UNA VITA SANA E NATURALE
Tutto era naturale ciò che veniva cucinato e preparato in casa. Ho detto che mio nonno aveva le capre. Nei miei ricordi sono in numero di quattro, anche se mi pare che un anno ce ne fossero sei. Ho detto che venivano tenute nella stalla piccola. La mattina uscivano assieme a quelle del capraio per andare al pascolo e rientravano la sera. Quando tornavano dal pascolo, mentre quelle del capraio giravano a sinistra per entrare nell’ovile, quelle del nonno andavano dritte, passavano davanti alla stalla grande del cavallo, e si dirigevano verso la loro stalla coperta. Su un lato della stalla c’era una piattaforma in legno rialzata da terra circa trenta centimetri sulla quale la notte potevano sdraiarsi e dormire … le capre di mio nonno non dormivano per terra sul pavimento bagnato e freddo, come le altre, ma sul tavolato di legno asciutto … avevano anche la loro mangiatoia già pronta con il fieno e con le fave secche che mio nonno provvedeva a far preparare prima del loro arrivo. Erano delle signore … capre!
Arrivavano con le mammelle rigonfie di latte e Tano il figlio del pastore provvedeva a mungerle. Io, quando assistevo alla mungitura, bevevo il latte caldo appena munto direttamente nel recipiente, con la sua bella schiuma. Qualche volta Tano, molto esperto nella mungitura, spremendo la mammella me lo faceva arrivare direttamente in bocca! Qualche volta anche io mungevo le capre. Era una sensazione bella che provavo quando mungevo il latte, anche se non ero ancora smaliziato. Forse è per questo che, da grande, provo i brividi quando accarezzo il seno di una donna …
Una parte del latte munto veniva salita in casa, in base alle richieste di mia zia (un litro, due litri, di più, a seconda delle necessità) il resto veniva misurato e consegnato al capraio, il quale, completata la mungitura con Tano e Carmelo la sera faceva il formaggio e la ricotta, nel recinto sotto la tettoia. Il siero che alla fine restava veniva dato ai cani ed ai maiali, questi ultimi erano stabulati in un recinto attiguo alla stalla. Qualche volta, prima di fare il formaggio, nella stalla si compieva un altro rito. Veniva presa una capra che il pecoraio aveva individuato e la si faceva montare dal caprone. Era Tano che mi informava durante la mungitura “poi, dopo che hai portato il latte a casa, torna, perché questa sera facciamo montare una capra dal caprone”.
Quando mio nonno aveva consegnato un adeguato quantitativo di latte al pecoraio, questo glie lo restituiva tutto in una volta e veniva lavorato per fare la ricotta e il formaggio nella cucina piccola di mio nonno, quella con il forno che si apriva sul “baglio”. Quella era una delle rare occasioni in cui il portone di ingresso non si chiudeva al suono dell’Ave Maria. Ma mio nonno restava giù per tutto il tempo. Anche io restavo lì fino alla fine assieme a mio nonno ed assistevo a tutta la procedura. Veniva prelevata dalla parete, dove stava appesa, la grande caldaia di rame stagnato e posta sul fornello. Vi veniva versato il latte e acceso il fuoco. Quando arrivava ad una certa temperatura (la controllava il capraio) vi veniva versato il “caglio”. Questo veniva ricavato dallo stomaco di un capretto. La procedura era semplice. Prima il capretto veniva fatto allattare abbondantemente dalla madre e poi con lo stomaco pieno di latte veniva macellato. Immediatamente veniva asportato lo stomaco, ricco di fermenti lattici, dopo aver chiuso ermeticamente la congiunzione superiore (con l’esofago) e quella inferiore (con l’intestino). Quando il latte nella caldaia aveva raggiunto una certa temperatura vi si versava una piccola parte di questo caglio e si mescolava il latte energicamente e continuamente, sia perché il caglio si miscelasse uniformemente, sia per dare avvio al processo di gelificazione che di li a qualche momento sarebbe iniziato. Si vedeva il latte che man mano coagulava e aumentava di consistenza fino a che il processo di gelificazione era completo. Tutto ciò avveniva sotto lo sguardo attento di mio nonno e sotto quello curioso mio. Spesso io ponevo delle domande, e mio nonno mi rispondeva esaurientemente, ma certe volte alla mia domanda seguiva uno sguardo di mio nonno che significava questo non è il momento di porre la domanda ed anche io tacevo per non disturbare il lavoro.
Quando il pecoraio stabiliva che il latte coagulato aveva raggiunto la giusta consistenza con un grosso cucchiaio di legno si rimescolava il tutto e si “rompeva la cagliata”, poi si prendeva una specie di cesto fatto con verghe di olmo e si pressava la cagliata sul fondo della caldaia. In pratica, usava questa specie di cesto come un grosso pestello il quale consentiva di pressare il formaggio gelificato e permetteva al siero di defluire. Quando tutto il formaggio coagulato era ammassato sul fondo della caldaia con un grosso coltello veniva effettuato un taglio a forma di croce e suddiviso in quattro porzioni. Una alla volta venivano raccolte con le mani nude e venivano poste su un piano inclinato e lavorate, il siero che ne veniva fuori defluiva nuovamente dentro la caldaia. La lavorazione consisteva nell’amalgamarla per bene e nel fare defluire tutto il siero che era rimasto imprigionato nell’interno del coagulo. Era un lavoro preciso e veloce che compieva il pecoraio personalmente. Poi, messo da parte questo primo pezzo che continuava a sgocciolare, prendeva il secondo e compieva la stessa operazione, e così via con il terzo e il quarto. A questo punto, lavorava insieme tutti e quattro i pezzi e se doveva essere fatto del formaggio pepato aggiungeva del pepe nero. Tutta la massa veniva lavorata insieme e, perdendo ancora siero, diventava dapprima più plastica, poi, man mano, sempre più consistente. A questo punto veniva messa all’interno di grossi recipienti fatti con i fili delle ginestre intrecciati e legati tra loro detti “fascelle” che davano al formaggio una forma a ruota molto larga e bassa. Queste fascelle erano di diversa grandezza. Quelle del pecoraio erano molto grandi, infatti in genere tutto il formaggio ricavato dal latte della giornata veniva posto dentro una sola per ottenere una forma grande. Quelle che usava mio nonno, in genere, erano più piccole e ne venivano riempite quattro. Le pezze di formaggio grandi servivano per farlo stagionare, mentre quelle più piccole venivano consumate in breve tempo, sia come “tuma” morbida (che a me piaceva tantissimo, cosa non mi piaceva di tutto quello che veniva fatto in casa di mio nonno?), o come “primo sale”, oppure come “pepato fresco”. Dopo questa fase che ho descritto la fermentazione del formaggio continuava e all’interno si formavano delle bollicine prodotte dai gas della fermentazione. Questa fermentazione dopo qualche giorno doveva essere arrestata altrimenti il formaggio inacidiva. L’arresto della fermentazione veniva effettuato immergendo le fascelle di formaggio nel siero bollente in maniera di distruggere con il calore i fermenti lattici. Il momento in cui bloccare la fermentazione dipendeva in base a quanto più o meno poroso si desiderasse fare il formaggio e da tanti altri fattori che decideva mio nonno.
Questa che ho descritto era la prima fase della lavorazione del latte, quella con la quale si produceva il formaggio. Subito dopo iniziava la seconda fase, quella con cui si otteneva la ricotta. Si riattizzava il fuoco sotto la caldaia ed il siero rimasto veniva nuovamente riscaldato. Raggiunta una certa temperatura (la valutava sempre il pecoraio in base alla sua esperienza) venivano presi dei rami di fico selvatico che in precedenza erano stati tagliati, venivano schiacciati con un peso in maniera che il legno si frantumasse e cedesse più facilmente la linfa biancastra e densa che contenevano al loro interno. Il siero veniva rimescolato con questi rami e iniziava una seconda fase di coagulazione. Anche questa volta veniva lasciato riposare. Poi sempre sul ripiano che ho descritto in precedenza (quello che lasciava rifluire il siero nella caldaia) venivano poste diverse fascelle (sempre fatte con fili di ginestra) di forma cilindrica, ma con diametro più piccolo delle precedenti e con bordo molto più alto. La ricotta coagulata veniva delicatamente presa con una schiumarola e deposta a strati nelle varie fascelle. Qui la ricotta si addensava mentre il siero defluiva. Mio nonno non faceva aggiungere sale nel siero prima di fare la ricotta. La mancanza di sale (che per il suo potere igroscopico ha la capacità di trattenere l’acqua) permetteva di ottenere una ricotta molto densa e consistente, ottima per i dolci e … manco a dirlo … che a me piaceva tantissimo …