Estate 1944
Da mio nonno 1
Gli alleati erano sbarcati l'anno precedente e pertanto da noi la guerra era finita, anche se continuava nel resto dell'Italia. Avevo 8 anni ed avevo completato la terza elementare. Il governo alleato aveva tolto l'ammasso del grano e il commercio del pane e della farina erano tornati liberi. L'ammasso del grano era l'obbligo che il governo aveva imposto agli agricoltori di consegnare tutto il frumento raccolto allo stato che successivamente provvedeva a distribuire il pane e la pasta razionati, cioè tanti grammi a persona mediante le tessere.
Era il mese di giugno e mio nonno, appena raccolto il grano, provvide a macinarlo e inviò, con don Vincenzo il carrettiere, alcuni sacchi di farina alla nostra famiglia. Scaricati i sacchi, mio padre e mia madre mi misero sul carro e mi mandarono da mio nonno e da mia zia per passare le vacanze estive con loro. Viaggiammo tutto il pomeriggio e tutta la notte percorrendo circa 60 Km.
Ero eccitato e felice per la nuova avventura che stavo per affrontare. Avrei trascorso tutte le vacanze con mio nonno e mia zia. La notte dormii coricato sulle tavole del carro, coperto dai sacchi di farina vuoti, mentre questo sobbalzava ad ogni asperità della strada.
Durante il viaggio il pensiero correva a mio nonno ed a mia zia. L'ultimo ricordo che avevo di mia zia, che non si era sposata, era struggente. Doveva nasce la mia sorellina ed io ero ammalato di tosse convulsiva (allora la pertosse veniva chiamata così per via dei suoi attacchi terribili e convulsivi e non esisteva la vaccinazione). Così i miei genitori mi avevano portato da lei per non contagiare la piccola, quando sarebbe nata, perché avrebbe rischiato di morire (ma io tutto questo non lo sapevo). Ricordo quei terribili attacchi di tosse che mi squassavano il petto e tutto il corpo, ricordo mia zia che mi stringeva a sé, piangendo in quanto soffriva per la mia sofferenza e non poteva fare nulla per lenire o calmare quegli attacchi di tosse.
Arrivammo all'alba, erano tutti svegli e ci aspettavano. Ricordo ancora come mi accolsero tutti festanti. C'era tutta la servitù. Donna Febronia, l'anziana serva che lavorava in casa del nonno la mattina e che il pomeriggio tornava a casa propria (doveva attraversare soltanto la strada perché la sua casa era proprio di fronte). Lorenza, che era a servizio pieno e dormiva nella casa del nonno. Maria, una ragazzina due anni più grande di me e che dormiva anche lei nella casa. Apparteneva ad una famiglia con nove figli e sua madre l'aveva affidata a mia zia perché le desse un aiuto, ma principalmente affinché loro avessero una bocca in meno da sfamare (erano tempi molto tristi). C'era don Filippo che veniva la domenica e si occupava di coltivare l'orto e fare tutti i lavori pesanti.
Mio nonno viveva in un gran palazzo costruito in pietra lavica, ai margini del paese, che si proiettava in mezzo alle campagne. Salii a casa, la ricordavo appena, l'ultima volta che l'avevo vista era stato prima della guerra. La casa era stata gravemente danneggiata dai bombardamenti e ancora non era stata completamente riparata, pertanto non era completamente agibile. Aveva di tutto. A piano terra c'era la cantina, il granaio, la carbonaia, la legnaia, la falegnameria (per uso proprio), la stanza del forno (il pane si faceva in casa) e tanti magazzini. Nel cortile c'era un grande pollaio e dietro il pollaio c'era la stalla e l'ovile in cui stazionavano le capre. Una serie di casette, sempre di proprietà di mio nonno, circondavano la casa. In queste case abitavano diverse persone che per il lavoro dipendevano direttamente o indirettamente da mio nonno che veniva chiamato da tutti il cavaliere.
Al primo piano della casa c'erano una infinità di camere le quali stavano quasi sempre chiuse, ad eccezione delle camere da letto. Tutta la vita si svolgeva in cucina. Una grande cucina dove si viveva tutto il giorno. Su una parete i fornelli, sia quelli piccoli a carbone, che quelli grandi a legna con delle grosse pentole di rame. Sulla parete accanto c'era il ripiano delle “quartare” (i recipienti con cui si portava l'acqua in casa, ancora non c'era l'acqua corrente) ed i “bagani” (le vasche in ceramica smaltata verde in cui si lavavano i piatti e le stoviglie). Sulle altre due pareti si trovavano tanti armadi. Al centro c'era una grande tavola che serviva per lavorare e sulla quale pranzavano mio nonno e la sua famiglia. Un po' più distante c'era la “buffetta” un'altra tavola anch'essa abbastanza grande, ma più bassa, sulla quale mangiava la servitù. Alla cucina si accedeva dalla scala di servizio. In pratica tutti entravano e uscivano da questa scala perché la “scala grande” stava sempre chiusa.
La sera del giorno in cui sono arrivato eravamo tutti seduti a tavola e la mia testa, a causa della stanchezza e del sonno, come ho detto avevo passato tutta la notte sul carro, ciondolava “nel piatto”. Così mia zia diede disposizione a Maria di portarmi a letto. Raggiunta la stanza da letto, all'altra estremità della casa, Maria preparò il mio letto e il pigiama, poi mi tolse i pantaloni, la camicetta, le scarpe e fece l'atto di togliermi le mutandine. Ma io le tenni strette con le mani.
Riprovò una seconda volta e anche questa volta glie lo impedii. “Ti vergogni?” mi chiese. Dopo un poco, non ricordo come fu, ci ritrovammo tutti e due nudi dalla vita in giù.
Osservavo le sue gambette magre (oggi sarebbero state definite anoressiche). Ma erano magre per la fame che c'era a quei tempi. Osservavo la sua vita e suoi fianchi sottili. Guardavo il suo sesso appena pronunziato, aveva la forma di un grosso chicco di caffè! Era la prima volta che mi capitava di osservare il sesso di una ragazza così da vicino. Poi lei prese l'iniziativa e prese il mio pisello in mano e si mise a manipolarlo. Mentre lei lo toccava notai che si gonfiava e si drizzava.
Era una sensazione piacevole. Lei, poi, prese la mia mano e la portò sul suo sesso. Come era morbido e delicato! Presi ad esplorarlo. Mi piaceva toccarlo. Così cominciò la mia scoperta di una ragazza!
(continua)