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Post - Doxa

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Pensieri, riflessioni, saggi / Re:"Tris di cuori"
« il: Maggio 24, 2024, 15:16:12 »
Di solito l’amore nella tarda età è naturalmente diverso: si sta insieme perché per entrambi è piacevole stare insieme: significa presenza fisica, condivisione di programmi, è disincanto.

La persona amata, con la quale si condivide la quotidianità, se all'improvviso ci abbandona o muore, provoca un vuoto, la sua perdita crea una lacerazione psicologica, la sofferenza. Fa capire quanto la persona amata sia decisiva per la propria esistenza.

La perdita dell’amata/o agisce sull’essere, contribuisce a “svelarlo” induce a modifiche psicologiche: l’avere e l’essere subiscono mutamenti nel divenire, costringe l’individuo a trovare nel dolore lo spazio per evolvere.

“Silenziosamente
ci siamo intesi.
La bella stagione che sta per finire
scioglie nel pianto quel dolce ricordo sbiadito dal tempo”.

La scena dei due coniugi anziani che reciprocamente si sostengono mentre camminano nel pendio del tramonto della vita, fa pensare, per contrasto alle tante coppie ormai indifferenti l’una all’altra, oppure a persone ormai sole.

Invecchiando s’impara che quelle che contano non sono le cose ma è il diverso modo in cui si guarda alle cose.

Il cambiamento di prospettiva verso il futuro, che diventa sempre più breve nella vecchiaia, dovrebbe facilitare a vivere nel presente, e non sopravvivere, mantenendo aspirazioni, desideri, interessi, gratificanti relazioni interpersonali.

"L'importante è non cadere nel conflitto, che chiude il cuore", disse papa Francesco durante l’udienza ai partecipanti dell’associazione cattolica “Retrouvaille” (= ritrovarsi) è dedita all’aiuto delle coppie in crisi, offerto a coppie sposate o conviventi che soffrono gravi problemi di relazione, che sono in procinto di separarsi o già separate o divorziate, che intendono ricostruire la loro relazione d’amore lavorando per salvare il loro matrimonio in crisi.
Molte persone sono convinte di amare, cominciano a convivere o si sposano credendo di essere fatti l’uno per l’altra, però dopo due o più anni la coppia implode o esplode. Eppure era vero amore.

Purtroppo nel tempo le esperienze possono cambiare comportamenti ed atteggiamenti. E può accadere di non credere più in una storia d'amore e rinunciarci perché uno dei partner od entrambi hanno esigenze diverse.

“Colpa mia o colpa sua ?” Si tende ad attribuire la colpa all’altro/a. Ma non serve a nulla chiedersi chi è il colpevole.

Le relazioni falliscono perché la scelta del/la partner è stata fatta in base a quello che conta di più nell’immediato e non a quello che conta di più nel lungo periodo, oppure in base a “norme contrattuali” considerate implicite ma non dichiarate.

Altre persone preferiscono avere storie parallele perché “… “mi spiace lasciarla, le voglio bene ed è una brava e bella ragazza. Temo anche di restare solo dopo di lei o di non trovarne un’altra con determinate caratteristiche. Vorrei la donna “giusta” al mio fianco…”

Ma esiste la "donna giusta" o l'uomo "giusto" ? Ognuno ha i propri difetti, che bisogna accettare, ma fino a che punto. Qual è il limite per dire basta ? Cambio partner !

Spesso, la fine di un amore è anticipato da distanza emotiva, dal distacco interpersonale, dall’apparire di determinati segnali che anticipano gli eventi futuri.

La fine del reciproco o unilaterale amore è l’esito di un processo iniziato molto tempo prima ma che, più o meno consapevolmente, si è fatto di tutto per non tenerlo nella dovuta considerazione.

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Pensieri, riflessioni, saggi / "Tris di cuori"
« il: Maggio 24, 2024, 15:10:50 »
A Roma, nel teatro Golden, dal 9 al 19 maggio scorsi c’è stata la rappresentazione della commedia titolata “Tris di cuori”, con l’attrice Paola Barale ed altri attori.


Simone Montedoro, Paola Barale, Mauro Conte

La recensione dello spettacolo mi dà l’opportunità di argomentare sulla stanchezza del legame nel rapporto di coppia e si cercano altre opportunità…


La trama. Maria e Teresa (due persone in una, interpretate da Paola Barale) scrittrice di romanzi rosa, porta alle estreme conseguenze la sua incapacità di scegliere tra due partner.

Maria è la moglie di Giorgio (l’attore Simone Montedoro, docente di matematica “vecchio stampo” con sfumature decisamente noiose), nel contempo, per tre giorni a settimana è Teresa, moglie di Danny (l’attore Mauro Conte, musicista squattrinato ma di belle speranze, influenzato dai consigli dello sciamano Jim Morrison).

Due mariti, e la certezza che la felicità si raggiunge in tre, il numero perfetto.

Teresa spiega all’amica editrice Sara (Ilaria Canalini) che ciò che non troviamo in un partner induce l’insoddisfazione e la voglia, di colmare quelle mancanze cercando rifugio tra le braccia anche di un altro uomo.

Ma accadono gli imprevisti, come la gravidanza, che la costringe a fare i conti con un’altra realtà. Da lì la situazione tra comico e il tragico precipita con numerosi colpi di scena.

Ovviamente è una situazione fantasiosa, costruita sulla continuità dell’amore nel rapporto di coppia. La commedia fa ridere ma offre anche momenti di riflessione.


In un’intervista alla rivista “Vanity Fair” Paola Barale ha detto:

“Spesso non basta una persona sola per avere un rapporto di coppia perfetto. È forse per questo che i rapporti a due, quelli esclusivi che sogniamo tutti, oggi sono sempre più rari. Non conosco nessuno, me compresa, che non abbia subito tradimenti o che non abbia tradito. Nella mia mente resta solo il rapporto tra i miei genitori, insieme da 60 anni. Io, però, non li ho mai visti litigare. Il loro è sempre stato un rapporto rispettoso, ma d’altri tempi. Una volta quando si rompevano le cose, si tentava di aggiustarle. Oggi si buttano. Ma attenzione: restare insieme a ogni costo è sbagliato. Quando due persone non hanno più niente da dirsi, devono avere la possibilità di lasciarsi”.

E continua: “A me è capitato di essere corteggiata, e dopo di vedere sparire l’entusiasmo. Ma una relazione non la puoi abbandonare, non la puoi dare per scontato. Succede che ci si abitua, e spesso se ci sono i figli si resta. Io sono sempre andata via. E, forse alla luce del mio passato, adesso sto valutando l’idea dei due uomini. In passato preferivo l’esclusività, ma oggi credo che riuscire ad avere due situazioni in contemporanea voglia dire avere dei rapporti onesti e molto elevati. Finora non mi è mai capitato, ma non lo escludo”.

Paola al momento è single: “quello che vorrei mi sembra che non esista - dice - Vorrei un uomo che abbia tempo per me. Di solito devono sempre scappare, e io non ho voglia di correre dietro a nessuno. Fortunatamente non credo che sia necessario avere per forza un uomo vicino, mi basto da sola. Non ho figli e sono abbastanza forte per affrontare le separazioni. Non resto quando non ne ho voglia. E non mi accontento. È una questione di coerenza nei confronti di me stessa. Ho imparato da piccola l’indipendenza”.

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Letteratura che passione / "Inviti superflui"
« il: Maggio 19, 2024, 16:14:18 »
“Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo  leggero, dicendo cose  insensate, stupide e care”.

Queste parole  forse evocano i “fidanzatini” che disegnava il vignettista francese  Raymond Peynet. Suscitano tenerezza. Furono scritte dall’indimenticato autore del “Deserto dei Tartari”, Dino Buzzati (1906 – 1972), giornalista e scrittore, ma nel tempo libero anche musicista e pittore.

La frase è nella narrazione titolata “Inviti superflui”, nella raccolta “Sessanta racconti”, pubblicata nel 1958.

Il protagonista chiede ad una donna che ama  di accompagnarlo  nella vita, ma poco a poco comprende che l’amata è diversa da lui e  continuerà da solo il cammino.

L’innamorato vede scorrere davanti a sé  liete stagioni, come in un sogno costantemente interrotto dalla coscienza.

Dino Buzzati: “Inviti superflui”. Questo è il testo:

“Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo.

Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi.

Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava.

Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. “Ti ricordi?” ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento.

Ma tu – ora mi ricordo – non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati.

Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da piroga sacra.

Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei “Ti ricordi?”, ma tu non ricorderesti.

Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi, e in date ore vaga la poesia congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene.
Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione.

Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre delle città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola.

Ma tu – adesso mi ricordo – mai mi dicesti cose insensate, stupide e care.
Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione.

Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna.
Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient’altro.

Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne.
Tu diresti “Che bello!”. Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora.

Ma tu – ora che ci penso – tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti “Che bello! “, ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici.

Vorrei pure – lasciami dire – vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di sé una specie di musica.

Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo.

Ma tu – lo capisco bene – invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi.

Ed io sarei solo, è inutile.

Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita.
Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti.
Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia.
Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare – ti prometto – gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo.
Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina. E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo.

Ma tu – adesso ci penso – sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare.
Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me.

Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre.
Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose”.



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Pensieri, riflessioni, saggi / Preghiera dell'ateo
« il: Maggio 12, 2024, 11:31:19 »
“Ah, mio dio, Mio Dio,
perché non esisti?
Dio onnipotente, cerca (sfórzati) a furia di insistere
almeno di esistere”.


Queste frasi le scrisse il poeta livornese Giorgio Caproni (1912 – 1990): la  sua ricerca di Dio sembra una caccia alla preda che continuamente fugge, ma in realtà non esiste. Tuttavia la consapevolezza non determina la fine della caccia, ma tramite una preghiera teopoietica  produce la paradossale relazione di dipendenza dell’individuo nel Dio che gli manca.

Quella che Caproni chiama la sua “ateologia”  esprime interrogativi: il rammarico: “Ah, mio Dio, Mio Dio. Perché non esisti?”, la sarcastica esortazione: “Dio di volontà, Dio onnipotente, cerca (sforzati!) a furia d’insistere – almeno – d’esistere”.

La preghiera è un atto di comunicazione con il divino, un momento di riflessione e di connessione con il sacro.

Un altro “cercatore” di Dio che spiava eventuali segnali del dominus negato, fu il poeta francese Pierre Reverdy (1889 – 1960): “Ci sono atei  di un'asprezza feroce, che tutto sommato si interessano di Dio molto più di certi credenti frivoli e leggeri”. 

Infatti la linea di frontiera passa  non tra chi crede e chi nega, ma tra chi pensa e s’interroga e chi banalizza e si immerge nell’indifferenza o la superficialità.

Un altro “ideale fratello” di Caproni fu lo scrittore ateo russo Aleksandr Zinov’ev (1922 – 2006), in una sua pagina scrisse una preghiera che rappresenta bene quel momento segreto in cui un individuo si sente completamente solo, guarda il cielo e sa che non ha nessun abitatore. Eppure questa persona desidera che ci sia un testimone per le azioni dell’umanità, che ci sia uno che faccia veramente giustizia, che non sia corruttibile, che veda e registri tutta la sofferenza inflitta dagli altri.

La sua preghiera dice: "Ti supplico mio Dio, cerca di esistere almeno un poco, per me. Apri i tuoi occhi, ti supplico, non avrai altro da fare che questo: seguire ciò che succede, è ben poco ma, oh Signore, sforzati di vedere, te ne prego! Vivere senza testimoni, quale inferno! Per questo, forzando la mia voce, io grido, io urlo: Padre mio, ti supplico e piango! Esisti, cerca di esistere".

La domanda rivela nell’autore il suo bisogno di un Dio onnipotente, onnisciente e onnipresente.

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Arte / Re:Angel of grief
« il: Maggio 06, 2024, 21:39:50 »
Il 19 gennaio dello scorso anno  in questa sezione ho collocato un topic titolato “Tenersi per mano”. In questo topic desidero riproporre quel primo  post.



Nella relazione di coppia tenersi per mano o prendersi per mano allude al passaggio dall’io autoreferenziale al noi, alla dimensione unitaria.

Amarsi e tenersi per mano. Il tedesco Hermann Hesse (1877 – 1962), premio Nobel per la letteratura nel 1946, scrisse la bella poesia titolata: “Tienimi per mano”.

"Tienimi per mano al tramonto,
quando la luce del giorno si spegne e l’oscurità fa scivolare il suo drappo di stelle…

Tienila stretta quando non riesco a viverlo questo mondo imperfetto…

Tienimi per mano
portami dove il tempo non esiste…
Tienila stretta nel difficile vivere…

Tienimi per mano
nei giorni in cui mi sento disorientata,
cantami la canzone delle stelle, dolce cantilena di voci respirate…

Tienimi la mano
e stringila forte prima che l’insolente fato possa portarmi via da te.

Tienimi per mano e non lasciarmi andare…mai”
.

Cliccare sul link

https://youtu.be/tWVmi8l-vuY

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Arte / Re:Angel of grief
« il: Maggio 05, 2024, 12:43:50 »
Nel  precedente post ho evidenziato la postura dell’angelo ed ho scritto:

“il braccio sinistro invece è proteso in avanti e la mano lascia cadere dei fiori alla base dell’altare. La curvatura delle dita conferisce la sensazione di abbandono”.


Quella mano mi fa pensare ad una poesia di Louis Aragon, titolata: “Le mani di Elsa”.

“Dammi le tue mani per la mia inquietudine, / mani che ho sognato nella mia solitudine. / Dammi le tue mani perché io venga salvato…/ Taccia il mondo per un attimo perché la mia anima vi si addormenti per l’eternità”.


Queste frasi le ho desunte dalla poesia di  Aragon.

Il tepore delle mani di una persona che ti ama è il rifugio sereno dell’anima, per chi crede nella sua esistenza.

Il poeta evoca anche la frontiera ultima della vita. E’ ben diverso quell’atto estremo e solitario nell’isolamento totale di un ospedale, e avere invece una mano amata che prende la tua anima per ché “vi si addormenti per l’eternità”.

Questo è l'intero testo.

“Le mani di Elsa”

Dammi le tue mani per l’inquietudine
Dammi le tue mani di cui tanto ho sognato
Di cui tanto ho sognato nella mia solitudine
Dammi le tue mani perch’io venga salvato.

Quando le prendo nella mia povera stretta
Di palmo e di paura di turbamento e fretta
Quando le prendo come neve disfatta
Che mi sfugge dappertutto attraverso le dita.

Potrai mai sapere ciò che mi trapassa
Ciò che mi sconvolge e che m’invade
Potrai mai sapere ciò che mi trafigge
E che ho tradito col mio trasalire.

Ciò che in tal modo dice il linguaggio profondo
Questo muto parlare dei sensi animali
Senza bocca e senz’occhi specchio senza immagine
Questo fremito d’amore che non dice parole.

Potrai mai sapere ciò che le dita pensano
D’una preda tra esse per un istante tenuta
Potrai mai sapere ciò che il loro silenzio
Un lampo avrà d’insaputo saputo.

Dammi le tue mani ché il mio cuore vi si conformi
Taccia il mondo per un attimo almeno
Dammi le tue mani ché la mia anima vi s’addormenti
Ché la mia anima vi s’addormenti per l’eternità.

(Louis Aragon)

Questa poesia fu ispirata dall’amore per sua moglie, la poetessa russa Elsa Triolet, sorella di Lilia Brik, musa ispiratrice dello scrittore russo Vladimir Majakovskij.

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Letteratura che passione / Re:Tragicità umana
« il: Maggio 01, 2024, 15:39:19 »
La tragedia greca è un genere teatrale nato nell'Ellade nel VI sec. a. C..
 
La sua messa in scena era per gli abitanti dell’Atene  di epoca classica uno spettacolo con valenze sociali.

Prima di divenire dramma intriso di lutto e di sventura reso immortale dai drammaturghi Eschilo, Sofocle e  Euripide, originariamente era collegata agli antichi riti in onore del dio Dioniso.  Veniva festeggiato  con danze, canti e feste.

Il noto filosofo greco Aristotele nella “Poetica” definisce la tragedia l'imitazione di un'azione vera.

Per Eschilo  la tragedia è collegata alla giustizia divina, al rapporto dell'uomo con le divinità.

Sofocle dice che  gli dei sono potenti ma lontani e la tragedia rappresenta il dolore e l'infelicità dell'uomo.

Euripide  entra nel merito delle relazioni individuali, coglie gli aspetti psicologici e comportamentali delle persone,  con i loro  limiti, vizi e virtù,  non hanno nulla di eroico.

Nella tragedia teatrale vengono messe in scena vicende esemplari  di dolore, sfortuna, atrocità, emotivamente coinvolgenti, che inducono lo spettatore a riflettere sulla fragilità della vita umana, sul bene e sul male, sulla vita e sulla dimensione divina. 

In origine la tragedia si ispirava alle divinità e agli eroi mitologici, portando in scena lo scontro dei personaggi con l’avverso fato  e l’ineluttabile destino.

Solitamente a dare il via alla vicenda era l’infrazione di un divieto, con cui veniva rotto l’equilibrio iniziale: era il momento dell’hamartìa, dell’errore che motiva il personaggio a compiere un gesto sacrilego: hybris.

Lo svolgimento della vicenda e, soprattutto, la conclusione (la nèmesis) erano spesso drammatici, segnati da fatti luttuosi, violenti e da gravi sofferenze.

Quegli antichi testi teatrali  venivano rappresentati con recitazioni da parte di attori,   lamentazioni funebri alternate da  cori (in versi lirici), musica, danza. L’azione era preceduta da un prologo recitato e da un  canto d’entrata del coro (pàrodos), e conclusa da un canto d’uscita del coro (èxodos).  Il canto corale era accompagnato solitamente dalla danza.

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Letteratura che passione / Tragicità umana
« il: Maggio 01, 2024, 15:31:10 »
Tragedia: antica parola greca di origine incerta, che evoca la "tragedia greca" di epoca classica.  Da questa poi m'inerpicherò sul sentiero d’altura  che mi conduce nel territorio accidentato del bene e del male.

“Giudici fian tra noi la sorte e l'arme:
fera tragedia vuol che s'appresenti
per lor diporto a le nemiche genti”.
(Torquato Tasso,  “Gerusalemme liberata”, Canto V, 43)


Sacrificio di Ifigenia in Aulide, affresco, “Casa dei poeti tragici”, Pompei. Il dipinto è conservato a Napoli nel Museo Archeologico Nazionale.

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Arte / Angel of grief
« il: Aprile 27, 2024, 08:21:04 »


Fin dall’antichità l’architettura e l’arte funerarie permettono per lungo tempo il ricordo di una persona, di onorarne la memoria con la costruzione di mausolei, cenotafi, cappelle di famiglia, tombe  di varia tipologia, petrosi sarcofagi,  sculture, varietà di decori simbolici e rievocativi.

Nei cosiddetti “cimiteri monumentali”  ci sono numerosi   gruppi scultorei eseguiti  da artisti noti e meno noti.

A Roma, uno di questi luoghi è il  piccolo “cimitero acattolico” vicino Porta San Paolo, a lato della Piramide Cestia. E’ riservato ai non cattolici, in particolare stranieri, ma eccezionalmente viene concessa la sepoltura anche ad italiani illustri. Per esempio, ci sono  Antonio Gramsci (ateo e marito di una donna russa), l’ex presidente della repubblica Giorgio Napolitano, gli scrittori  Andrea Camilleri, Carlo Emilio Gadda, Luce D’Eramo, Dario Bellezza.

Tra le numerose tombe di personaggi celebri, ci sono quelle dei poeti  inglesi John Keats  e Percy Bysshe Shelley.

Lo scultore statunitense William Wetmore Story è sepolto con la moglie Emelyn Eldredge ed il figlio Joseph, morto nel 1853 a Roma all’età di 6 anni.  William era uno scultore, poeta, critico d’arte ed avvocato americano che arrivò a Roma nel 1848 e  in questa città si dedicò soltanto all'arte.

Sopra la sua tomba è installata la celebre scultura denominata “Angel of grief”  realizzata da William dopo la morte della moglie nel 1894. L’artista, ormai 78enne, iniziò a scolpire il monumento: “Rappresenta l’angelo del dolore, in completo abbandono, che si getta con le ali cadenti e la faccia nascosta su un altare funerario. Simboleggia ciò che sento. Raffigura la prostrazione. Eppure farlo mi dà conforto“.

L’opera fu terminata l’anno seguente, nel 1895, e poco tempo dopo  l’autore morì.  Venne sepolto accanto ad Emelyn e al loro bambino,  sotto l’abbraccio dell'afflitto angelo, inginocchiato davanti a un marmoreo altare funerario, sul quale poggia la parte superiore del  suo corpo;  ha la testa piegata sull’avanbraccio destro,  il  braccio sinistro invece è proteso in avanti e la mano  lascia cadere dei fiori alla base dell’altare. La curvatura delle dita conferisce la sensazione di abbandono.

Le angeliche ali, che normalmente sono alte e dritte, sono tristemente curve.

Il corpo  dell’angelo è come abbandonato al suo dolore. 

Il realismo ha reso quest'immagine famosa come monumento funebre, copiato per altre tombe in varie parti del mondo.



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Arte / Re:Venezia, Biennale d'Arte
« il: Aprile 15, 2024, 15:33:23 »
molto somigliante.

Anche il viso sofferente, causato dalle conseguenze del colpo di pistola ricevuto.


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Arte / Re:Venezia, Biennale d'Arte
« il: Aprile 14, 2024, 17:06:16 »
Il padiglione allestito dal Vaticano  ospiterà pittura, danza, cinema, installazioni, workshop, performance.

Otto gli artisti: Maurizio Cattelan, con una grande opera esterna sulla facciata della Cappella; Bintou Dembélé, con una coreografia composta per le detenute; Simone Fattal, con un’installazione di placche di lava che si intrecciano con le poesie e i racconti delle detenute; Claire Fontaine, un lavoro sulla consapevolezza attraverso il movimento; Sonia Gomes, con le sue installazioni nella Cappella interna; Corita Kent, con un messaggio che unisce estetica e missione sociale; Marco Perego & Zoe Soldana, con un cortometraggio girato con le detenute; Claire Tabouret, con i ritratti da bambine delle detenute.

Cattelan spiega la scelta del Vaticano di fare in questo carcere il suo Padiglione: “Accende i riflettori sugli invisibili, sulle persone che vivono ai margini della società, su tutti quelli che consideriamo distanti, o teniamo distanti. È un gesto compassionevole, e al tempo stesso rivoluzionario perché ci obbliga a mettere piede in un territorio inesplorato, a guardare negli occhi chi ha perso la libertà”.


Veduta esterna del carcere femminile nell’isola della Giudecca

L’opera di  Maurizio Cattelan è sul muro esterno del carcere: è  un’immagine in bianco e nero della pianta dei piedi di un uomo. Può ricordare un’iconografia rinascimentale come quella del Cristo morto di Mantegna, o la crocifissione dipinta da Caravaggio.




Il dissacrante artista Cattelan  è colui che a Milano chiese ed ottenne di collocare  in piazza Affari,  davanti la Borsa Valori il famoso dito medio

Milano, piazza degli Affari

La sua opera che però ha  fatto discutere è stata “La nona ora”, del 1999. La scultura  raffigura il pontefice Giovanni Paolo II a terra, in grandezza naturale,  adagiato su un tappeto rosso colpito su un fianco da un meteorite. Il riferimento è evangelico: la nona ora corrisponde alle 15, Gesù morì sulla croce.
 
L’artista   con questa scultura  ha voluto suggerire che qualsiasi potere può essere messo in discussione da logiche ed eventi avversi, mettendo in pericolo anche la vita di un pontefice. L’opera è stata poi battuta all’asta per la cifra di 886 000 dollari.


Maurizio Cattelan, La nona ora, 1999. Lattice, cera, poliestere, roccia vulcanica, tessuto, pastorale in argento, tappeto, vetro. Collezione privata.

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Arte / Venezia, Biennale d'Arte
« il: Aprile 14, 2024, 17:04:31 »
Da sabato 20 aprile a domenica 24 novembre 2024 a Venezia nei Giardini di Sant’Elena e all’Arsenale ci sarà la 60/esima Esposizione Internazionale d’Arte, dal titolo “Stranieri ovunque” - Foreigners Everywhere.

Quest’anno il Padiglione del Vaticano è nella Casa di reclusione femminile, alla Giudecca, è un antico monastero fondato nel XII secolo, poi usato per ospitare e rieducare le prostitute, perciò detto il “Convento delle Convertite”.

Il Padiglione è dedicato al tema dei diritti umani e alla figura degli ultimi, locatari di mondi marginalizzati, dove i nostri occhi raramente arrivano. Si cerca di favorire la costruzione di una cultura dell’incontro, perno centrale del Magistero di Papa Francesco.

La mostra della “Santa Sede” ha come titolo: “Con i miei occhi”, che evoca il sonetto 141 di William Shakespeare:

“ A dire il vero io non t’amo con i miei occhi
perché in te notano un’infinità di colpe;
solo il mio cuore ama quanto essi sdegnano
e a dispetto loro, è lieto del suo ardore.

Né il mio udito si delizia al tono della tua voce,
né il mio sentimento è prono a volgar lussuria,
né il gusto o l’olfatto voglion essere invitati
a un erotico banchetto soltanto col tuo corpo:
ma né i miei cinque spiriti o i miei cinque sensi
possono dissuadere dall’amarti un pazzo cuore
che lascia incontrollata questa parvenza d’uomo
perché schiava sia e vassalla del tuo superbo cuore:
ma io volgo a privilegio questa mia sventura
perché godo la penitenza di chi mi fa peccare”
.


Il titolo della mostra vaticana evoca anche il biblico “Libro di Giobbe”: “I miei occhi ti hanno veduto”

Giobbe rispose al Signore e disse:
“Comprendo che tu puoi tutto
e che nessun progetto per te è impossibile.

Chi è colui che, da ignorante,
può oscurare il tuo piano?

Davvero ho esposto cose che non capisco,
cose troppo meravigliose per me, che non comprendo.

Io ti conoscevo solo per sentito dire,
ma ora i miei occhi ti hanno veduto.

Perciò mi ricredo e mi pento
sopra polvere e cenere”.

(42, 1 – 11).

Segue

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Arte / Les amants
« il: Aprile 13, 2024, 10:38:03 »
Il pittore surrealista belga René Magritte (1898 – 1967) nelle sue opere ebbe la capacità d’insinuare dubbi sul reale: lo allude come  enigma, come sogno. Infatti il suo stile è definito “illusionismo onirico”, per esempio un paio di scarpe  che diventano dita di un piede, oppure un paesaggio simultaneamente notturno nella parte inferiore e diurno in quella superiore.

Nel 1912 la madre si suicidò nel fiume Sambre. Venne trovata con la testa avvolta dalla camicia da notte.  Questa immagine rimase impressa nella mente dell’adolescente René e la manifestò in alcuni suoi dipinti, come “Le fantasticherie del passeggiatore solitario”, “L’histoire centrale” e “Les amants”. Questi quadri diventarono per lui luogo del dramma, spazio per affrontare il dolore e raffigurarlo, forse esorcizzarlo.


René Magritte, Les amants (Gli amanti), olio su tela, 1928, MoMa, New York

Raffigura due amanti che si baciano.  Ciascuno ha la testa coperta con un foulard bianco che impedisce loro di vedersi e comunicare. Il panno è abilmente dipinto con pieghe in chiaroscuro.

Tra le due figure quella più emblematica è la figura maschile: giacca scura, camicia bianca e cravatta.  Secondo gli esperti rappresenta il padre di Magritte che dà un ultimo bacio alla moglie, appena morta, con il volto coperto dal dolore.

Le interpretazioni  possono essere numerose. Nascondendo i volti il pittore vuole mostrare i molteplici significati del reale attraverso nuovi punti di vista:

“C’è un interesse in ciò che è nascosto e ciò che il visibile non ci mostra. Questo interesse può assumere le forme di un sentimento decisamente intenso, una sorta di conflitto, direi, tra visibile nascosto e visibile apparente” (René Magritte).

De “Gli amanti” ne fece due versioni, la prima è conservata nella National Gallery of Australia, la seconda, più famosa è al MoMa di New York.

Il tema degli amanti è spesso presente nei dipinti di Magritte: hanno per oggetto un uomo e una donna affiancati, con il volto scoperto, oppure coperto con un foulard bianco.

Nel dipinto titolato “L’histoire centrale”  non ci sono due amanti ad avere il volto coperto, ma è raffigurata solo una donna.


René Magritte, L’histoire centrale, olio su tela, 1928

In questo dipinto ci sono tre elementi posizionati in modo tale da formare un triangolo: la tuba (strumento musicale)  una valigia, la donna: un panno le copre il viso, lo regge sotto il collo con la mano sinistra.

Quella valigia forse allude alla partenza verso l’aldilà.

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Letteratura che passione / Romantasy
« il: Aprile 12, 2024, 11:11:55 »


Dall’unione di due parole: “romance” + “fantasy” è stato elaborato il neologismo "romantasy": è il fenomeno letterario e sociale del momento, caro in particolare alle adolescenti che amano l’avventura e il lieto fine.

Nei libri fantasy romantici  la trama  è basata su una relazione d'amore tra due personaggi, spesso ambientata in un contesto fantastico o ultraterreno.

Questo genere letterario diffuso dai social media, in particolare “TikTok” e “Instagram”,  è molto popolare tra i giovani.

Il romanzo privilegia i sentimenti, le passioni, l’amore e l’eros; il fantasy ha come base avventure immaginarie,  creature mitiche, personaggi dai poteri soprannaturali, regni magici che consentono ai protagonisti  di esplorare un mondo nuovo ed emozionante mentre si innamorano.

Gli esiti di questa commistione di stili e scritture, di personaggi e situazioni, sono vari e imprevedibili.

Le autrici di successo in questo periodo sono Rebecca Yaross e Sara J. Maaas, ai primi posti delle classifiche in Europa e negli Stati Uniti. Le due scrittrici si dilungano nelle saghe di ragazze che cavalcano draghi (Fourth Wing) o  di creature magiche metà fate e metà umane /Crescent City).

E’ antica la commistione tra il mondo fantastico e le tematiche amorose-drammatico-sentimentali. Per esempio è presente  in varie fiabe, come Cenerentola, Biancaneve e i sette nani, ecc..

Il romantasy permette  immaginare altre dimensioni, accompagna il desiderio di perdersi in un mondo altro, tipico dell’adolescenza.

I personaggi sono complessi e questi romanzi  hanno al loro interno venature gotiche, noir, ma anche erotiche e horror dando vita ai filoni del Gothic fantasy.

Difficile stabilire un perimetro del romantasy,  comunque la vicenda deve seguire le regole romance ed è di rigore il lieto fine, l’happily ever after = per sempre felici e contenti.


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Parliamo di... scrittura / Re:"Che cosa è l'uomo ?"
« il: Aprile 11, 2024, 17:11:07 »
Buon pomeriggio Olivia,

sei una new entry perciò benvenuta.

Hai ripetuto una frase che io ho scritto tre anni fa nel mio post, ti va di dirmi perché ? Per dire cosa ?  :dsew:

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