Autore Topic: Malato - Seconda parte  (Letto 667 volte)

chospo

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Malato - Seconda parte
« il: Settembre 25, 2011, 19:04:37 »
"Da quanto avverte questo dolore? Ha sbattuto da qualche parte?", mi chiese vedendomi intento a tenermi il piede ben fermo con entrambe le mani.
"Potrebbe visitarmi?" gli chiesi, convinto che il mio problema iniziale non fosse collegato in alcun modo con il piede, "Non c'entra il piede! Ho solo questa strana, soffocante, sensazione di morte, che di punto in bianco si è impossessata di me!" . "Potrebbe essere qualcosa di neurologico, in ogni caso adesso concentriamoci sul piede", contrattaccò lui, "Mi porti qui un foglio e una penna. Ecco, ecco, proprio così, e adesso poggi il foglio sulla mia gamba! ... Perfetto! Perfetto! Lei è in gamba giovanotto! Ora le prescrivo qualcosa di adatto al suo caso!"
Dopodiché fui costretto a mettergli la penna in mezzo alle mani e al contempo a tenergliele strette ondevitare che scrivesse male il nome dei farmaci.
Il suo tic dell'applauso era di quelli che peggiorano con gli anni; l'intera faccenda mi costò un considerevole dispendio d'energie, durante il quale sentii i denti sterzare l'uno contro l'altro. Dovetti accompagnargli persino le braccia, in ampi movimenti ondulatori, quasi che quella parte del suo corpo fosse atrofizzata o paralizzata. "Bene!", disse, una volta firmato il foglio, e indicatomi dove potevo trovare il timbro da apporre alla ricetta, tornò ad applaudire meccanicamente. La sua firma non si discostava di molto dall'elenco dei farmaci; sembravano formare un tutt'uno, uno scarabocchio a tratti indecifrabile.
Timbrando il foglio lessi qualcosa come: "Protozonkyerurtev, Gibaciporuxuon, Katuroznvior, Biredrdammccb, duez comprese giovno, ogni pvima mattina, per tventasei giovni."
"Ecco, segua questa cura giovanotto, e vedrà che andrà tutto bene! Ora esca dal retro, veloce!", mi disse il medico tirando un calcio alla porticina alle sue spalle. Quell'uscita d'emergenza dava sull'asfalto bagnato di una sterminata strada su cui stridevano velocemente veicoli d'ogni grandezza possibile e immaginabile. Salutato il medico, attraversai con cautela e mi diressi velocemente in farmacia. Al piede non sentivo più niente, correvo gaio, sorridendo al vento e alla pioggia che mi sferzavano il volto, pronto a dedicare anima e corpo alla cura che mi attendeva. Quella sensazione sarebbe finalmente svanita! Appena trentasei giorni! Solo trentasei miseri giorni e sarei tornato a vivere come prima!
Mi sembrava strano pensarla così positivamente, dato che, in ogni caso, continuavo a sentirmi vicino alla morte più di quanto il mio viso non fosse vicino a quello del farmacista. Mi sorrise, mi allungò un enorme busta, lanciò in aria lo scontrino, ed io tornai a casa fiondandomi subito nel letto, in avida attesa della mattinata seguente, in cui avrei potuto assumere la mia prima dose di farmaci. Non dormii, tale era la mia agitazione.
Quella sensazione stranamente era svanita, sostituita da un nervosismo dilagante, dall'atroce speranza che speravo sarebbe divenuta una certezza nei trentasei giorni a seguire: volevo, dovevo guarire. Purtroppo non vi furono miglioramenti concreti. Assumevo il medicinale due volte al giorno, ogni mattina, ogni notte in trepida attesa della successiva. Giorno dopo giorno, in preda al conto alla rovescia, disegnavo piccole crocette sulle caselline del mio calendario. Ma non cambiava niente. Solo la sera, avvolto nelle coperte del letto, quella sensazione di morte svaniva, sostituita momentaneamente dalla sempre più vana speranza nei farmaci.
Desideravo solo il mattino; desideravo che le giornate si accorciassero donandomi solo la luce del mattino.
Insoddisfatto, tornai dal medico a chiedere spiegazioni.
Ma questa volta non entrai facilmente. Tra i pazienti ce n'erano alcuni abituari che mi riconobbero buttandomi in un angolo.
"Sei tu! Sei tu quel maledetto che l'ultima volta ha saltato la fila! Vieni qua, te la facciamo passare noi la voglia di fare il furbo!" mi urlarono nelle orecchie e, con l'approvazione del mutismo generale, mi riempirono di botte proprio sulla soglia della sala d'attesa.
I nuovi venuti guardavano la scena per qualche secondo, come incuriositi, poi si confondevano tra la massa in attesa di nuove prescrizioni mediche. Quando non rimase che una sola persona, sorreggendomi a stento sulle gambe dilaniate dalle percosse, entrai a passo felpato nell'ambulatorio. "Oddio! Giovanotto! Cosa le succede?" disse il medico, allungandomi una sedia con l'aiuto di una delle sue gigantesche gambe.
Il suo problema alle mani persisteva, innervosendomi d'applauso in applauso. Sembrava un totale idiota sul punto d'innalzarsi al cielo con il solo supporto di quegli ampi gesti.
"Gliel'ho detto l'ultima volta cosa mi succede! Mi sento sempre sul punto di morire, questa dannata cosa mi attanaglia il cuore e non so come liberarmene! Mi ha dato una cura che non serve a niente!". Indignato, scoprii che il medico ignorava chi io fossi. Non si ricordava di me. Non si prese nemmeno la briga di giustificare il suo fallimento. Mi chiese semplicemente di chiamare un'ambulanza, adducendo come causa le mie evidenti condizioni di salute.
Ovviamente parlava dei lividi sparsi un po' ovunque sulle braccia e sul volto. Il naso mi sanguinava. Alle mie spalle un inserviente spazzava il pavimento, armato di una vecchia scopa di paglia gialla. Probabilmente raccoglieva ancora i farmaci caduti l'altra volta. Fu proprio lui a chiamare l'ambulanza, sfilandomi elegantemente il cellulare ben custodito nella tasca del giubotto.
"Non è per questo che ho bisogno di essere curato! La prego, mi ascolti, lei non capisce il problema! Va ben oltre a queste ferite! Dolori di questo genere li conosco, sono passeggeri! Questo invece non mi abbandona mai! Non riesco a capire cosa sia!" .
Il medico si limitò ad alzare le spalle mentre gli infermieri, appena accorsi sul posto, mi trascinavano di peso dalla barella all'ambulanza.
Persi conoscenza.
Un lungo sonno mi avvolse e mi risvegliai dentro un bagno, proprio a ridosso di una graziosa tazza bianca. Stavo ancora sdraiato su quella barella, dolorante in ogni punto del corpo.
Vicino a me stava una corpulenta infermiera, arcigna, dal naso largo e spesso. "Per il momento non abbiamo posti letto nell'ospedale. Appena possibile la sistemeremo, intanto rimarrà qui, con tutte le cure del caso ovviamente. Per sua fortuna non ha subito lesioni interne." mi disse scomparendo alla mia vista a passi veloci. Ero fasciato in più punti, l'ago di una flebo mi molestava muovendosi impercettibilmente sotto la pelle. Attorno a me odore di feci, di piscio, il tutto soffocato a malapena dall'altrettanto fetido sanitizzante per i bagni.
Ero circondato da malati d'ogni sorta, come me incapacitati sulle barelle. Tossivano, starnutivano, si soffiavano il naso con le mani; di tanto in tanto si alzavano a mezzo busto, tornando poi a sdraiarsi tra rantoli di sofferenza.
Ovunque volti scuri, bocche digrignate in pose folli, deviate, sibilanti male parole. Si respirava ogni genere di sensazione negativa. Pensai d'essere morto: dovevo per forza essere morto.
Perché questa cosa mi tormentava senza donarmi la fine di cui tanto andava parlando? Sarebbe stato più sopportabile. Eppure, guardandomi attorno, capivo quanto il mio problema fosse minuscolo nell'ottica generale, invisibile e confuso tra quella massa di corpi accatastati dappertutto; le rotelline d'acciaio non si contavano. Mi addormentai a fatica, le lacrime agli occhi; mi sentivo tremendamente inutile e nella testa vagava il solito mantra, sillabato con piacere da quella vocina: "Morirai, morirai".
Al risveglio ero effettivamente ricoverato, abbandonato su un letto incastonato in un'immensa stanza dalle quattro pareti bianche. Un ambiente vuoto, sterile, occupato in tutta la sua ampiezza esclusivamente dal sottoscritto e da uno sterminato spazio desolante; non c'erano altri pazienti. Una sola finestra dava aria allo stanzone. Da fuori mi giungevano in pieno volto i raggi del sole, il timido canto degli uccelli; l'ozioso, incontrastato, passare del tempo; e ad un tratto mi sentii tremendamente vecchio per la mia età.
Passò una settimana; stavano per dimettermi.
Feci l'errore di chiedere altre verifiche.
Spiegai la mia situazione ai medici, in ogni dettaglio, per quel poco che c'era da dire: ora che i segni delle percosse erano svaniti, avrebbero dovuto prendere più che seriamente il mio problema; il vero problema. "E' da tempo che sento che qualcosa non va, aiutatemi. Sto per morire; ne sono certo, o quantomeno, vive in me questa certezza! Non mi abbandona mai! Fate qualcosa vi prego! L'ansia mi divora!".
Con mia grande felicità si interessarono subito della questione: analisi su analisi, terapie, dispiegamento di forze in grande stile. Fui analizzato da ogni specialista del settore.
"Si certo, qualcosa c'è," dicevano scrutandomi con indice e pollice ben premuti sul mento, "eppure non capiamo ancora di cosa si tratti, abbia pazienza."
In queste parole, talvolta, sentivo una nota di felicità, quasi che fossero contenti, estasiati, all'idea di potersi abbandonare incontrastati alla soluzione del mio problema. Diedi il mio assenso a qualsiasi genere di farmaco sperimentale, a qualsiasi ago che volesse incunearsi sotto la mia pelle. Naturalmente credevano al disagio psicologico, alla dissociazione, al problema neurologico; tentarono di riabilitarmi nella società attraverso iniziazioni d'ogni genere. Passai non so più quanto tempo in quello stato, in prigioni una uguale all'altra; di giorno e di notte quei camici, l'odore senza vita che permeava le pareti bianche dove il mio corpo si rifletteva svanendo come un fantasma. Per studiarmi mi portarono addirittura all'estero.
Decollando con l'elicottero, incatenato alla mia barella, di posto in posto, mia madre mi seguiva facendomi forza: "Continua," diceva, tenendomi strette le mani, "Continua caro, abbi la forza di continuare, troveranno, capiranno da cosa deriva!".
Ed in quei momenti la ricordavo con dolore in quel primo giorno di follia, con il suo volto indifferente, impegnata a trafficare tra le voluminose pieghe della camicia. Ed ora eccola lì, con gli occhi iniettati dalla vita, pronta a combattere per me, ad assecondarmi non per convinzione, ma per amore, in questa cavalcata verso il nulla. Gli sforzi dei medici erano difatti inutili: quel malessere si era affittato il mio corpo a tempo indeterminato. Non cresceva, non diminuiva, viveva, e ora mi rendevo conto che viveva più di me.
Ero diventato una semplice appendice della mia malattia. Vivevo esclusivamente in funzione di lei: tutto ruotava intorno a lei. Mi risucchiava senza scampo.
E' vero, sentivo di morire, ero certo di dover morire, ma perché isolarmi, sprecare tutto il mio essere in una ricerca destinata a consumare persino mia madre? A quale vantaggio se non un lento deperimento? Era questo che voleva quella voce dentro la mia testa, togliermi la possibilità di andare oltre a quell'unico pensiero fisso, rinchiudermi insieme a lei per l'eternità. Non ero pronto a infliggermi una condanna simile, né per me stesso, né tantomeno per l'umanità intera. Non potevo permettere che andasse avanti.
Volevo respirare di nuovo. Mandai tutto al diavolo. Mai più! Mai più! Scacciai chiunque osasse avvicinarmi con il pretesto di una cura, sputai addosso ad ogni teoria, firmai le mie dimissioni da quell'inferno d'aria tiepida ed insapore. A lungo ancora mi inseguirono, ma vanamente: mi ripresi la mia libertà.
Sono ancora malato e credo lo sarò sempre: sono fiero della mia malattia. Mi accompagna ad ogni passo l'inspiegabile sensazione, l'ansia, la certezza di dover morire di lì a poco. Ma cammino a testa alta, con il sorriso sulle labbra, il sole ad illuminarmi dolcemente il volto, deciso ad affrontare la vita e a convivere coi suoi misteri. Guardo in alto e credo, credo ciecamente nella sconfinata, banale, bellezza del cielo.

presenza

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Re: Malato - Seconda parte
« Risposta #1 il: Settembre 25, 2011, 23:13:24 »
Proprio così, qualunque condizione, evento, situazione ci presenta la vita, è un fatto, e la nostra sofferenza nasce proprio perché non accettiamo, vorremmo che tutto fosse diverso, facciamo resistenza. Accettare invece è l'unica cosa veramente sensata che si possa fare, e da lì scaturiscono poi le soluzioni, anche solo il guardare tutto da un'angolazione differente.


nihil

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Re: Malato - Seconda parte
« Risposta #2 il: Settembre 26, 2011, 07:10:39 »
  racconto decisamente ansiogeno, una corsa continua versa la speranza di una soluzione, con la resa finale, o meglio la scelta di essere consapevoli e convivere con un problema. Condivido le riflessioni di presenza. Vedo che nei tuoi scritti c'è un tipo di ironia tutto particolare, che in realtà cela il dramma. :kiss:

chospo

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Re: Malato - Seconda parte
« Risposta #3 il: Settembre 30, 2011, 01:57:53 »
Citazione
Vedo che nei tuoi scritti c'è un tipo di ironia tutto particolare, che in realtà cela il dramma.

Dipende dal fatto che non riesco a prendermi sul serio: è un mio grande limite  dharmas

Grazie mille a Voi che leggete.

nihil

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Re: Malato - Seconda parte
« Risposta #4 il: Settembre 30, 2011, 10:07:06 »
Non è affatto un limite, è un pregio. Chi si prende troppo sul serio alla fine cerca di essere fedele a se stesso e non procede oltre.