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Georges Bernanos e il suo struggente “Diario di un curato di campagna”

Pubblicato il 19-02-2008


Centoventi anni addietro nasceva (20/2/1888), e sessant’anni addietro (5/7/1948) moriva a Parigi Georges Bernanos, scrittore cattolico dalla forte tensione spirituale, un polemico originale e disobbediente dinanzi ai compromessi della gerarchia ecclesiastica. Il suo capolavoro “Diario di un curato di campagna” (1936) è la toccante storia di un’anima: quella di un giovane e sensibile curato (appena uscito dal seminario), chiamato da Dio e diverso da tutti gli altri preti, senza vanità e senza ambizioni, povero e solo, stanco e malato di cancro (riesce a mangiare soltanto pane raffermo inzuppato nel vino ed è così magro da essere soprannominato «triste a vedere»), con «la forza dei deboli, dei fanciulli… della razza di chi tien duro, che sta ritta». Nella sua «prima ed ultima parrocchia» in un «villaggio miserabile… divorato dalla noia», pieno di pietà e sete di giustizia, deve lottare contro l’ipocrita ostilità dei parrocchiani - che odiano la sua semplicità e che fingono d’ignorarlo, spargendo calunnie e nascondendo atroci rivalità, profonde angosce e «spaventosi segreti» - ai quali egli non può far altro che opporre le sue tremende sofferenze. Per la volontà di veder chiaro in se stesso, decide di appuntare su «un quaderno da scolaro… il tesoro nascosto» il suo dialogare col buon Dio, i suoi prolungamenti di preghiera e le riflessioni sulla sua «solitudine profonda… inumana» e sui «momenti di confusione, di affanno». Salgono così a galla debolezze e inettitudini, turbamenti psichici e dolori fisici. Egli è lacerato soprattutto dal timore di  perdere la fede («No. Non ho perso la fede!... La fede non si perde… cessa d’informare la vita, ecco tutto… Dio s’era ritirato da me… L’anima tace. Dio tace. Silenzio») e di peccare contro la speranza, in preda a «una rassegnazione tenebrosa, più spaventevole dei grandi soprassalti di disperazione e delle sue immense cadute…» e a una «sorda ribellione… uno stizzoso silenzio dell’anima, quasi pieno di odio…». Subito dopo l’infausta diagnosi, il curato-fanciullo muore per un’emorragia gastrica, lontano dalla parrocchia in casa di un amico, sacerdote spretato, anch’egli lambito dalla morte (che grazie a lui si riconcilia forse con Dio), al quale dice le sue ultime sublimi parole: «Che cosa importa? Tutto è grazia.». Nel 1951 Robert Bresson, il grande maestro francese che ha usato il cinema come una via per la ricerca della Grazia, ha ricavato dal suddetto romanzo uno struggente film, Leone d’oro a Venezia.
Pur essendo in apparenza uomo di destra e cattolico ancorato alle tradizioni e ai temi del peccato e della colpa, del perdono e della santità, della carità e della grazia, Bernanos manifesta un pensiero che non è né di destra né di sinistra ma si innalza a descrivere in forma universale il dramma dell’uomo solo davanti al mistero di Dio (e solo in faccia alla morte), in una visione della vita pessimistica (quando non addirittura apocalittica) che guarda indietro a Blaise Pascal e al suo uomo angosciato, perché prigioniero della sua finitezza, che spasima però per essere felice nonostante le umiliazioni e l’infelicità.
Georges Bernanos racconta non i fastosi personaggi dell’“establishment” cattolico istituzionale (forti e senza dubbi) ma i rappresentati più umili e fragili, individui in bilico tra spiritualità e tentazioni, tra purezza d’animo e comportamenti di degradazione. Adriano Grande (il sensibile traduttore del grande autore francese) ha scritto che i suoi personaggi «come quelli di Dostoevskij ci sono fratelli, sono esseri che abbiamo veramente conosciuto, diventan parte della nostra umanità. A loro ripensiamo sovente come figure della nostra povera e umiliata e tragica realtà quotidiana.». Gli “eroi perdenti e quasi perduti” di Bernanos però, quando la lotta è finalmente giunta al suo termine - pur soffocati da fardelli, vizi e sofferenze inaudite, pur tentati dalla disperazione di non poter salvare né la loro anima né quella degli altri secondo l’immensa missione loro affidata da Dio (sempre e comunque volti nella direzione del Divino) - riescono a conquistare quella Grazia e quella Santità, tanto ansiosamente ricercate.

Di Silvia Iannello

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