La crisi delle Banche di Cipro. Una riflessione sul destino dell’Europa, l’alta finanza e il lavoro.
Cipro, l’isola della dea Venere. Cipro, terra aspra abitata dalle genti che provenivano, ad un tempo, dalla Grecia, dalla Turchia e dal Nord Africa. Crocevia da sempre, di lingue, popoli e commerci che in quell’angolo di Mediterraneo si congiungevano per ripartire.
Esattamente come la storia di questa isola, che sorge a 1.000 Km a sud della Grecia, di fronte alla Turchia e poco a nord dell’Africa orientale, che ha conosciuto la cultura micenea proveniente dalla Grecia (ben 1.600 anni prima di Cristo) poi, via via quella romana, quella bizantina (l’impero romano d’oriente).Persino i Cavalieri Templari la conquistarono per poi cederla alla repubblica di Venezia e successivamente fu sotto il dominio ottomano per finire in tempi più recenti (superati i due conflitti mondiali) sotto il controllo dei britannici, dei greci e dei turchi.
L’annoso problema della sua “vera” indipendenza, non fu mai risolto, nonostante i molti conflitti scoppiati, dal 1963 in avanti, tra i sostenitori da una parte di una repubblica greco-cipriota e dall’altra per una repubblica turco-cipriota.
Oggi, l’isola è ancora divisa in due: a sud la Repubblica di Cipro, che fa parte dell’UE ed è vicina all’area politica della Grecia; a nord la Repubblica Turca di Cipro Nord, riconosciuta dalla sola Turchia.
Da questo breve excursus storico, salta subito agli occhi da dove, o forse sarebbe meglio dire da “quando”, giungono i problemi di questa terra sfortunata.
Quindi, non c’è da stupirsi quando si legge che il PIL dell’isola è formato, quasi esclusivamente dai depositi provenienti dall’esterno (Cipro è a ragion veduta considerata un “paradiso fiscale” molto attivo negli ultimi anni nell’eurozona) che ammontano a 7 volte la ricchezza nazionale. Diversamente da quel che accade e affligge altrove, qui il vero problema del governo di Nicosia non è il debito pubblico ma la considerevole quantità di denaro che è stato destinato, sin dal 2011, a rinvigorire l’economia della Grecia: 7,2 mld di euro a sostegno della finanza pubblica e ben 23,4 mld di euro per ridare ossigeno alla economia privata greca.
Il default greco ha generato un poderoso effetto “domino” il quale nella sua corsa ha trascinato anche la fragile economia dell’isola cipriota e delle sue banche. A cominciare dalla Bank of Cyprus per proseguire con la Bank of Laiky, che oggi hanno assoluta necessità di essere ricapitalizzate attraverso un piano di aiuti concesso dall’Eurogruppo, per mezzo della BCE, e un’operazione finanziaria “ope legis” in forza della quale i capitali privati (ora congelati nei forzieri ciprioti), prelievi “una tantum” sui depositi superiori a 100 mila euro e, infine, conversione forzosa in azioni. Inoltre, la Banca Centrale europea ha concesso una liquidità “immediata” di 9,5 mld di euro, tramite il Fondo di Liquidità di emergenza, che sarà amministrato direttamente dal governo cipriota, per far fronte alla situazione contingente.
Il piano di salvataggio per l’economia di Cipro, deciso alla fine di marzo di quest’anno dall’Eurogruppo, come riferito dallo stesso Presidente dell’isola, Nicos Anastasiades, nel corso di un’intervista concessa ad Euronews, sostiene che: “I termini del piano sono stati tali da farci davvero sentire come se fossimo un esperimento. Ora sembra che molti leader europei e molti governi vedano questo modello come la miglior soluzione per il futuro a meno che non si riesca a ottenere di meglio tramite l’unione bancaria”.
Inoltre, il Presidente sempre nel corso dell’intervista ha puntualizzato che gli esperti del Fondo Monetario Internazionale non avrebbero considerato che l’economia di Cipro, nel futuro prossimo, si baserà anche sulla possibilità di sfruttare le ricchezze naturali del territorio (gas e petrolio) grazie alla cooperazione con Israele, già in via di definizione.
Insomma, il Presidente Anastasiades accetta gli aiuti ma non il punto di vista degli analisti del FMI, soprattutto laddove si afferma che Cipro non può avere un settore bancario quasi otto volte maggiore rispetto al suo PIL.
Il Presidente, pertanto, rimanda le responsabilità di default al sistema bancario e ai suoi dirigenti che, a suo dire, non avrebbero saputo gestire l’enorme massa di capitali in transito attraverso le banche cipriote e la estrema “leggerezza” con cui furono sostenuti piani di investimento finanziario, soprattutto quando destinati a sostenere progetti segnatamente difficili da realizzare o quando destinati a sostenere i debiti finanziari di altri istituti di credito, in forte perdita.
A questo tuttavia, per dovere di cronaca, si deve aggiungere che anche la Banca Centrale Europea ha la sua parte di responsabilità, non avendo effettuato gli opportuni controlli sulle attività finanziarie “a rischio” orchestrati nell’eurozona da importanti istituti di credito, in questo caso greci e ciprioti.
Una politica che negli ultimi anni ha causato una forte perdita di ricchezza in diversi Paesi dell’eurozona, in riferimento alla grande crisi finanziaria, esplosa negli Stati Uniti lo scorso anno e che ha trascinato con sé l’intera eurozona, con risultati negativi per i bilanci pubblici, ma ovviamente con conseguenze diverse in diretta relazione allo stato di salute delle Banche dei singoli stati.
Ancora una volta, gli errori assai grossolani e largamente previsti da molti economisti, concretizzati dagli amministratori di grandi gruppi bancari (soprattutto statunitensi) sono stati riversati sulle tasche degli utenti finali. In altre parole, sui bilanci delle nazioni (americane, europee e, in misura minore, asiatici. Segnatamente il Giappone) che hanno dovuto far fronte all’enorme crisi finanziaria (l’ultima è quella del 1929, che interessò l’intera pianeta) rivedendo le rispettive politiche, riducendo gli investimenti, sottraendo risorse alla ricerca, ma soprattutto riducendo il denaro destinato al welfare.
La grande crisi finanziaria esplosa nel cuore del sistema bancario americano, immediatamente allargatasi in Europa, Cina, India e Giappone, ha dimostrato una volta di più la vera debolezza del sistema quando quest’ultimo si fonda su di una ricchezza fittizia, basata sulla speculazione e sugli scambi di ricchezza contro-termine. La “bolla finanziaria”, che si era via via ingigantita, così come succede per le stelle quando diventano delle “super nove”, prima o poi doveva raggiungere il “punto critico” o di “non ritorno”. Ma questo era risaputo e, forse, atteso dai grandi speculatori finanziari, che anche su questo fenomeno, in qualche modo pilotato e orchestrato, hanno saputo trarre enormi benefici, a spese comunque dei milioni di ignari cittadini, che si sono visti cancellare i risparmi di un’intera vita di lavoro “vero”.
La crisi finanziaria che sta vivendo Cipro, ha fatto tremare la Russia, ma non solo. Ha messo in pericolo l’intero sistema-paese cipriota, poiché nel tempo i suoi banchieri, collusi con la politica accondiscendente, hanno improntato l’economia del Paese quasi esclusivamente sui depositi bancari provenienti da altri paesi dove le leggi tributarie sono più restrittive e meno vantaggiose per le esigenze di consigli di amministrazione che hanno come unico obiettivo il guadagno, a tutti i costi. Un’isola felice, un “paradiso fiscale”, come altri in giro per l’Europa: Malta, Irlanda, Gibilterra, Lussemburgo, il Principato di Monaco. Solo per ricordarne alcuni tra quelli che consentono un’evasione totale che viene stimata in ben 418 mld di euro l’anno che non compaiono nei bilanci dei reciproci paesi di provenienza. Un dato di fatto, questo, che è stato ripreso anche durante i colloqui del G8, svoltisi il 17 giugno scorso in Irlanda, insieme ad altri temi “caldi” inseriti nelle agende dei “Grandi” confluiti nella terra di Derry città della Bloody Sunday, la domenica di sangue, la repressione violenta di una marcia di repubblicani nel 1972.
Per concludere, i sinistri scricchiolii dell’intero sistema bancario cipriota, che si è allargato velocemente come un’onda d’urto impietosa e inesorabile, ha portato con sé l’annuncio di un’Europa debole. Debole politicamente, poiché i suoi regolamenti vengono disattesi da tutti o quasi. Debole nei controlli, poiché la struttura principale che avrebbe dovuto evitare i problemi afferenti il settore delle banche, la BCE, non ha funzionato, né durante la fase preventiva (inesistente) né ha saputo prendere provvedimenti che non fossero tardivi. Oggi, la crisi che stanno vivendo la Grecia, Cipro ma potremmo aggiungere Spagna, Portogallo, Italia e Irlanda (la Francia, come la Germania iniziano a risentire dei contraccolpi della crisi) suggeriscono una politica che si basi, nel futuro prossimo, sull’esigenza irrimandabile di annullare il paradosso legato alla politica di stabilità dei bilanci dei paesi comunitari, a svantaggio di una politica economica volta a creare lavoro, crescita e sviluppo. Uno sviluppo armonico che non preveda, come accade ancora oggi, l’esportazione della disoccupazione ed il deficit, minacciando così la stabilità dei paesi più deboli.
Non a caso, da più parti si comincia a parlare di una nuova moneta comune diversificata per aree di riferimento: una moneta per l’Europa del Nord ed una per l’area mediterranea, che avrebbero una relazione diretta con i bilanci di quei paesi che la originano: quindi, prevedendo tassi di cambio differenziati. Un modo come un altro per sollevare il problema relativo alla divisa europea: e cioè se l’euro è ancora attuale, ancorato com’è a vincoli di bilancio che palesemente stanno anemizzando l’economia europea.
La risoluzione dei problemi sin qui rilevati e che si riferiscono, ovviamente, non solo a Cipro e alle sue banche ma che riguardano tutti, nella misura in cui le economie delle nazioni (asiatiche, europee, americane) sono tutte legate a filo doppio, e non potrebbe essere diversamente, nell’era della globalizzazione, passano attraverso un radicale ripensamento del modo in cui sviluppare la ricchezza. A buon diritto ciascun imprenditore tende ad ottenere dai propri investimenti un guadagno. L’errore, probabilmente sino ad oggi perpetrato, è stato quello di affidarsi quasi esclusivamente alla ricchezza derivante dalla carta, dagli scambi e dalle speculazioni finanziarie e non, invece, sulla produzione di beni e servizi.
L’Europa, forte della sua cultura e delle sue conoscenze, insieme alle enormi possibilità che potranno essere messe in campo dagli altri Paesi di questo, oramai, piccolo pianeta potranno ridare speranza e serenità ai popoli della Terra. Se così non sarà, se non saranno compresi i fondamenti dei principi di solidarietà e giustizia, le nazioni non faranno molta strada. Questa, forse, è la vera sfida che l’umanità dovrà affrontare e vincere, nel prossimo futuro.
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