Il gioco - seconda parte
« il: Ottobre 06, 2011, 00:10:08 »
Federico non voleva, non poteva crederci.
Come aveva fatto, come aveva osato quell'essere frapporsi fra lui e l'eternità?
Conducendo attenti calcoli, Filippo scoprì che The Crow era a punteggio pieno da ben tre mesi; non dormiva da tre mesi! Era difatti impossibile riuscire a dormire lasciando il dito sulla tastiera: succedeva sempre qualche guaio. Sogni agitati, un minimo sbalzo d'umore, un cambiamento di posizione e il guaio era bello che fatto: il dito galeotto andava muovendosi a casaccio ovunque, cacciandosi nelle lettere più disparate e sottraendo vitale punteggio al concorrente.
Ecco perché ogni giocatore d'elite sapeva che era necessario disattivare il gioco quando il corpo raggiungeva il limite e, nel caso di Federico, le bevande alla caffeina e i farmaci non davano più la necessaria sicurezza. Filippo e il suo compare le tentarono tutte, ma per tornare al pari con The Crow finirono per cadere vittime della loro stessa perseveranza.
Un giorno Federico non resse, si addormentò sfinito, e al suo risvegliò scoprì l'agghiacciante verità: in un solo colpo aveva perso più di quaranta ore di punteggio.
Pianse per tutta la giornata, perse la sua sicurezza, la sua forza d'animo; si risolse a presentarsi addirittura a scuola - già da tempo prendeva lezioni private, veniva imboccato dai suoi genitori, arresisi ormai di fronte al suo obiettivo.
Avevano tentato di riportarlo alla ragione ma ogni qualvolta tentavano di entrare in camera sua, Federico si sporgeva dalla finestra e gridava: "Io sono il primo! IL PRIMO in classifica! Possibile che Voi non siate contenti di questo? Ora, lo giuro davanti a Dio, se solo mi toccate, se solo tentate di strapparmi da qui, io di fronte a Voi mi Ucciderò adesso, senza tentennamenti, poiché la mia vita non avrebbe senso senza The Splite! Cosa volete? Cosa volete ancora da me infami? Cosa? Non mi occorre più il Vostro denaro, perché adesso ho Filippo! Se ancora mi amate portatemi il cibo, salutatemi se lo ritenete giusto, partecipate alla mia felicità o eclissatevi seduta stante!".
I poveretti non eran certo persone di polso, e sorridendo vacuamente facevan dietro front, contentandosi della felicità apparente del loro figliolo. Solevano dire: "Se lui è felice così; perché, perché negarglielo?" Del resto, non che se gliene voglia fare una colpa, ma eran stati loro a mettere il piccolo a confronto con la tecnologia alla tenera età di quattro anni. Il danno era bello che fatto.
Ed intanto la frustrazione di Federico raggiungeva apici impensabili. Un giorno che guardava esterefatto la classifica si disse tra sé che sognava e Filippo lo sorprese a schiaffeggiarsi da solo nell'atto di chi vuole svegliarsi da un incubo. Avrebbe voluto abbracciarlo, calmarlo in qualche modo, ma alla fine lo chiamò al cellulare nonostante la distanza non fosse proibitiva (forse qualche metro). Qui partì l'ennesima predica che già abbiamo visto all'inizio del racconto.
Filippo considerava l'alienazione dal contatto, la freddezza tesa al raggiungimento dello scopo, la calma siderale di fronte ad ogni situazione, come la massima della virtù di cui l'uomo può disporre. Di fronte alle esibizioni pubbliche d'affetto storceva la bocca e si ritraeva al suolo come una serpe calpestata dalla folgore.
Ma Federico non confidava più nel suo amico, o almeno non come in quel passato dove l'oro lastricava il suo cammino donando la sua immagine ai posteri di The Splite. The Crow sembrava inarrestabile, insondabile, e nell'ultimo periodo lo contattava per farsi beffe di lui. I messaggi che Federico riceveva erano sempre identici, che fossero vocali o d'ipertesto, nei casi più meschini allegati a cartoline telematiche di cattivo gusto.

"Tu non puoi battermi. Voi non potete battermi. Io sono morto e giaccio sulla tastiera."

Il ragazzino stava appunto ripensando a quelle parole quando, pochi minuti dopo l'ennesima telefonata di Filippo, i genitori irruppero nella stanza con una strana ed inaspettata audacia di spirito. Il padre era furente, rosso fino alla punta dei capelli, la madre semplicemente si reggeva a stento sulle gambe e puntandole al suolo allungava le mani in direzione del figlio coprendosi di lacrime.
"Basta, basta così, adesso tu vieni con noi! Basta Federico! Sappiamo che sei felice ma vogliamo mostrarti anche altro, farti vivere sano e bello come sempre avresti dovuto essere!", disse la donna piombando di peso su Federico e in un attimo gli fu addosso tenendolo saldo per la collottola come un gattino pronto da deporre sul tavolo del veterinario. Federico strillava tentando di raggiungere la finestra per il balzo fatale e ci sarebbe riuscito se non fosse intervenuto il padre a percuoterlo con una portentosa manata.
Ma dopo quel gesto violento anche l'omone si sciolse in pianto e abbracciando il figlio fino a renderlo di porpora, al pari di un balbuziente sciorinò le seguenti parole: "Tu non capisci in che guaio ti sei cacciato! Vuoi farci morire! Ma tu sei sangue del nostro sangue e ora ti portiamo via da questa misera prigione, da quest'inferno cittadino, da questo smog che ti ha avvelenato l'anima rendendoti schiavo del cemento! Dio non voglia che tu finisca così figlio mio! Abbiamo prenotato in un agriturismo, un posto isolato, fantastico, nel verde più assoluto, dove i passeri cinguettano al ritmo del tempo e le mucche pascolano serenamente tra alti fili d'erba, dove l'aria è pulita e la mente umana si può saziare della natura infinita! Vedrai finalmente il cielo, il mondo animale nella sua vastità, vivrai con noi momenti indimenticabili, andiamo, andiamo! La macchina è già giù che ci aspetta!"
Federico voleva opporsi, si aggrappava con le mani frementi alla scrivania e in un eccesso di zelo colpì a un fianco la madre con una gomitata. "No! NO! NO!", gridava inferocito, battendo i piedi all'aria e vorticando il muso schiacciato come quello di una scimmia catarrina, "IL MIO COMPUTER! LA MIA [E]! VOI NON POTETE! NON POTETE!". Ma tutto fu vano. La resistenza inutile. Fu preso e trascinato giù per le scale come un sacco di patate. Lo legarono al sedile posteriore con tutte e due le cinture di sicurezza, si assicurarono che i finestrini fossero chiusi ermeticamente, e in un battibaleno la macchina si mise in moto divorando l'asfalto e allontanandosi velocemente dal centro cittadino.
Poco dopo Federico si trovò ad affacciarsi timoroso sul mondo che lo circondava.
Erano quasi giunti a destinazione.
Grandi distese verdi già si vedevano accanto alla strada, gli alberi tappezzavano ogni cosa come una coltre vivente di soldati immobili; case isolate sulle colline sbucavano come eremiti solitari di un paese a loro sconosciuto, ed ogni cosa viveva nell'armonia di quell'ambiente che poco a poco si delineava nella sua grandezza; il bosco fitto, oscuro e impenetrabile, ai margini delle strade ormai sterrate, incuteva terrore a Federico e al tempo stesso egli sentiva il suo richiamo, la voglia di inoltrarcisi e perdercisi. Immaginava quei luoghi nella notte più lugubre, pronti ad accoglierlo e a nasconderlo da tutti; si vedeva correre tra le foglie secche a caccia della via d'uscita, alla ricerca di quel mondo civilizzato che tanto bramava il suo cuore. Di tanto in tanto buttava uno sguardo smarrito oltre un guardarail improvvisato - di legno marcio - e si perdeva negli anfratti di un burrone costellato dalla vegetazione; e qui si sentiva spinto come nel bosco, vedeva il suo corpo volare e infrangersi sulla pietra, il sangue disperdersi dalla carne al ruscello lì accanto.
Nel mentre i suoi genitori intonavano allegre canzoni allo stereo e talvolta si voltavano a guardarlo felici, sogghignando complici dello sguardo spaesato del loro pargolo.
Giunsero infine, scesero dalla macchina e Federico pensava d'essere in un sogno. Finché erano a bordo di quel veicolo tutto gli sembrava nella normalità, era in viaggio, era sospeso tra l'acciaio della macchina e la terra bagnata della campagna, ma qui, una volta coi piedi tra le felci, già salendo per i sentieri di montagna, ben attento a non scivolare, a non perdere l'equilibrio, non capiva come potesse esserci finito, come tutto potesse essere così isolato e misterioso come nel percorso intrapreso dalla città.
Possibile che quella fosse una destinazione?
Dopo la tortuosa salita, sudati in tutto il corpo, arrivarono ad uno spiazzo immenso, un prato ricoperto di minuscoli fiori sospinti dal vento che carezzava ogni cosa; il calore del sole si impossessò di Federico, ed egli per un attimo credette che non fosse solo una sensazione. Conficcate nel pallido cielo sereno, come disegni su cartone, alte montagne si stagliavano irreali tra cortine di lunghe nubi. "Ma l'agriturismo?", chiese il piccolo al padre, "Dov'è questo stramaledetto agriturismo?"
Non ci fu risposta. Padre e madre si presero per mano, corsero a gambe all'aria verso la moltitudine dell'erba e facendo cenno al figlio di raggiungerli, si scagliarono danzanti tra i bovini che pascolavano lì vicino. "Vieni, vieni anche tu Federico!" urlarono ridenti, buttandosi al suolo e roteandosi veloci con il viso teso dall'emozione; poi altrettanto velocemente si rialzavano e raggianti di felicità si aggrappavano alle mucche, le carezzavano, le indispettivano tirandogli il codino; a Federico parve che il padre lo guardasse e al tempo stesso suggerisse qualcosa ad uno dei grandi animali bianchi. Ma guardandolo più attentamente si rese conto che ce l'aveva proprio con lui; gli indicava il ramo di un albero alla sua destra. Federico alzò lo sguardo a quel segnale e incrociò i famosi passeri. Giganteschi, rossi, gonfi e dal collo come gravido, sembravano fissare ogni cosa con quegli occhietti neri e profondi. Cantavano piacevolmente; persino Federico dovette ammetterlo a sé stesso.
Una mano lo toccò facendolo sobbalzare all'indietro con un tuffo al cuore.
Dietro di lui stava Filippo, corrucciato in viso, le sottili labbra serrate e i candidi capelli sparsi sugli occhi che parevano tristi. Per un attimo Federico rimase senza parole, stupefatto da quell'apparizione degna dell'entrata in scena di un fantasma.

"Una coltre di nebbia copre ogni cosa.
Non c'è più nulla da toccare, solo da subire, in questo mondo dal quale vorrei sgorgasse sangue."

"Cos'hai detto Filippo?" chiese Federico spiazzato ora anche dalle parole del suo amico. "Io? Nulla. Piuttosto, andiamocene da qui, presto, per fortuna che ti ho trovato. Il gioco ti aspetta. Qui non hai nulla da fare." tagliò corto Filippo parlando con tono meno convinto del solito.
La spavalderia di cui tanto si dimostrava generoso sembrava momentaneamente sparita nel nulla, e quando Federico gli fissò lo sguardo negli occhi, gli parve che in fondo ci fosse un burrone, un sepolcro che lo invitava ad entrare in punta di piedi.
Un brivido gli corse su per la schiena. Ma già prendeva per mano Filippo, ridendo della sua fantasticheria e percorrendo a ritroso il sentiero che portava alla strada. "Senti, ma dimmi un po', come sei arrivato qui? Ed i miei genitori? Non li avvisiamo? Li lasciamo qui?" chiese trotterellando tra un sassolino e l'altro; d'un tratto si sentiva felice. Poco più sotto una scarpata accoglieva tutto ciò che il ragazzino smuoveva coi piedi.
"Ascolta," iniziò Filippo tornando a utilizzare lo stesso tono a cui solitamente seguiva un'estenuante predica, "A volte mi chiedo se tu sia totalmente scemo o cosa. Sai benissimo che i tuoi sono un po' toccati; quando credono che tu stia troppo tempo a computer, ecco che danno di matto e ti trascinano sempre in questo posto. Ma non ricordi che l'hanno già fatto meno di un anno fa? Dopodiché sono talmente presi dal meraviglioso spettacolo della natura, che tu puoi tranquillamente andartene a casa a piedi per quel che li riguarda. Del resto avrai notato che al solito non si sono accorti di nulla. Io sono venuto qua coi miei genitori, li ho convinti con le buone, lo sai no? Loro mi danno retta; eh eh! Comunque appena ho visto che non rispondevi al cellulare mi sono precipitato qui. Ho grandi novità! Grandi novità su The Crow e dovevo mettertene subito al corrente! Ma ora ecco, ecco, sali sulla macchina," conchiuse Filippo aprendo lo sportello e invitando Federico ad entrare nell'autovettura.
I genitori del biondino si dissero soddisfatti della rapidità del loro unico figlio, benedissero la sua puntualità, il suo rigor logico, e molto altro ancora prima di decidersi a mettere piede all'accelleratore. Durante tutto il tragitto Federico non ebbe modo di sporgersi dal finestrino perché Filippo, accostato accanto a lui, quasi accucciato al suo naso come un cagnolino fedele, lo travolgeva di parole. Nell'occasione il suo amico notò la perfezione della sua bianca e grossa dentatura.
Filippo spiegò che era riuscito a risalire alla vera identità di The Crow, al suo indirizzo civico, e molto altro ancora. "Pensa," disse battendo le mani dalla soddisfazione, "Abita proprio nella nostra stessa città! E' fottuto, te lo assicuro; è fottuto!"
Federico, incuriosito dai metodi che avevano portato Filippo a rintracciare The Crow, ricevette un gesto secco di diniego; il suo amico gli sventolò di fronte al viso il dito. "No, no, certe cose son segreti del mestiere", disse Filippo aggrottando le sopracciglia. Federico rise tra sé e sé; del resto sapeva che il suo amico poteva avvalersi di conoscenze informatiche piuttosto estese, con un po' di buona volontà sarebbe riuscito a trovare qualsiasi cosa tra quella miriade di codici che compongono il web.
Il piano di Filippo era semplice e ardito. "Cosa fai Federico? Perché scuoti la testa?" gli disse vedendo che quest'ultimo era sbiancato all'idea.
"Cos'altro vorresti fare? Vuoi forse permettergli di agire indisturbato, di calpestare ciò che tu hai onestamente guadagnato? Il primo posto in classifica è tuo! Devi agire! Si farà come ti ho detto, dammi fiducia e sarai ripagato. Ti ho forse mai deluso? Coraggio, è l'unico ostacolo che ti si pone davanti a questo cammino! Puoi farcela!" urlò infine scuotendo con entrambe le mani il gracile corpo di Federico. Il frastuono riuscì a destare l'attenzione dei genitori. La madre, come staccandosi dal sedile del passeggerò, allungo la testa fino a loro e in un sussurro disse: "Ragazzi, ragazzi, non litigate."
Poi, dopo un colpetto di tosse appena accennato, tornò a dedicarsi alla sua settimana enigmistica. "Taci vacca!" gridò Filippo in un ascesso d'ira; ma non ottenne risposta; persino il motore sembrava silenzioso. Federico alla parola "vacca" si ricordò del padre che abbracciava ad uno a uno i grossi bovini ed inavvertitamente scoppiò in un risolino soffocato. Filippo lo colpì docilmente su una spalla. "Così si fa ragazzo, così, e adesso andiamo a compiere il nostro destino"



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Altro / Il gioco - prima parte
« il: Ottobre 05, 2011, 23:59:25 »
Federico era seduto a computer da qualche ora. Gemeva, urlava, si sfogava con i pugni contro la scrivania; sembrava in una situazione senza via d'uscita.
D'un tratto squillò il suo cellulare.
"Pronto? Sei tu?" chiese poggiando la testa su una mano.
Il suo grande viso tondo era rosso di collera, dal naso gli usciva un pò di moccio e gli occhi, gonfi e vacui, sembravano sul punto di scoppiare.
"Io non so più cosa fare; è primo, è ancora primo! Com'è possibile?" disse senza attendere risposta. Nella sua voce si sentivano stizza e rassegnazione. Dall'altra parte del filo, al contrario, l'interlocutore mostrava calma e scandiva ogni parola come una coltellata a sangue freddo.
"Federico," diceva, "perché ti sei scollegato? Non farti prendere dalla disperazione. Sei un moccioso. In questa storia ci siamo entrambi e siamo entrambi convinti di poterne uscire con il massimo del profitto personale. Noi non dobbiamo indugiare. Attualmente siamo secondi in classifica. Secondi. Tieniti a mente questa parola: secondi. Se vogliamo essere primi, se vogliamo sconfiggerlo, è necessario rimanere coi nervi saldi, indagare il più possibile sul nostro avversario, e poi distruggerlo senza dargli la minima possibilità di opporsi. E' l'unico ostacolo al raggiungimento del nostro obbiettivo. Non puoi permetterti di cedere adesso, sono stato chiaro? Piangendoti addosso non sei costruttivo, sei solo una mezza sega. Tieniti a mente questa parola: mezza sega. Anzi, scusa, sono due parole; ma tu tienile a mente."
"Forse, forse hai ragione Filippo." piagnucolava Federico con la mano tremante stretta al piccolo cellulare nero.
"Certo che ho ragione. Io ho sempre ragione." rispose l'altro sghignazzando.
"Si però.. ecco, però.. forse tu non capisci la situazione Filippo. Ha cominciato a scrivermi dei messaggi; delle sfide. Si beffa della nostra squadra."
"Cosa? Che genere di messaggi?"
"Dice che non possiamo batterlo."
"Questa è bella", sbottò Filippo accelerando d'improvviso il tono e masticandosi buona parte delle parole nella fretta di mostrare il suo disappunto. Era evidente che anch'egli stava perdendo la calma. "Questa è proprio bella! E tu? Che gli hai risposto? E che altro ti avrebbe scritto? Perché mai poi non si potrebbe batterlo?"
"Afferma di essere morto." disse Federico a fatica, pronto alla risposta che ne sarebbe derivata. Difatti, com'egli si immaginava, Filippo scoppiò a ridere istericamente; si poteva pensare che al telefono non ci fosse un essere umano ma bensì un cavallo dai nervi scossi. "Tu, tu sei un pazzo!", gridò Filippo riavendosi momentaneamente dalle risa, "Morto? E tu gli credi? Che poi se fosse morto, spiegami un po', da che genere di server ti avrebbe inviato il messaggio?" aggiunse duramente. Seguì un momento di silenzio.
"Io.. io.. io non so che dire" disse infine Federico sospirando. "Devi ammettere ecco, si, ecco.. devi ammette che la questione è strana, molto strana. E' in cima alla classifica, a punteggio pieno da quattro mesi. Possibile non dorma da quattro mesi? Il regolamento parla chiaro Filippo, lo sai meglio di me. Non è possibile che stia barando."
"Sei uno sciocco Federico." disse quasi sussurrando Filippo, "Sei uno sciocco, uno sciagurato. Hai dieci anni ma sei un'allocco. Hai una visione del mondo - scusa se parlo così piano ma sento dei passi attorno alla porta, potrebbero essere loro - dicevo, hai una visione del mondo che è a dir poco naif. Sicuramente il bastardo ha qualche parente, qualche aggancio tra il personale addetto al controllo del gioco. Ma se ci mettiamo d'impegno possiamo sgamarlo, inchiodarlo per le palle, te lo assicuro. D'altronde tu stai perdendo tempo a disperarti. Perché trascuri il gioco in un momento critico? Vuoi forse diventare terzo? Ti appoggi sugli allori solo perché abbiamo un buon distacco dagli altri concorrenti? Mentre tu stai qui a crucciarti, il nostro "morto" sta prendendo il volo. Non perdere tempo a visionare la classifica. Gioca! Gioca! .. Dannazione.. ora dev..". La telefonata si interruppe. Prima che la linea cadesse Federicò sentì chiaramente un urlo disumano. "Lo avranno beccato i genitori," pensò, e, lanciato il cellulare sul letto, ancor più demotivato di prima, tornò con gli occhi sul monitor.  Non c'erano dubbi: sulla tabella del sito era ben chiara la sua inferiorità rispetto al primo classificato. In piccoli caratteri si leggeva:

*Ranking* - aggiornato all'ora 23.42 -
1* The Crow: 392 hours, 32 minutes, 30 seconds
2* Feppo: 320 hours, 23 minutes, 12 seconds

Federico e Filippo si erano iscritti sin dall'inaugurazione del gioco online. In verità era Federico a partecipare attivamente, mentre Filippo, autodefinitosi "la mente", sosteneva il suo compagno con servigi alquanto particolari. Il gioco in questione, una vera moda di quei tempi, era di una semplicità disarmante.
Gli aspiranti partecipanti potevano iscriversi al gioco tramite il sito internet dello stesso, previo pagamento di una quota (sedici euro) da versarsi nuovamente allo scadere di ogni mese.
Non in pochi si lamentavano di questa caratteristica piuttosto innovativa. "Pagare per giocare?" si dicevano esterefatti, e d'altro canto i gestori, profondamente offesi, replicavano che tali spese erano necessarie per il corretto funzionamento del gioco. Solitamente non scendevano in dettagli e tutt'al più liquidivano la questione con qualche cenno sbrigativo sulla necessità di mantenere un server di dimensioni tali da consentire un sempre più costante afflusso di nuovi utenti. Già in quegli anni il gioco contava appunto oltre tre milioni e mezzo di partecipanti. Ad ogni utente - correttamente registrato - veniva fornito un username, una password e una scheda personale in cui collocare informazioni fondamentali tra cui: orientamento politico, sessuale, sesso, data di nascita, interessi particolari.
In molti sfruttavano questa particolare caratteristica del sito per interessi assolutamente fuori contesto. A tratti si aveva l'impressione di trovarsi di fronte a un enorme database di animali simili ai pokemon, classificati per abilità, forze, punti deboli, abitudini, professioni, hobbies, e ovviamente pronti ad accoppiarsi in caso di necessità; la chat ribolliva, non mancava un sistema di comunicazione vocale, di condivisione multimediale, e altre utilità in grado di far sentire il giocatore a casa propria, in un ambiente ospitale, rassicurante come una calda coperta cucita a puntino sulla testa.
Gli utenti intervistati a riguardo, sentivano necessario stimare quel luogo come "aperto al dialogo, alla conoscenza, alla diffusione, alla mescolanza, al profitto personale e collettivo".
"Non conta solo la classifica!" urlavano convinti nell'agitazione di qualche colorata manifestazione di piazza. E difatti, per quanto ben poco contasse, una classifica c'era, seguita appunto dal gioco. Certo, c'era pur sempre chi non si impegnava nella sfida, chi prendeva il tutto con molta filosofia, ma nella maggior parte dei casi la competizione innescava situazioni di puro agonismo in cui i duellanti erano pronti a farsi letteralmente a pezzi. C'era una sezione dedicata a quei rivali che, da lungo tempo intenti a superarsi a vicenda di poche posizioni, si scontravano a forza di videomessaggi intrisi di valide argomentazioni - non si contavano le allusioni alla carente igiene personale dell'avversario.
The Splite (questo il nome del gioco), all'apparenza piuttosto semplice, era figlio di un meccanismo diretto e spietato, capace di generare problematiche, ostacoli sempre nuovi atti a motivare il concorrente. Il regolamento base parlava chiaro.
Qui se ne riporta un breve riassunto: "Scopo del gioco: salire di posizioni nella classifica generale. Il primo classificato è il primo classificato, il secondo classificato è il secondo classificato, e così seguendo fino all'ultimo classificato che è l'ultimo classificato. Cenni generali: The Splite è una prova non comune di resistenza, di preparazione, che può rivoluzionare il vostro modo di vivere gettandovi di peso in un nuovo mondo da cui difficilmente riuscirete ad uscire.  The Splite inoltre (come dimostrato da studi certificati) aiuta il giocatore a rafforzare le proprie capacità d'organizzazione in vista di giornate nelle quali è sempre più difficile far conciliare impegni, bisogni, necessità e tempo libero. Svolgimento del gioco: Il partecipante, con sufficiente motivazione - e spirito d'iniziativa - deve tenere l'indice destro saldamente premuto sulla lettera [E] della tastiera per il maggior tempo possibile. Il punteggio è calcolato in ore, minuti e secondi ed aumenta appunto in base alla costanza del giocatore. La classifica viene aggiornata in diretta. Mentre il gioco è attivo, è severamente proibito toccare altre lettere della tastiera, pena riduzione di un punteggio da dieci a venti ore (per la disattivazione è necessario ricorrere al mouse, solo allora non si incorrerà in nessuna sanzione disciplinare). E' inoltre vietato usare qualsiasi altra parte del corpo per tenere premuta la lettera [E]. Vale solo ed esclusivamente l'indice destro della mano sinistra. Ondevitare violazioni di questo tipo, è necessario che ogni utente disponga di una webcam puntata nella zona interessata. Le immagini verrano trasmesse in presa diretta al personale di supervisione del server centrale di The Splite."
Su quest'ultimo punto sia Federico che Filippo si erano sempre detti perplessi: era mai possibile che l'operatore non si distraesse mai durante il suo turno? Come fosse possibile controllare così tanti giocatori non era dato sapere; i gestori di The Splite mantenevano un assoluto riservo a riguardo, manifestando più o meno la stessa indignazione relativa al problema del pagamento mensile di sedici euro.
Inizialmente Federico si era iscritto per semplice curiosità. Un nuovo gioco online, una nuova occasione per fare amicizie, che altro poteva mai comportare? Ma poi, come raramente gli accadeva, si era reso conto dell'incredibile soddisfazione data dall'aumentare dei numeri, delle ore che si accumulavano sulla tabella dei punteggi che andava sempre più mostrandogli la sua superiorità rispetto a chi non appariva se non scorrendo la lunga pagina che pareva destinata a non terminare mai.
Le prime volte che si trovò affascinato da quella discesa verso l'inferno degli ultimi, involontoriamente scoppiò a ridere pensando alla desolazione, alla miseria della sua felicità.
In fondo cosa faceva mai lui, così più in alto degli altri? Teneva solo un pulsante premuto! Dormiva qualche ora di meno rispetto ad altri giocatori; ma che altro? Cosa lo rendeva così inebriato di sé? Eppure, per quanto in fede sua cercasse di sminuirsi, la malia di quei numeretti lo aveva stretto senza via di scampo.
I numeri crescevano, i vertici della classifica si aprivano sotto la sua avanzata, e di notte, quando si accucciava tra le coperte, sorrideva nell'ombra gustando nella mente un successo macchiato da gravosi pensieri coperti di vergogna. Finì per immergersi in quel sogno dove lui, Federico, bambino, ragazzino di appena dieci anni, cavalcava quel destriero inaspettato, veloce come il fulmine, trascinato dalle urla di felicità di chi mai l'aveva ammirato per ciò che preservava dentro di sé.
Si vedeva ritto su un palco, grandi luci sulla fronte lo illuminavano da capo a piedi, e da sotto volti solidali lo invitavano ad unirsi a loro porgendoli tutte le mani che avevano a disposizione. E mentre quelli giacevano nell'oscurità degli spalti, lui dall'alto li giudicava in base alla sua classifica, pronto ad accoglierli pietosamente tra le sue braccia, ad averne cura nonostante la sua maestosa ed imperturbabile grandezza.
"Federico, Federico!" gridavano da ogni lato attendendo una sua risposta. E quel corpo tozzo vacillava rotolando dal piacere sul soffice materasso della sua camera da letto. Scoprì così un nuovo giorno, una nuova vita, dove ogni rinunzia per la [E] diventava un punto a favore, il nuovo vessilo della causa peronata, la dimostrazione evidente della sua costanza e del suo valore.
Con sforzo si tratteneva dall'andare al bagno, puntò la sveglia ancor prima delle sei, tralasciò lo spazzolino, l'igiene personale, si vide abbastanza grasso da tagliarsi da solo gli alimenti - sceglieva se rinunziare al pranzo o alla cena - accolse l'apatia come compagna, l'inerzia come eterna amica, e ai suoi genitori, alle loro preoccupazioni sulla sua salute, si impose con la forza del martire che schiaccia chi non comprende il suo martirio. "Io lo faccio per loro! Solo per loro!" gridava dibattendosi da chi voleva staccarlo dal monitor, "I miei fans si aspettano che io non ceda, che io sia sempre in testa al gioco!".
Ed effettivamente non mentiva.
Si erano creati veri e propri gruppi che lo approvavano, lo sostenevano, gli regalavano nomignoli affettuosi di cui sorridere alla sera di fronte al tramonto che lo ispirava inonandolo di pensieri d'autoesaltazione; all'alba ammirava estasiato un pezzetto di rosso farsi largo nell'oscurità dall'angolino della sua finestra schiacciata dal grande schermo a cristalli liquidi.  
Non mancavano neppure i detrattori della sua impresa, convinti in maggioranza di qualche suo raggiro, della sua malafede; ma che in fin dei conti accrescevano solo il suo ego, imbastendogli contro ridicoli teatrini di buffoni amanti del processo mediatico. "A Federico puzza il sedere!" riuscivano a malapena a dire in quei video chilometrici caricati ad arte su qualche sito di pubblico dominio. E con questo credevano realmente di sotterrarlo, di calpestarlo sotto la suola, senza rendersi minimamente conto di fargli pubblicità assicurata, di innalzarlo ancor di più in quelle nuvole in cui già affogava in abbondanza. Gli mancava il respiro dall'emozione estorta da quella fredda tastiera e dalla sua lettera [E].
C'era chi lo evitava, chi non si sincerava più delle sue condizioni, ma lui ne rideva convinto a pieno d'essere nel giusto, di non potersi più sottrarre al suo destino. Fu circa in quel periodo che conobbe Filippo. I suoi genitori gli avevano tagliato i fondi, tolto quei pochi denari che lo assicuravano alla gloria per l'eternità. Credeva d'impazzire, di non potersi più riprendere dallo shock, ma ecco appunto, quando tutto era ormai perduto, apparire il suo fan più devoto. "Tu puoi vincere. Puoi vincere questo gioco.", gli disse Filippo, "Io ti donerò quel che ti serve, lo strumento necessario perché il tuo sogno si avveri; insieme possiamo farcela." E detto ciò gli cacciò in mano una scintillante carta di credito ricaricabile.
Federico non voleva crederci.
Giurò eterna sottomissione a Filippo.
Da subito pensò che il suo nuovo amico fosse ricco sfondato (e decisamente annoiato) ma ben presto si rese conto che metteva di nascosto le mani in tasca dei genitori. Filippo, piccolo borseggiatore volante dai capelli biondo sbarazzino (che a contatto parevano seta e profumavano di dolcissima cannella), acuto osservatore del mondo e del suo girare, sgonfiava il portafoglio dei suoi con una disinvoltura da far invidia al più irreprensibile dei monelli.
Ed essendo egli compagno del conquistatore, braccio destro di quel Federico ormai sulla vetta dell'olimpo, si impegnò seriamente nella causa donando non solo il contante ma anche suggerimenti e tattiche fino ad allora impensabili. Quando Federico si trovava ormai in difficoltà, stremato dagli inseguitori che già lo tampinavano nella classifica ristrettasi dal continuo affluire di neofiti, Filippo fece grandi acquisti in farmacia, recuperando integratori, anabolizzanti, farmaci in grado di annullare quasi completamente la necessità di quel riposo fisico di cui tanto abbisogna qualsiasi essere umano. Federico era diventato pallido, con gli occhi scavati, lo sguardo scintillante d'una febbre sconosciuta, il corpo asciutto, teso come un nervo scoperto; ma era diventato anche invincibile. Rideva del suo nervosismo. Dormiva appena venti minuti al giorno e nessuno riusciva più a stargli dietro su The Splite.
Poi un giorno s'ebbe a verificarsi uno strano caso: comparve un degno antagonista, tale The Crow. Costui, che da sempre agonizzava tra il quarto e il quinto posto, approfittando forse di un momento di rilassamento di chi ormai si sentiva primo a priori, balzò in testa alla classifica recuperando il margine di distacco come se nulla fosse.  

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Altro / Tic Tac - terza e ultima parte
« il: Settembre 29, 2011, 15:00:31 »
Il vecchio lo rassicurò sforzandosi di sorridere e carezzandogli la testa con aria comprensiva - No caro, stai tranquillo, sei il primo di una lunga lista ad avermi detto una cosa del genere - Quindi lo prese per mano e andò insieme a lui a verificare quella strana storia.
- No ma aspetti.. - gli disse Carl fermandolo sulla porta dello scompartimento di quella carrozza - perché entra li? Non è questo il posto giusto! Dovrebbe essere più in fondo al treno! Qui siamo quasi in testa, ne sono certo! -
Ma il capotreno lo schernì con un cenno della mano e un risolino - Ma ragazzo mio! Tu ti sbagli! Mi hai descritto così bene gli occupanti.. deve essere per forza qua che è successo tutto! Vedi? - gli disse indicando il cappotto nero tra le due gemelle - C'è anche lui! -
Carl si convinse ed insieme entrarono, uno preparandosi al peggio, l'altro preparandosi ad accertare una storia nella quale c'erano punti di verità, di assoluta verità, e altri punti più che oscuri, sicuramente da delineare e verificare.
Il capotreno spiegò la situazione ai passeggeri. - No ma basta! Basta adesso! - disse subito la vecchietta aggredendolo e guardando con astio Carl - Eccolo di nuovo qui! Quest'uomo, signor Capotreno, questo insulso signorino - fece una pausa tremando tutta, con i ferri stretti stretti tra i piccoli pugni, poi aggiunse con tono acido - questo giovanotto, insiste da ore con questa storia! Ma qui non c'è nessun uomo con un cappotto nero, né tantomeno una stramaledetta bomba! Ahhh! Questi giovani d'oggi! - continuava la vecchietta accendendosi sempre più in viso per la collera - Questi giovani d'oggi non sono più quelli di ieri dato che quelli di ieri inevitabilmente non possono essere quelli di oggi! -
Dentro lo scompartimento ci fu un applauso generale e tutti abbassarono e alzarono la testa in segno di tacito assenso.
- Non la ascolti Signor Capotreno! - urlò Carl che ormai aveva perso la ragione e non sapeva più che pesci pigliare - Sono tutti d'accordo! Sono tutti d'accordo con l'uomo nero! Li ho visti! Li ho visti mentre complottavano con l'uomo nero e riparavano la sua diabolica sveglia rossa come il fuoco! -
A quelle parole il gruppo soffocò a stento le risate. La vecchietta, con il riso ormai alla bocca, la lingua a penzoloni, si piegò a terra con il supporto dei bastoncini di metallo - Oddio, oddio, vi prego.. vi prego.. - farfugliava tra il mormorio sommesso dell'incombente risata collettiva.
Carl però non si arrendeva, aveva perso a tal punto la testa che con furia rinnovata indicò il cappotto seduto in mezzo alle gemelle - Ma non lo vede quell'uomo signor capotreno? È là sopra! Seduto! In mezzo a noi! Tiene una bomba sotto il cappotto! Lo controlli! Controlli il cappotto! Vedrà che ho ragione! Come fa, come fate a non vederlo? -
Il capotreno scosse la testa, ormai certo che il ragazzo avesse perso la bussola. Ed effettivamente sulla poltrona non c'era nulla a parte il cappotto nero, sudicio, privo di vita.
- Coraggio, andiamo - disse sconsolato il Capotreno a Carl, prendendolo per una spalla e accompagnandolo verso la porta - voglio evitarti ulteriori pene. A che fermata devi scendere? I tuoi genitori vengono a prenderti alla stazione vero? Sembri un po' troppo piccolo per viaggiare da solo -
Carl non lo sentiva neanche, vedeva solo di fronte a sé le facce diaboliche dei suoi aguzzini: la vecchia, le gemelle, l'uomo mucca e infine l'omino nero avvolto nel grande cappotto; tutti avevano le facce rosse, contratte dalle risate che trattenevano solo per la presenza del capotreno, dell'autorità. Ed egli con tristezza sapeva che una volta uscito da quello scompartimento, da quel treno, quelle risa sarebbero risuonate nella sua testa per l'eternità. Così, scoppiando di nuovo in lacrime, liberandosi con uno strattone dalla presa fraterna del capotreno, gli si inginocchiò davanti agli occhi supplicandolo. - La prego! La prego! Ispezioni l'uomo con il cappotto! Lo faccia per me! Sono anche io umano come loro! Anche io ho i miei diritti! Mi dia una sola possibilità! Una sola la prego! -
Il capotreno, agitato interiormente da quelle suppliche, con gli occhi sbarrati, guardava adesso con curiosità quel cappotto a prima vista inoffensivo.
"Possibile che questo ragazzo si dia cosi tante pene per nulla?" pensò "In fondo, cosa mi costa controllare? Lo farei felice.. almeno credo.. beh.."
Quindi, senza più tentennamenti, si decise e con un gesto secco, veloce, affondò la mano nel cappotto e lo sollevò da terra lasciandolo penzolare in giù.
- Vedi caro? Non c'è nulla! Proprio nulla! - disse a Carl scuotendo energicamente il lurido soprabito; e in quell'istante un oggetto di metallo nero cadde per terra sotto gli occhi increduli di tutti. Il display segnava meno dieci secondi all'esplosione. Tra tutti gli sguardi di orrore, pietrificati dall'impotenza di quella situazione, solo quello di Carl raggiava di inaudita felicità. Ed egli rideva, rideva come un cretino ammaestrato a ridere sin dalla nascita, con gli occhi iniettati di sangue e la bava alla bocca
- Siiii! Siiii! Avevo ragione! Avevo ragione io! A me la gloria! E lei.. lei Signor Capotreno - disse indicandolo sprezzantemente con il suo indice ed esibendosi in uno sfavillante saltello a piedi uniti - Lei che mi ha dato ascolto, lei è proprio un cretino! -
Il capotreno si buttò a terra e guardò il display dell'oggetto metallico. "Possibile? Possibile manchino ancora due secondi? Perché? Perché l'ho fatto?" si disse con le lacrime che gli annebbiavano la vista; poi, un attimo prima dell'esplosione, la vecchia lo guardò sconsolata e con voce tremante gli sputò addosso la sua sentenza:
"Terroristi!"

E l'esplosione fu tale che il corpo di Carl, tutt'ora, diviso in svariati pezzi, si aggira di notte tra le porte delle città, strisciando al campanello per rendere tutti partecipi della sua vittoria. "Avevo ragione, avevo ragione" sibila un suo orecchio o una sua gamba, quando qualcuno gli apre incautamente e lo invita ad entrare sulla soglia di casa.

Ed io caro lettore, alla fine di questo racconto vorrei chiederti un unico favore: se anche solo il suo cervello dovesse venire alla tua porta, per quanto egli si sforzi accanto al campanello, tu non permettergli mai di entrare. 

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Altro / Tic Tac - seconda parte
« il: Settembre 29, 2011, 14:59:03 »
Carl tendeva l'orecchio con apprensione, ma del ticchettio neanche l'ombra. Tra un sospiro e l'altro cominciò a pensare di essersi immaginato tutto: cercava di rassicurarsi interiormente, di pensare che tutte le sue preoccupazioni fossero frutto della fantasia, di un abbaglio momentaneo, ma non riusciva in alcun modo a distogliere lo sguardo da quell'uomo nero e, con le orecchie all'erta, si aspettava di sentire nuovamente il ticchettio.
Passò un'ora.
Ne passarono due.
Poi decise di passare anche la terza.
Carl si era rassegnato: il ticchettio non sarebbe più tornato; in fondo quell'oggetto metallico poteva essere qualsiasi cosa, no? Quindi, per la prima volta in tre ore, riuscì a distogliere lo sguardo dal cappotto. Lanciò un'occhiata all'orologio: era convinto, sicuro che sarebbe arrivato al più presto alla stazione.
Le immagini dal finestrino si succedevano una dopo l'altra, tra sfumature di colori sempre più veloci e confusi. Nello scompartimento vigeva solo un profondo silenzio.
Le gemelle erano tornate a sedere, il lettore mp3 spento e le mani nelle tasche; non dormivano ma gli occhi erano fissi in un punto imprecisato che era il medesimo per entrambe. La vecchietta, raccolta da terra la sua chilometrica calzetta, si stava godendo un minuto di riposo con i ferri saldamente stretti nelle dita. L'uomo mucca non trovava pace tra le gallerie nasali.
Carl sbuffò annoiato: gli era rimasto solo il suo amico, il suo uomo nero dal cappotto nero.
Il losco individuo, assorto in chissà quali pensieri, non dava segni di vita e aveva smesso addirittura di sudare. Carl lo osservò imprecando mentalmente "Beh, cosa stai fermo lì? Dai, fai qualcosa! Dannazione! Ero certo che quella fosse una bomba e invece.. mi hai deluso! Se almeno tu potessi dirmi cosa nascondi sotto quel cappotto.. perché ti ci stringi tanto? perché?".
Carl sussultò e un brivido gli corse su per la schiena: l'uomo nero si era mosso, buttando furtivamente una mano all'interno del suo cappotto. Frugava senza sosta e Carl moriva di curiosità "Allora, allora, mi vuoi far crepare eh? Quanto ci metti a tirare fuori qualcosa da lì? Sbrigati! E che sia convincente!". Tra le dita dell'uomo nero, apparve infine una sveglia rosso fuoco, luccicante quanto il suo viso.
Era una sveglia di vecchia fattura, cromata, con due antennette di ferro sulla testa. Carl sbiancò vedendola: possibile fosse tutto lì il segreto? La sveglia, probabilmente scarica, era ferma a mezzogiorno, con le lancette pietrificate sullo sfondo bianco.
Il suo padrone la osservava tristemente, aspettandosi che da un momento all'altro riprendesse il suo funzionamento. Le tirava dei pugnetti con la mano dalle tre dita ma non c'era nulla da fare; la sveglia non ne voleva sapere.
L'omino nero si arrabbiò a tal punto da alzare il braccio nel gesto di chi sta per scaraventare via un oggetto inutile; ma, con grande stupore di Carl, in suo aiuto venne una delle due gemelle.
Tutta felice di rendersi utile, la piccoletta gli allungò delle batterie appena trafugate dal suo lettore mp3.
L'uomo nero la ringraziò con un cenno del capo e sorrise benevolo. Lei gli si accostò come una nipotina, sussurandogli all'orecchio qualche parola che Carl tentò inutilmente di decifrare. Due secondi dopo, inserite le batterie, la sveglia tornò a bussare con forza e vigore nelle sue orecchie:
"Tic, tac, tic, tac, tic, tac"
Carl si sentiva un perfetto idiota: tirò un sospiro di sollievo per la mancata brutta figura. Cosa sarebbe successo se si fosse messo a gridare "Alla bomba!" e quel tipo gli avesse sbandierato sotto gli occhi la sua sveglia? Chissà che risate! E non dalla sua bocca! Certo, c'era da ammettere che un tale strumento, ai giorni nostri obsoleto, non era proprio il più adatto per misurare il tempo, specialmente in viaggio.
Ma con questo? Forse quel tipo non si poteva permettere altro! Chi era Carl per giudicarlo? "C'è mancato un pelo! Proprio un pelo! Per fortuna quella ragazzina ha messo tutto in chiaro!" si ripeteva fra sé Carl, osservando con malcelato stupore il suo vecchio aguzzino che d'un tratto si era trasformato in un affabile passeggero.
L'uomo con il cappotto, condizionato dal gesto amichevole della gemella, si profondeva in sorrisi aperti, si complimentava con la vecchietta per la sua calzetta, si mostrava interessato alla pancia dell'uomo mucca e, carezzandogliela, ironicamente, chiedeva di quanti mesi fosse. A quella battuta Carl si era aspettato il peggio, pronto a godersela di gusto nel caso in cui l'energumeno si fosse preso la briga di pestare a dovere lo straniero con il cappotto.
Contro ogni sua aspettativa però, l'uomo mucca, sorridendo beffardo, aveva risposto al suo interlocutore con una semplice frugatina di naso. Quel dito, roteando nella cavità, sembrava dire "Eh! Eh! Eh! Questa te la posso perdonare! Ma alla prossima, alla prossima!"
Tra altre gioiose battute di questo tipo, pacche sulla schiena, sorrisi smaglianti e discorsi variegati, si era venuta a instaurare nel gruppo un'aura di familiarità, come se tutti quanti, dalla signora anziana alla gemella poco più che adolescente, si conoscessero da una vita.
Carl li guardava con avida curiosità, chiedendosi come avessero preso confidenza in così poco tempo. Si sentiva lacerare dall'invidia poiché era l'unico a non entrare in comunicazione con loro; l'unico a non comprendere da dove scaturissero tutte quelle effusioni improvvise. Dei loro discorsi non capiva nulla. I suoi vicini parlavano una lingua sconosciuta e più egli si sforzava di tradurla, più gli risultava incomprensibile. Le parole gli arrivavano lente, soffuse, quasi provenissero dall'anfratto di una buia caverna.
L'uomo mucca alzava al cielo una gemella, la faceva roteare, ridere al tempo stesso e Carl si chiedeva: perché? Guardandolo con occhi pieni di vita, di trasporto, la vecchietta avvolgeva nella sua calzetta l'uomo con il cappotto nero e, in quello stesso istante, le due gemelle, sia quella sospesa nel vuoto, sia quella ancora seduta sulla terra ferma, vibravano di risate infantili, spontanee. Tutti sembravano ubriachi di felicità e Carl si chiedeva: perché? Che senso ha?
Più loro si mostravano, più loro non dubitavano di nulla, esprimendo l'unica verità in quella gioia, più lui si sentiva escluso, schiacciato, e nel petto gli cresceva un fiore di ferro. Chiuso in se stesso, prigioniero, guardò nuovamente l'orologio sperando che il viaggio finisse al più presto.
La noia tornò ad invaderlo e così, in mancanza di altri pensieri, si concentrò nuovamente sulla bomba.
Eh, sarebbe stata una bella avventura la bomba! "Chissà cosa sarebbe successo se davvero ci fosse stata una bomba!" pensava Carl cercando di non fare caso alla vita che gli ronzava attorno come un insetto fastidioso "Se avessi dato l'allarme, sicuramente l'uomo con il cappotto nero, sentendosi braccato, si sarebbe fatto esplodere e boom! .. Dio, che tragedia.. ma.. anche se avessi avvertito uno dei miei vicini sottovoce? Quanto tempo ci sarebbe voluto a fermare il treno e a metterci in salvo? Volendo potevamo gettarci dal finestrino ma poi.. poi? Questo treno va troppo veloce... e.. BAH! Alla fine si trattava solo di una stupida sveglia.." .
E pensava, pensava, pensava senza tregua, con la testa china e lo sguardo perso nella punta dei piedi. D'improvviso sentì chiaramente il ticchettio della sveglia rossa. Quel rumore adesso era cosi forte da sovrapporsi alle voci incomprensibili dei vicini: perché era rimasto nascosto così a lungo in quel vociare insignificante?
"Tic, tac, tic, tac, tic, tac"
Carl alzò la testa, e gli occhi, che da tempo non incrociavano più il cappotto nero, gli uscirono letteralmente dalle orbite. L'omino nero, evidentemente distrutto dal caldo, si era spalancato con non curanza il suo magnifico cappotto lucido, tirato ad arte, coi grossi bottoni d'oro in bella vista.
Dentro, a parte un'immensa oscurità, c'era quel "famoso" oggetto di metallo già visto in precedenza da Carl. L'oggetto aveva un display e in cifre rosse segnava un conto alla rovescia di dieci minuti.
"La bomba!" esclamò Carl quasi senza accorgersene, ed immediatamente si tappò la bocca con le mani. Si guardò attorno: tutto immutato: gioia, allegria, spensieratezza. Che non lo avessero sentito? Impossibile! E allora perché, mentre il conto alla rovescia procedeva lento, sostituendo una cifra dopo l'altra, la vecchietta ancora si ostinava ad avvolgere l'uomo nero nella sua calzetta calda?
Per quale motivo le due gemelle facevano spallucce di fronte a quel display? Perché l'uomo mucc... dove cavolo era finito l'uomo mucca? Carl cacciò un urlo mostruoso: l'uomo mucca, probabilmente nel tentativo di recarsi al bagno, si era incastrato tra le porte dello scompartimento. Il suo corpo bloccava l'unica via d'uscita e, per quanto si sforzasse, il pover uomo non riusciva a divincolarsi da quella presa letale. "Dobbiamo uscire! Dobbiamo uscire di qui!" lo esortava Carl spingendolo con tutte le sue forze "Una bomba! Una bomba! È impossibile che quelli non la vedano! È sotto i loro occhi! Sono tutti d'accordo! Non c'è altra spiegazione!".
Ma l'altro non capiva di che stesse parlando e per la prima volta gli rivolse la parola in una lingua comprensibile - Cosa stai dicendo? Volevo solo andare al bagno e mi sono incastrato! Dove la vedi questa fantomatica bomba? -
Carl si sentì sollevato: finalmente qualcuno diceva qualcosa di comprensibile! - Ma come!? - gli disse continuando a spingere - È proprio dietro di te! Voltati per Dio! Voltati e la vedrai! - Ma l'uomo mucca, bloccato a quel modo, non riusciva a muovere un muscolo, figurarsi il collo o la testa! Dopo innumerovoli tentativi, alla fine entrambi gli uomini ruzzolarono oltre la soglia con un terrificante boato.
Carl sudava, tremava come un cencio, alimentato dalla tensione in atto in tutto il suo corpo. Si sentiva dannatamente bene! Con un balzo si alzò da terra e si avventò minaccioso sull'uomo mucca - Tu! Dannato uomo mucc.. - Ma non fece in tempo a completare la frase che l'altro lo schiaffeggiò con furore - Ma come ti permetti cane? Io ho un nome! Sei tu che non lo conosci e non lo vuoi conoscere! Pensi che sia io il cretino, ma sei tu! Ma guardati poveraccio! Mentecatto! Vai in giro con la camica in pieno inverno! E sei anche più grosso di me! Ma come ti permetti!? -
Carl, stupefatto, guardò oltre la finestra della carrozza sentendosi gelare il sangue nelle vene. Fuori nevicava incessantemente: le case color mattone coi tetti ricoperti di zucchero, il fiume ghiacciato, le balle di fieno tra i campi devastati, i fili d'erba con la punta congelata, tutto tremava sotto la tempesta e tutto era nitidamente visibile; il treno andava a passo d'uomo.
Tutto faceva presagire che si sarebbe fermato presto, ma nei dintorni, come Carl poteva ben vedere, non c'erano fermate o stazioni di sorta. Che già si sapesse della bomba? Che si fosse deciso di fermare il treno? Che tutti quanti fossero già pronti all'evacuazione?
- Non è possibile! - urlò di rabbia Carl - No! NO! IO l'ho vista la bomba! Soltanto io! Mio è il merito! Mio! Questo treno non può fermarsi! Nessuno può abbandonarlo senza sapere chi ringraziare! - e senza più badare al suo vicino di scompartimento, si lanciò di corsa verso la carrozza del capotreno.
Corse a perdifiato su per la galleria d'acciaio che gli si stendeva dinanzi con la sua moltitudine di porte, di carrozze, di scompartimenti angusti e silenziosi. Ma, forse a metà strada, o forse neanche a un quarto, sentì cedere le ginocchia: quanto mancava alla meta? Dov'era la testa di quel treno? Si guardò il polso a caccia dell'orologio. Nulla, l'oggetto era sparito. Che l'avesse perso durante la corsa? Quanti minuti potevano mancare all'esplosione?
Senza più cognizione del tempo, in preda al panico, Carl decise di fare affidamento ai passeggeri del treno. Non poteva indugiare oltre, poteva mancare pochissimo e tanto valeva tentare il tutto per tutto. Ma non fece in tempo ad avvicinarsi ad uno scompartimento che, guardandoci dentro dai vetri, gettò un grido paralizzandosi sul posto. Sulle sei poltroncine c'erano due gemelle, una vecchia e un uomo molto ma molto più grosso di lui.
"No! Ma com'è possibile? Sono forse tornato indietro al punto di partenza?". Quella supposizione si rivelò sbagliata: negli scompartimenti successivi Carl trovò sempre le stesse persone; tutti quanti, vedendolo, si voltavano nella sua direzione sorridendo cupi in volto.
"Sono tutti! Sono tutti d'accordo!" urlò tendendo le corde vocali al punto che per la disperazione gli sembrò di sentirsele spezzare in gola. Forse attratta da così tanto dolore, da così tanta sofferenza, una mano gli si poggiò sulla spalla ed egli, in ginocchio, con le lacrime agli occhi, sollevò lo sguardo verso il suo salvatore.
"Cos'hai ragazzo?" gli domandò l'uomo burbero apparso al suo fianco. Indossava una divisa blu, con una giacca a righe rosse che gli conferiva un'aria autoritaria, e, squadrando da capo a piedi Carl, si lisciava i lunghi baffi con entrambe le mani.
- Oh ma lei, lei è il capotreno! - disse Carl allungando una mano sulla gamba dell'uomo e stringendogliela così forte da fargli male - La prego! La prego! Mi aiuti! -
E con voce rotta dai singhiozzi, Carl raccontò per filo e per segno la sua storia al capotreno. Durante il racconto il capotreno si mise più volte le mani tra i capelli e arrivò a strapparsene qualche ciocca quando Carl gli sibilò a un orecchio: "Ah ma... ho visto che il treno si sta fermando.. però ecco, non c'è una stazione qui. Qualcuno vi aveva già avvisato della bomba? Ditemelo! Ditemelo vi prego! È solo mio il merito, nessuno, nessuno l'ha vista a parte me!"

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Altro / Tic Tac - prima parte
« il: Settembre 29, 2011, 14:56:08 »
Carl si svegliò allarmato, fradicio fino alla punta dei capelli. Gigantesche gocce di sudore gli scendevano lentamente dalla fronte, e gli occhi, grossi, bianchi, si aprivano e si chiudevano al ritmo pulsante del cuore.
Che fosse tutto finito? Che l'incubo fosse davvero terminato? Aveva sognato di camminare nella via principale della sua città: allegro, spensierato, con un senso di leggerezza nella mente, si guardava attorno meravigliandosi della folla, assaporandone le gomitate e il mormorio sommesso. Tutti i volti, se pur estranei, gli sembravano cordiali, gentili, quasi che avessero qualcosa in comune con lui; qualcosa al di là dell'essere umani.
Ad un tratto però, come se il tempo si fosse fermato, tutte quelle persone si erano immobilizzate sul posto, voltandosi ad osservarlo. L'uomo adesso si sentiva schiacciato da quelli sguardi e notò, rabbrividendo, che tra quella massa, tra quell'informe serpentone umano, non c'era un solo individuo che non conoscesse di persona: la madre, il padre, il fratello, gli amici più cari, tra migliaia di cloni perfettamente identici, lo squadravano da capo a piedi.
Carl sentiva un senso di disagio opprimente; nonostante conoscesse tutti, aveva la sensazione che in ognuna di quelle facce si nascondesse qualcosa di misterioso, di irrisolto, di malvagio; lo stomaco gli pesava come un macigno e si sforzava di sorridere di fronte a quell'interessamento collettivo. Ormai era chiaro che si trattava di un sogno e la sua intenzione era appunto quella di svegliarsi. Ma non succedeva nulla. Stava fisso, imbambolato, paralizzato in quel punto della strada e lo scenario non cambiava.
"Quando mi sveglio? Quando?" pensava "Vorrei, vorrei guardare in basso, verso la punta dei piedi! Vorrei ma non posso! E perché, perché non mi sveglio?". Scoppiò una risata generale, acuta, e Carl vide ghigni osceni affacciarsi su ognuno di quei volti; facce scure, nere d'inchiostro, gli ridevano addosso facendo brillare dentature perfette; tutti, tutti ridevano e lo indicavano con disprezzo.
In quel momento si era appunto svegliato, sorpreso che nessuno avesse reagito in modo scomposto al suo urlo - Che avesse urlato solo nel sogno?
Carl si trovava da parecchio tempo in viaggio. Non sapeva dire da quanto tempo viaggiasse, ma la sua meta era certamente vicina e non poteva mancare molto alla fatidica fermata. Incastrato goffamente nella poltroncina del treno, con il suo grosso ventre racchiuso nella camicia bianca, assomigliava a una mozzarella gonfiata con cura. Il treno, un mezzo all'avanguardia isolato acusticamente, avanzava velocemente ma nel silenzio più assoluto.
L'uomo non si era portato dietro né libri, né musica, né altre distrazioni di alcun tipo, così, dopo due minuti, si era addormentato senza rendersene conto. Al suo risveglio, tornato finalmente alla realtà, si era preoccupato di osservare attentamente le espressioni dei suoi vicini di scompartimento. Che avesse russato durante il sonno? Forse aveva disturbato qualcuno senza neanche volerlo! "No" si disse Carl "dalle loro facce sembra che vada tutto bene. Si, si, va tutto bene!".
C'erano un totale di sei posti in tutto lo scompartimento. Alla destra di Carl si trovava una donna anziana, minuta, con pochi capelli bianchi sulla testa lucida. La nonnina era tutta intenta a fare la calzetta con due grossi e appuntiti bastoncini di metallo. Fu la prima a cui Carl rivolse un'occhiata preoccupata. La vecchia non se ne avvide nemmeno, tanto era presa dal suo lavoro. Sorrideva beata, con gli occhi luccicanti e i denti distrutti da una serie di profonde carie.
All'altro lato, alla sua sinistra, Carl era pressato da un uomo due volte più grosso di lui. Questi era di una mole bovina, sproporzionato a tal punto che il suo braccio, molto educatamente, sostava con il gomito nei pressi dell'ombelico di Carl. Ogni tanto l'uomo mucca ruttava, si metteva un dito nel naso e, stiracchiandosi con versi baritonali, distendeva entrambe le braccia dando sollievo al povero Carl. Certo, era stato un bel miracolo riuscire a dormire con un vicino del genere! Carl lo sopportava dall'inizio del viaggio e mai, nemmeno una volta, si era permesso di rimproverargli qualcosa. E anche adesso, scrutandolo in silenzio, quasi fosse convinto che quell'uomo potesse essere stato disturbato dal suo sonnolino improvviso, sorrideva comprendendo il disagio dovuto a qualche chilo di troppo.
Nei posti di fronte, solo quelli laterali, sedevano due gemelle vestite allo stesso modo, truccate allo stesso modo, con la stessa espressione su occhi, bocca e naso. Da quando il treno era partito, le due ragazze, almeno da quanto poteva ricordare Carl, agitavano gambe e braccia ipnotizzate dal suono blasfemo del loro lettore mp3. Tutt'ora erano alle prese con le stesse convulsioni frenetiche, manco fossero state due epilettiche felici nella loro condizione. Erano avvolte in vestitini bianchi, candidi; dalle gonnelline, e dalle trecce dei capelli castani, svolazzavano a ritmo di musica una serie di nastrini rosso fuoco.
A Carl bastò osservarne una per capire che neanche il deragliamento del treno avrebbe potuto disturbarle in qualche modo. "Ah, beata gioventù!" pensò sospirando, lui che ormai si avvicinava ai diciotto anni d'età. Carl si sentiva un vero uomo vissuto poiché, per abitudine, guardava seriamente i telegiornali, prendeva a calci i cartoni del latte se la mamma osava riporli nel frigo, pagava una bolletta al semestre - solitamente quella del gas - e si radeva quotidiniamente con una sciabola. La spada curva, affilata, gli era stata regalata dal nonno - archeologo mediorientale - per il giorno del suo tredicesimo compleanno. "Ah! Ricorda giovanotto!" gli aveva detto il nonno sfoderando l'arnese dalla guaina infiocchettata a guisa di regalo "Questa la devi conservare fino ai sedici anni! Solo allora potrai usarla per raderti! È una tradizione di famiglia!". Dopo di che, per mostrargli quanto fosse affilato lo sciabolone, aveva menato alcuni fendenti all'aria, distruggendo una serie di mobili e souvenir di vario genere.
Carl, rassegnato all'idea di non aver procurato nessun dispiacere ai suoi inquilini, notò all'istante, solo in quel dato momento, un particolare piuttosto ambiguo: nel posto libero tra le gemelle, proprio di fronte a lui, c'era un cappotto nero, lungo e sudicio. Carl non ricordava di averlo mai visto prima del suo risveglio. Di chi poteva essere quello strano indumento? Era troppo stretto per l'uomo mucca e troppo inusuale sia per la vecchietta che per le due gemelle.
Del resto dal finestrino il sole splendeva con forza inaudita, illuminando, quasi volesse bruciarle, distese di campi, di alberi, di fiumi, abbracciati l'un l'altro in una macchia indistinta, sfuggevole, dove tutto era luce, vita e calore. Potevano esserci almeno quaranta gradi all'esterno e altrettanti all'interno del treno, dove, manco a farlo apposta, l'impianto dell'aria condizionata era in sciopero dall'inizio del viaggio. Tutti sudavano copiosamente e l'aria profumava di insaccati scaduti.
Che senso aveva dunque quel cappotto? "Tutto, tutto deve avere una ragione!" pensava Carl che in ogni cosa vedeva un filo logico, un perché, e anche quando questo "perché" sembrava non esistere, lo modellava ad arte su basi pressoché inesistenti. E stava proprio pensando a queste basi quando notò con terrore che dal lungo cappotto nero - che adesso sedeva comodo ed eretto sulla sua poltrona - penzolavano due piccole scarpe luccicanti come liquirizia lucidata.
Le calzature dondolavano, si muovevano, visibilmente agitate da qualcosa al loro interno. Dal bavero del cappotto, dove fino a poco prima non c'era niente, era apparsa la testa di un uomo nero come il carbone, con occhi vitrei e un espressione guardinga. Il suo volto, liscio come quello di un bambino, faceva pensare a una palla da bowling di piccole dimensioni. Le mani, minuscole e coperte da guanti in pelle marrone, fuoriscivano appena dalle maniche del cappotto, mostrando solo una serie di dita. Dalla manica sinistra sbucavano sette dita, da quella destra appena tre.
Carl spalancò la bocca interdetto: da dove era saltato fuori quel tizio? Si certo, dal cappotto, ma come? Possibile se ne stesse nascosto là dentro come una tartaruga nel suo guscio? O era il cappotto stesso ad averlo generato sull'istante?
Carl intendeva porre tutte queste domande ai suoi vicini che, come lui, avevano certamente assistito allo strano fenomeno. Ma nessuno di loro sembrava minimamente preoccupato dal nuovo arrivato. La vecchia continuava a fare la calzetta, l'uomo mucca si schiacciava con audacia una serie di brufoli purulenti e le due gemelle si imitavano a vicenda, improvvisando improbabili passi di danza.
"Possibile?" si chiese Carl guardandoli uno ad uno con terrore "Possibile che nessuno di loro trovi strano questo uomo avvolto nel suo cappotto nero? Quanto ci si stringe poi! Come mai non lo tiene un po' aperto? Almeno un po'! Siamo in Agosto! In Agosto inoltrato! C'è qualcosa sotto! Lo sento! E poi diamine, quanto suda! Suda in maniera strana però, non penso sia per il caldo!". Ed infatti il minuscolo omino nero sudava esageratamente, persino più dell'uomo mucca.
Si guardava attorno con aria spaventata, spaesata, quasi si sentisse circondato da un esercito nemico pronto a farlo prigioniero e portarlo di filato al patibolo. Da quel cappotto Carl d'improvviso sentì nitidamente un rumore, un ticchettio simile a quello di una sveglia:
"Tic, tac, tic, tac, tic, tac"
- Va tutto bene? - chiese Carl allungando la testa verso il suo vicino nero. Per tutta risposta l'omino lo guardò serio e dopo due secondi esplose in una sonora risata. Rideva così fortemente, così gioiosamente, che le mascelle gli vibravano a scatti, imitando le convulsioni delle gemelle.
Rimase in quella posa qualche secondo, coi denti luccicanti in bella mostra, poi si fece nuovamente serio e tornò a guardarsi attorno con la stessa preoccupazione di prima.
"Tic, tac, tic, tac, tic, tac"
Anche Carl roteava gli occhi qua e là, a caccia di qualche reazione dei suoi vicini. Ma ancora una volta si rese conto della loro indifferenza: la vecchietta faceva la sua calzetta tenendo un ferro con una mano e l'altro con la bocca; l'uomo mucca sputava per terra a intervalli regolari di cinque secondi; le gemelle si erano assopite con il lettore mp3 acceso a tutto volume.
Era lui l'unico a nutrire dei sospetti di fronte a quel losco individuo? "No" pensava "È assurdo. Ma nessuno ha fatto caso a quella risata fuori posto? Nessuno, nessuno che lo guardi! È un uomo nero, avvolto in un cappotto nero ad Agosto inoltrato.. ed è dentro un treno! E nessuno, nessuno che lo guardi! E quel... quel rumore...".
"Tic, tac, tic, tac, tic, tac"
Carl avrebbe voluto attirare in qualche modo l'attenzione dei suoi vicini, ma più il tempo passava, più non si decideva a dire una parola. Si vergognava terribilmente. Se fino ad ora tutto era sembrato normale a quelle persone, chi era lui per giudicare quell'uomo nero e avanzare anche il più semplice dei sospetti? Che figura ci avrebbe fatto, se una volta dato l'allarme, i suoi vicini lo avessero guardato esterefatti, disgustati dai suoi sospetti senza fondamento? "Oh! Ma che volete che sia!" gli avrebbero potuto dire "È possibile che il signore si senta male e abbia bisogno di avvolgersi nel suo cappotto!".
Questo ragionamento non faceva una piega e Carl lo sapeva benissimo. Per quanto fosse spaventato da quell'uomo, per quanto guardasse con avida curiosità il suo cappotto gigantesco, sentiva di non avere ancora prove a sufficienza per tentare la sorte e dire qualcosa di allarmante ai suoi vicini.
Intanto quel fastidioso rumore cresceva d'intensità, e più saliva di volume, più l'omino nero sudava.
"Tic, tac, tic, tac, tic, tac"
Carl, paonazzo in volto, con il respiro bloccato in gola, vide l'individuo aprirsi un poco il cappotto sul petto e ficcarci dentro la testa alla ricerca di qualcosa.
La sua testa era così nera, calva, lucente, che scompariva del tutto, mimetizzandosi nell'ignoto del sudicio cappotto. Quando riemerse da quel mare di petrolio, gli occhi gli scintillavano incastonati come diamanti e la bocca gli si distorceva in un ghigno soddisfatto.
Aveva lasciato il cappotto ancora lievemente aperto, e da quel punto Carl potè scorgere, solo per un istante, un oggetto di metallo legato con del nastro isolante. "Una bomba!" pensò subito "lo sapevo! Lo sapevo! E adesso, adesso sicuramente anche loro..." ma osservando i suoi compagni di viaggio, si rese conto, inorridito, della triste verità.
La vecchietta era solo a metà dell'opera. Teneva entrambi i bastoncini di metallo nella bocca, faceva la calzetta muovendone uno solo con la lingua e tenendo l'altro di riserva, incastrato tra l'arcata dentale superiore e quella inferiore. La calzetta, ormai lunga qualche metro, si attorcigliava alle gambe dell'uomo mucca e questi ci sputava sopra come se fosse nell'atto di benedirla.
Le due gemelle, in piedi, proprio al centro dello scompartimento, giocavano alla corda usando il filo delle cuffie. Saltavano a piedi uniti, sorridendo di bontà infantile.
Nessuno, nessuno dei vicini di Carl si era accorto di nulla. Erano tutti presi dalle loro occupazioni, tutti estraniati da quel pericolo incombente.
Nel mentre l'individuo nero aveva già serrato il cappotto e fischiettava tranquillo. Carl, al limite della disperazione, si accorse con terrore che il rumore, il ticchettio, era scomparso. "No! NO!" pensò "adesso come faccio!? Era l'unica prova, l'unica mia giustificazione per dare l'allarme! Ma ora?".
Carl immaginava di dare l'allarme tutto sicuro di sé, di bisbigliarlo a un vicino o di gridarlo come se avesse voluto renderne partecipe il mondo intero. A quel punto però, se avesse avuto torto, per evitare almeno in parte una figuraccia, poteva giustificarsi del suo abbaglio solo facendo riferimento a quello strano ticchettio.
"Ma adesso?" pensava appunto "Adesso che anche quello non c'è più! Come faccio? Se mi sbaglio tutti mi guarderanno di sbieco, tutti mi daranno del pazzo! Tutti mi rideranno addosso perché non avevo motivazioni valide per dare l'allarme! Ci farò una figuraccia! Potrei giustificarmi con il cappotto nero! Ma.. no.. non posso. Quell'uomo potrebbe essere semplicemente malato, in preda ai brividi febbrili! Mentre con il ticchettio.. beh.. a meno che non si porti appresso una sveglia.."

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Altro / Svegliarsi
« il: Settembre 29, 2011, 13:15:25 »
Quando mia sorella salta sul letto, capisco che è ora di svegliarsi. Ed è strano. Per prima cosa perché non vive più con me da tempo: non ricordo di preciso da quanto. Inoltre sembra non dorma mai. Salta e basta; e salta con una certa decisione, con spirito sportivo e gaiezza assoluta.
Di solito succede alle sei del mattino. La sento saltare, afferro il lenzuolo e mi siedo di scatto. Poi stropiccio gli occhi e la osservo per qualche secondo.
Indossa abiti bizzarri, messi a casaccio: ha uno strano gusto nel vestire - specialmente per chi altro non ha da fare se non saltare sul letto.
Non è mai in pigiama.
Gonne corte simili a grandi fogli di cartapesta, camice larghe che le evidenziano il magrissimo collo di un pallore sconcertante, scarpe da tennis a strappo; il suo abbigliamento, unito all'indole di scapestrata saltatrice, la ringiovanisce rendendola ai miei occhi poco più che un'ossuta bambina. È talmente magra che sembra un palo della luce.
Quando poi, dopo essermi lungamente stiracchiato, tento di rivolgerle la parola, mi ritrovo a chiedermi se non sia del tutto scema. Non ha l'aria intelligente, questo è vero, ma il suo silenzio lascia esterefatti.
Ormai dovrei esserci abituato; invece insisto. Sono ridicolo; eppure insisto.
All'inizio la chiamavo per nome. Urlavo tentando di sovrastare il rumore delle molle percosse a ritmo frenetico. Ma lei non si degnava nemmeno di rivolgermi lo sguardo.
A volte semplicemente sembrava altrove, persa in pensieri profondi. Così di mattina in mattina la scena si ripeteva; e si ripete tutt'ora.
Con l'avanzare delle settimane ho abbandonato l'idea di chiamarla per nome, se non per insultarla a causa del baccano che riesce a produrre. Non è il rumore in sé a infastidirmi, quanto la continuità di quel rumore. Salta tutto il giorno, salta fino a darmi l'esaurimento nervoso.
Torno a casa da lavoro e lei è lì; torno dalla spesa e lei è lì; rincaso con gli amici e lei è lì; e loro non la prendono bene, decisamente no.
Una volta, due miei conoscenti stufi di sentirla dalla stanza adiacente, le hanno lanciato una grossa bottiglia di vetro. Fortunatamente il suo saltellare le è stato di grande aiuto: ha schivato con l'eleganza di una pattinatrice alle prese con una piroetta. Ma a parte questo caso, la sua capacità è di un'inutilità disarmante.
Credo dovrebbe trovarsi un lavoro. È un tipo troppo bizzarro, incomprensibile. Mi chiedo quando si deciderà a farsi una doccia, a cambiarsi d'abito, a costruirsi una vita; insomma, a lasciarmi definitivamente in pace.
Possibile sia priva di un qualche interesse in grado di toglierla dal letto?
Non conosco più il suono della sua voce, né cosa le passa per la testa. Alle volte mi chiedo se sia felice così com'è; ma la ragione induce a pensare che quel tipo di sedentarietà spinga alla depressione, allo schifarsi della vita.
Ah! se ripenso a quant'era felice l'ultima volta che l'ho vista uscire di casa! Doveva trasferirsi; ne avevamo parlato a lungo. Sorrideva intensamente - aveva il volto rilassato sotto la luce di quel sorriso! - teneva gli occhi spalancati come volesse imprimersi nella memoria quel momento.
Tutt'ora ricordo la sua mano alzata in segno di saluto, con il piccolo anello in rame che le avevo regalato per il compleanno.
Eppure credo che in quell'occasione avrei dovuto scorgere il primo segno del disagio: alla più classica porta, preferì con uno slancio la finestra.

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Altro / Malato - Seconda parte
« il: Settembre 25, 2011, 19:04:37 »
"Da quanto avverte questo dolore? Ha sbattuto da qualche parte?", mi chiese vedendomi intento a tenermi il piede ben fermo con entrambe le mani.
"Potrebbe visitarmi?" gli chiesi, convinto che il mio problema iniziale non fosse collegato in alcun modo con il piede, "Non c'entra il piede! Ho solo questa strana, soffocante, sensazione di morte, che di punto in bianco si è impossessata di me!" . "Potrebbe essere qualcosa di neurologico, in ogni caso adesso concentriamoci sul piede", contrattaccò lui, "Mi porti qui un foglio e una penna. Ecco, ecco, proprio così, e adesso poggi il foglio sulla mia gamba! ... Perfetto! Perfetto! Lei è in gamba giovanotto! Ora le prescrivo qualcosa di adatto al suo caso!"
Dopodiché fui costretto a mettergli la penna in mezzo alle mani e al contempo a tenergliele strette ondevitare che scrivesse male il nome dei farmaci.
Il suo tic dell'applauso era di quelli che peggiorano con gli anni; l'intera faccenda mi costò un considerevole dispendio d'energie, durante il quale sentii i denti sterzare l'uno contro l'altro. Dovetti accompagnargli persino le braccia, in ampi movimenti ondulatori, quasi che quella parte del suo corpo fosse atrofizzata o paralizzata. "Bene!", disse, una volta firmato il foglio, e indicatomi dove potevo trovare il timbro da apporre alla ricetta, tornò ad applaudire meccanicamente. La sua firma non si discostava di molto dall'elenco dei farmaci; sembravano formare un tutt'uno, uno scarabocchio a tratti indecifrabile.
Timbrando il foglio lessi qualcosa come: "Protozonkyerurtev, Gibaciporuxuon, Katuroznvior, Biredrdammccb, duez comprese giovno, ogni pvima mattina, per tventasei giovni."
"Ecco, segua questa cura giovanotto, e vedrà che andrà tutto bene! Ora esca dal retro, veloce!", mi disse il medico tirando un calcio alla porticina alle sue spalle. Quell'uscita d'emergenza dava sull'asfalto bagnato di una sterminata strada su cui stridevano velocemente veicoli d'ogni grandezza possibile e immaginabile. Salutato il medico, attraversai con cautela e mi diressi velocemente in farmacia. Al piede non sentivo più niente, correvo gaio, sorridendo al vento e alla pioggia che mi sferzavano il volto, pronto a dedicare anima e corpo alla cura che mi attendeva. Quella sensazione sarebbe finalmente svanita! Appena trentasei giorni! Solo trentasei miseri giorni e sarei tornato a vivere come prima!
Mi sembrava strano pensarla così positivamente, dato che, in ogni caso, continuavo a sentirmi vicino alla morte più di quanto il mio viso non fosse vicino a quello del farmacista. Mi sorrise, mi allungò un enorme busta, lanciò in aria lo scontrino, ed io tornai a casa fiondandomi subito nel letto, in avida attesa della mattinata seguente, in cui avrei potuto assumere la mia prima dose di farmaci. Non dormii, tale era la mia agitazione.
Quella sensazione stranamente era svanita, sostituita da un nervosismo dilagante, dall'atroce speranza che speravo sarebbe divenuta una certezza nei trentasei giorni a seguire: volevo, dovevo guarire. Purtroppo non vi furono miglioramenti concreti. Assumevo il medicinale due volte al giorno, ogni mattina, ogni notte in trepida attesa della successiva. Giorno dopo giorno, in preda al conto alla rovescia, disegnavo piccole crocette sulle caselline del mio calendario. Ma non cambiava niente. Solo la sera, avvolto nelle coperte del letto, quella sensazione di morte svaniva, sostituita momentaneamente dalla sempre più vana speranza nei farmaci.
Desideravo solo il mattino; desideravo che le giornate si accorciassero donandomi solo la luce del mattino.
Insoddisfatto, tornai dal medico a chiedere spiegazioni.
Ma questa volta non entrai facilmente. Tra i pazienti ce n'erano alcuni abituari che mi riconobbero buttandomi in un angolo.
"Sei tu! Sei tu quel maledetto che l'ultima volta ha saltato la fila! Vieni qua, te la facciamo passare noi la voglia di fare il furbo!" mi urlarono nelle orecchie e, con l'approvazione del mutismo generale, mi riempirono di botte proprio sulla soglia della sala d'attesa.
I nuovi venuti guardavano la scena per qualche secondo, come incuriositi, poi si confondevano tra la massa in attesa di nuove prescrizioni mediche. Quando non rimase che una sola persona, sorreggendomi a stento sulle gambe dilaniate dalle percosse, entrai a passo felpato nell'ambulatorio. "Oddio! Giovanotto! Cosa le succede?" disse il medico, allungandomi una sedia con l'aiuto di una delle sue gigantesche gambe.
Il suo problema alle mani persisteva, innervosendomi d'applauso in applauso. Sembrava un totale idiota sul punto d'innalzarsi al cielo con il solo supporto di quegli ampi gesti.
"Gliel'ho detto l'ultima volta cosa mi succede! Mi sento sempre sul punto di morire, questa dannata cosa mi attanaglia il cuore e non so come liberarmene! Mi ha dato una cura che non serve a niente!". Indignato, scoprii che il medico ignorava chi io fossi. Non si ricordava di me. Non si prese nemmeno la briga di giustificare il suo fallimento. Mi chiese semplicemente di chiamare un'ambulanza, adducendo come causa le mie evidenti condizioni di salute.
Ovviamente parlava dei lividi sparsi un po' ovunque sulle braccia e sul volto. Il naso mi sanguinava. Alle mie spalle un inserviente spazzava il pavimento, armato di una vecchia scopa di paglia gialla. Probabilmente raccoglieva ancora i farmaci caduti l'altra volta. Fu proprio lui a chiamare l'ambulanza, sfilandomi elegantemente il cellulare ben custodito nella tasca del giubotto.
"Non è per questo che ho bisogno di essere curato! La prego, mi ascolti, lei non capisce il problema! Va ben oltre a queste ferite! Dolori di questo genere li conosco, sono passeggeri! Questo invece non mi abbandona mai! Non riesco a capire cosa sia!" .
Il medico si limitò ad alzare le spalle mentre gli infermieri, appena accorsi sul posto, mi trascinavano di peso dalla barella all'ambulanza.
Persi conoscenza.
Un lungo sonno mi avvolse e mi risvegliai dentro un bagno, proprio a ridosso di una graziosa tazza bianca. Stavo ancora sdraiato su quella barella, dolorante in ogni punto del corpo.
Vicino a me stava una corpulenta infermiera, arcigna, dal naso largo e spesso. "Per il momento non abbiamo posti letto nell'ospedale. Appena possibile la sistemeremo, intanto rimarrà qui, con tutte le cure del caso ovviamente. Per sua fortuna non ha subito lesioni interne." mi disse scomparendo alla mia vista a passi veloci. Ero fasciato in più punti, l'ago di una flebo mi molestava muovendosi impercettibilmente sotto la pelle. Attorno a me odore di feci, di piscio, il tutto soffocato a malapena dall'altrettanto fetido sanitizzante per i bagni.
Ero circondato da malati d'ogni sorta, come me incapacitati sulle barelle. Tossivano, starnutivano, si soffiavano il naso con le mani; di tanto in tanto si alzavano a mezzo busto, tornando poi a sdraiarsi tra rantoli di sofferenza.
Ovunque volti scuri, bocche digrignate in pose folli, deviate, sibilanti male parole. Si respirava ogni genere di sensazione negativa. Pensai d'essere morto: dovevo per forza essere morto.
Perché questa cosa mi tormentava senza donarmi la fine di cui tanto andava parlando? Sarebbe stato più sopportabile. Eppure, guardandomi attorno, capivo quanto il mio problema fosse minuscolo nell'ottica generale, invisibile e confuso tra quella massa di corpi accatastati dappertutto; le rotelline d'acciaio non si contavano. Mi addormentai a fatica, le lacrime agli occhi; mi sentivo tremendamente inutile e nella testa vagava il solito mantra, sillabato con piacere da quella vocina: "Morirai, morirai".
Al risveglio ero effettivamente ricoverato, abbandonato su un letto incastonato in un'immensa stanza dalle quattro pareti bianche. Un ambiente vuoto, sterile, occupato in tutta la sua ampiezza esclusivamente dal sottoscritto e da uno sterminato spazio desolante; non c'erano altri pazienti. Una sola finestra dava aria allo stanzone. Da fuori mi giungevano in pieno volto i raggi del sole, il timido canto degli uccelli; l'ozioso, incontrastato, passare del tempo; e ad un tratto mi sentii tremendamente vecchio per la mia età.
Passò una settimana; stavano per dimettermi.
Feci l'errore di chiedere altre verifiche.
Spiegai la mia situazione ai medici, in ogni dettaglio, per quel poco che c'era da dire: ora che i segni delle percosse erano svaniti, avrebbero dovuto prendere più che seriamente il mio problema; il vero problema. "E' da tempo che sento che qualcosa non va, aiutatemi. Sto per morire; ne sono certo, o quantomeno, vive in me questa certezza! Non mi abbandona mai! Fate qualcosa vi prego! L'ansia mi divora!".
Con mia grande felicità si interessarono subito della questione: analisi su analisi, terapie, dispiegamento di forze in grande stile. Fui analizzato da ogni specialista del settore.
"Si certo, qualcosa c'è," dicevano scrutandomi con indice e pollice ben premuti sul mento, "eppure non capiamo ancora di cosa si tratti, abbia pazienza."
In queste parole, talvolta, sentivo una nota di felicità, quasi che fossero contenti, estasiati, all'idea di potersi abbandonare incontrastati alla soluzione del mio problema. Diedi il mio assenso a qualsiasi genere di farmaco sperimentale, a qualsiasi ago che volesse incunearsi sotto la mia pelle. Naturalmente credevano al disagio psicologico, alla dissociazione, al problema neurologico; tentarono di riabilitarmi nella società attraverso iniziazioni d'ogni genere. Passai non so più quanto tempo in quello stato, in prigioni una uguale all'altra; di giorno e di notte quei camici, l'odore senza vita che permeava le pareti bianche dove il mio corpo si rifletteva svanendo come un fantasma. Per studiarmi mi portarono addirittura all'estero.
Decollando con l'elicottero, incatenato alla mia barella, di posto in posto, mia madre mi seguiva facendomi forza: "Continua," diceva, tenendomi strette le mani, "Continua caro, abbi la forza di continuare, troveranno, capiranno da cosa deriva!".
Ed in quei momenti la ricordavo con dolore in quel primo giorno di follia, con il suo volto indifferente, impegnata a trafficare tra le voluminose pieghe della camicia. Ed ora eccola lì, con gli occhi iniettati dalla vita, pronta a combattere per me, ad assecondarmi non per convinzione, ma per amore, in questa cavalcata verso il nulla. Gli sforzi dei medici erano difatti inutili: quel malessere si era affittato il mio corpo a tempo indeterminato. Non cresceva, non diminuiva, viveva, e ora mi rendevo conto che viveva più di me.
Ero diventato una semplice appendice della mia malattia. Vivevo esclusivamente in funzione di lei: tutto ruotava intorno a lei. Mi risucchiava senza scampo.
E' vero, sentivo di morire, ero certo di dover morire, ma perché isolarmi, sprecare tutto il mio essere in una ricerca destinata a consumare persino mia madre? A quale vantaggio se non un lento deperimento? Era questo che voleva quella voce dentro la mia testa, togliermi la possibilità di andare oltre a quell'unico pensiero fisso, rinchiudermi insieme a lei per l'eternità. Non ero pronto a infliggermi una condanna simile, né per me stesso, né tantomeno per l'umanità intera. Non potevo permettere che andasse avanti.
Volevo respirare di nuovo. Mandai tutto al diavolo. Mai più! Mai più! Scacciai chiunque osasse avvicinarmi con il pretesto di una cura, sputai addosso ad ogni teoria, firmai le mie dimissioni da quell'inferno d'aria tiepida ed insapore. A lungo ancora mi inseguirono, ma vanamente: mi ripresi la mia libertà.
Sono ancora malato e credo lo sarò sempre: sono fiero della mia malattia. Mi accompagna ad ogni passo l'inspiegabile sensazione, l'ansia, la certezza di dover morire di lì a poco. Ma cammino a testa alta, con il sorriso sulle labbra, il sole ad illuminarmi dolcemente il volto, deciso ad affrontare la vita e a convivere coi suoi misteri. Guardo in alto e credo, credo ciecamente nella sconfinata, banale, bellezza del cielo.

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