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Post - chospo

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Introspettivo / L'altro
« il: Settembre 21, 2011, 12:55:51 »
Io muoio ogni notte, e la mattina, al risveglio, non sento niente. Non ho coscienza di me. Non ho memoria di me. Mi trascino fuori dal letto. La testa mi pesa ma è vuota; dentro sento solo una nebbia che vela ogni pensiero, ogni intenzione per la giornata, ogni proposito per il futuro. Guardo lo specchio e non vedo niente. Anzi, forse vedo un uomo, ma non so dire con certezza chi sia. Vorrei fare la sua conoscenza. Così vi avvicino una mano, ne sfioro il viso, e con un sorriso sulle labbra osservo il suo sorriso, osservo la sua mano che si tocca l'altra mano. Ma non c'è nulla da fare. Mi lavo, mi vesto, faccio colazione, come se non fossi io a volerlo, ma fosse un altro a guidarmi di stanza in stanza. Ed intanto il tempo passa, passa, svolta chissà dove, e a me non sembra di aver mosso ancora un piede fuori dal letto. Possibile siano già passate due ore? Possibile che tutto questo sia oggi?
              Guardo fuori dalla finestra: si, è oggi, è giorno. Il cielo è bianco, quindi è di sicuro giorno. Fosse stato grigio avrei avuto qualche dubbio. Non è ancora ora di lavorare. Io lavoro di sera. Eppure ho voglia di uscire. Qui dentro mi sento soffocare. Metto una giacca, perché forse farà freddo, prendo un libro, perché non vorrei annoiarmi, cerco le chiavi, perché non vorrei rimanere fuori di casa, ed ecco che le prendo, le tengo strette tra le mani, ma poi sento il bisogno di andare al bagno, sento il gorgoglio dello sciacquone, vado alla porta d'ingresso, cerco nelle tasche, ma non sento le chiavi. Dove possono essere? Così torno indietro, tra i mobili, con lo sguardo perlustro la casa intera, alzo i cuscini, scomodo persino il letto e di colpo mi ritrovo davanti al frigo. Lo apro. Ho sete. Prendo l'acqua, la verso, bevo. Torno alla porta, esco, sto per chiuderla ed ecco che appena in tempo vedo le chiavi sul mobile vicino all'ingresso. Le prendo con un gesto secco, esco, mi sbatto alle spalle la porta e chiudo a chiave. Quando sono al piano terra non ricordo se ho chiuso a chiave. Torno su, controllo, spingo con forza la porta: si, è veramente chiusa. Ma non faccio in tempo a scendere qualche scalino che una voce alle mie spalle mi ammonisce:

"Sei sicuro che sia chiusa?"

Mi volto e la porta di casa è spalancata. Sulla soglia c'è lui, l'uomo che vive dentro lo specchio. E' ancora in pigiama quel rammollito. "Non dovresti uscire?" gli chiedo, e vedo la sua bocca muoversi senza che ne esca una sola parola. Il labiale mi sembra chiaro, eppure permane il silenzio. Ripeto la domanda e si ripete la sua mimica facciale. Al terzo tentativo mi guarda con aria beffarda, sorride, e quel suo sorriso mi schiaccia; sento la bocca sforzarsi in una smorfia; i miei occhi si fissano sul suo corpo che lentamente si stacca dallo stipite per strisciare dentro l'appartamento. E' una sorta di ipnosi: decido di seguirlo, penso che sia inevitabile seguirlo. Così mi accosto alla sua schiena e insieme avanziamo lentamente, nell'oscurità, osservandoci l'un l'altro con la coda dell'occhio. Chi è dietro? Chi è davanti? Non importa, so solo che tremo, tremo ad ogni passo che compiamo insieme. Poi finalmente la porta si chiude alle nostre spalle, e rimane solo la paura, la certezza che tutto questo sia inevitabile. Non c'è salvezza, non c'è salvezza per me.

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Altro / Un uomo fortunato
« il: Settembre 21, 2011, 12:52:45 »
Il Signor Mater, nel pieno di un pranzo in famiglia, quasi non si accorse che stavano suonando alla porta.
O forse non se ne voleva accorgere. Certe visite non sono mai gradite.
Sua figlia, una bambinetta di circa sette anni, gli strinse forte un braccio con una manina e con l'altra gli indicò l'ingresso. "Suonano papà! Suonano alla porta!" disse squillante.
Il Signor Mater si guardò prima attorno, inquieto, cercando di cogliere gli sguardi, le intenzioni della moglie e degli altri due bambini, poi fece segno alla figlia di abbassare la voce. "Ti sentono, cara, te l'ho detto tante volte, vorrei finire di mangiare prima che.." cominciò, ma la bambina lo interruppe ridacchiando. "Oh si, si", disse, "Lo so papà! Lo so!", ma nell'euforia del momento - causata probabilmente dalle linguacce del suo fratellino - continuava a tenere alto il tono. Urlava quasi.
Dalla porta si sentì un nuovo scampanellio e subito dopo una voce fece capolino in casa. Era femminile, aspra, acida. "Lo sappiamo che è in casa Signor Mater. E' ora di andare a lavoro; sa in cosa consiste il suo lavoro. Lei è un uomo fortunato. Questo dovrebbe saperlo. E se non lo sapeva, adesso lo saprà. La prego, venga ad aprire."
Detto ciò, bussarono insistentemente. Il Signor Mater aveva chiaramente capito il messaggio, perché adesso, veloce, si scostava in gran fretta dalla famiglia per avvicinarsi alla porta. Effettivamente sapeva di essere fortunato; e la fortuna non bussa mai due volte alla porta. Perché farla attendere? Aperse e si trovò dinanzi a tre persone.
La prima, una donna, alta, rossa di capelli, gracile, dall'espressione arcigna, sostava proprio in mezzo a due uomini pallidi e ben vestiti; a tratti eleganti. Erano talmente appiccicati l'un l'altro, alti uguali, che in tre sembravano formare un unico individuo. Dalle mani degli uomini pendeva una lunga frusta.
"Il suo turno inizia da ora." disse la donna tendendo cordialmente la mano al Signor Mater. Questi la strinse sorridendo come meglio riusciva. La vista delle fruste gli riusciva sgradevole, per quanto bene le conoscesse. Di questi tempi difatti, come ogni uomo fortunato che si rispetti, il Signor Mater veniva frustato ogni mattina. S'intende che per questo veniva pagato. Era un impiego retribuito, un ottimo contratto a tempo indeterminato. Ripetiamo, si poteva ritenere davvero fortunato. Anche la sua famiglia lo sapeva, e nel vederlo allontanarsi coi tre personaggi, gli rivolse un saluto collettivo, accompagnandolo sin dove era permesso: non oltre il cancelletto che dal giardino dava sulla strada.
Da qui, in tutto il paese, come ogni mattina, una grande folla seguiva con occhi febbricitanti l'uomo che, passando sulla strada maestra (a dir la verità l'unica presente in paese), veniva fustigato a intervalli regolari, brevi e intensi abbastanza da strappare applausi d'approvazione.
L'affluenza allo spettacolo era tale che in molti non riuscivano neppure a mettere un piede oltre la soglia di casa; c'era chi semplicemente sporgeva la testa o dal balcone o dalla finestra, accompagnando il percorso dell'uomo con incoraggiamenti e complimenti d'ogni sorta. Alcuni si arrischiavano a lanciargli dei fiori. I più generosi buttavano addirittura banconote sonanti, laute mance prontamente raccolte dalla donna coi capelli rossi.
Il Signor Mater era il fenomeno di quel paese, perché svolgeva il suo lavoro - esser frustato - con una dovizia impeccabile, con una passività impenetrabile. Non si sapeva se amasse la folla o se ne temesse il giudizio; in ogni caso ne traeva la sua forza, una linfa vitale in grado di sostenerlo nel dolore e nel sangue.
Mai una parola, mai una predica ai suoi aguzzini, a quei due uomini infaticabili che lo sferzavano ogni cinque passi. La regola era precisa: una doppia frustata ogni cinque passi. La donna, dietro al drappello dei tre uomini, contava ad alta voce i passi del Signor Mater, cossiché non si potesse dire che la procedura veniva meno.
Una professionalità senza eguali. Il sindaco, compiaciuto, ne parlava spesso ai suoi consiglieri comunali: "Dovreste vederla! Dovreste vederla! Cinque passi conta e cinque passi sempre sono! Pazzesco! Pazzesco!"
E difatti la donna in questione, assegnata da svariati anni a quell'impiego, se ne vantava in lungo e in largo, specialmente nei bar dove a notte fonda si ubriacava coi colleghi di reparto. "Io, signori, vi dico che ho una certa esperienza in questo lavoro!", urlava sbattendo freneticamente il bicchiere sul bancone di legno. I lunghi capelli rossi in quei momenti sembravano impazzirle, prendere vita e schizzare veloci da ogni lato. "E avendo una certa esperienza, so esattamente quanti sono cinque passi e come contarli!" aggiungeva tra gli sguardi stupiti dei presenti. Nessuno la contraddiceva. O almeno, nessuno che non fosse mai stato frustato. Né tantomeno osava farlo il Signor Mater.
Egli sapeva che lamentarsi non era adatto a un uomo della sua maturità. Lamentarsi, anche nel giusto, porta automaticamente a finire dalla parte del torto. Da qui derisione; da qui umiliazione; perdita dell'approvazione del pubblico, della folla; conseguente perdita del lavoro.
Del resto egli sapeva con certezza, da fonti non ben precisate, che in altri paesi adiacenti, di cui però non conosceva i nomi, altri uomini, uguali e identici a lui, venivano pagati lo stesso tanto (e forse anche meno), per essere marchiati a fuoco con lunghi ferri arroventati. Quando pensava al destino di costoro, ebbene, il Signor Mater, inevitabilmente, sorrideva della sua fortuna.

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Presentazioni / Zalfe!
« il: Settembre 21, 2011, 12:49:30 »
Saluti a tutti  dharmas sono nuovo di queste parti, invitato molto gentilmente da un utente già presente nel forum.

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