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Maksim Gorkij: l’apostolo della giustizia sociale e il paladino dell’idea rivoluzionaria

Pubblicato il 28-03-2008


Lo scrittore Maksim Gorkij (pseudonimo di Aleksej Maksimovich Peskov), oggi
ingiustamente dimenticato, tipico uomo russo-asiatico e convinto rappresentante
del Movimento rivoluzionario russo, vedeva nella scrittura un atto etico e
politico in grado di cambiare il mondo. Nacque 140 anni addietro, il 28 marzo
del 1868 a Nizhny Novgorod (oggi rinominata Gorkij), e rimasto orfano da bambino
fu cresciuto dai nonni materni; il nonno, un umile artigiano in difficoltà
economiche, con durezza gli disse: «Non posso portarti al collo come una
medaglia, vai nel mondo»; la nonna fantasiosa gli regalò forse quei pochi
sprazzi di felicità, avuti da bambino. Dall’età di 8 anni fu costretto a
guadagnarsi da vivere con i più umili lavori: fu anche sguattero su un vaporetto
del Volga ove il cuoco Smurij gli insegnò a scrivere e lo indusse alla lettura
dei grandi romanzi, mutando il suo destino. Da adolescente passò di mestiere in
mestiere, di tugurio in tugurio, di villaggio in villaggio (e tentò anche al
suicidio). Con “Schizzi e racconti” (1898), in cui si riverberava la sua
infanzia miserabile, diede inizio all’elegia del suo eroe romantico: il
vagabondo (tale per rifiuto della società o per scelta), libero e irrequieto,
ricco d’umanità ma pieno di sordo rancore e disperata ribellione. Scrittore
sentimentale e realista, in bilico tra socialismo e populismo, tra tradizione e
modernità, Gorkij rifiutò ogni sperimentalismo e - alquanto sopra le righe e
senza senso di humour - da primo scrittore “proletario” e da cronista,
rappresentò con vigore il desolato mondo degli ultimi che tentano di sfidare i
tristi eventi della loro vita e di sopravvivere nonostante tutto: i reietti e
gli accattoni, gli sconfitti dalla vita e i respinti dalla società, i perduti
senza identità, i cosiddetti «piedi scalzi» ai quali era vietata una vita degna
d’essere vissuta. Più tardi, nonostante avesse raggiunto l’agiatezza, rimise
spesso indietro la clessidra del tempo confrontandosi coi lividi fantasmi del
suo passato turbolento.
Coinvolto nel Marxismo ma con una visione idealistica
e lontana dall’ortodossia (scriveva: «io ho per la politica un’avversione
organica e sono un marxista molto dubbio...»), la sua ideologia fu un’indignata
risposta all’emarginazione che ne fece un apostolo della giustizia sociale, un
paladino dell’idea rivoluzionaria (capace di «costruire un mondo nuovo» e di
trasformare la realtà) e il profeta del Socialismo; nel 1906 scrisse: «Evviva
questa nuova religione che libera i poveri dalle catene della povertà e
dell’ignoranza...». Fu anche un perseguitato politico, prima da parte degli Zar,
poi dopo la rivoluzione a causa di Stalin, ma per fortuna alquanto protetto dal
grande prestigio letterario; era infatti notissimo per due commedie
rappresentate con enorme successo dal regista russo Stanislavskij (l’ideatore
della tecnica dell’identificazione dell’attore nel personaggio e il creatore del
Teatro d’Arte di Mosca): “Piccoli borghesi (1901) che rappresenta il declino
della borghesia, e “Bassifondi” (1902), conosciuto anche come “L’albergo dei
poveri”, che racconta di laidi usurai, cinici filosofi, ladri altruisti, attori
ubriaconi, fanciulle nel fango, vecchi per i quali «la patria è ovunque faccia
caldo», intellettuali senza radici, e puri di cuore che sanno compatire e
consolare (non stereotipi ma uomini veri, chiusi in un tetro dormitorio notturno
per senzatetto a covare tragedie esistenziali e sogni impossibili). Sulla
solidarietà tra miserabili, scrisse: «Un essere umano infelice cerca sempre un
altro essere umano infelice: è contento quando lo trova».
Costretto
all’esilio, nel 1906 fu a Capri (si è scritto «uno scrittore amaro nel paese
dolce»: lo pseudonimo Gorkij significa in russo “L’amaro”), ove continuò a
promuovere i valori del Socialismo e creò con generosità un centro di
accoglienza per esuli russi (che costituivano la crema dell’“intelligencija”
dissidente) e una scuola di partito per operai, i quali arrivati nell’isola di
Tiberio si sorprendevano di aver viaggiato migliaia di verste per finire su quel
«sassolino» in mezzo al mare. Gorkij era convinto che «una società senza classi
si può raggiungere con l’educazione ideologica del ceto operaio, elevato con la
cultura proletaria». In questo periodo scrisse “La madre” (1907), testo
rivoluzionario, in cui un’umile contadina, madre di un operaio deportato, prende
coscienza delle ragioni del figlio e dei compagni di lotta (che diventano tutti
suoi figli) sino al sacrificio della vita, elevandosi così a simbolo eterno
della Rivoluzione. Da questo testo, Bertolt Brecht trasse nel 1931 la stupenda
riduzione teatrale “Die Mutter”.
Deluso per quella Rivoluzione così diversa
da come l’aveva sognata, Gorkij abbandonò la politica attiva (scrisse: «Lenin e
Trotzkij non hanno idea della libertà e dei diritti umani») per assumere un
importante ruolo culturale, convinto che «la scienza è l’intelligenza del mondo,
l’arte il suo cuore». Nel 1922, anche per invito di Lenin (col quale esisteva un
ambivalente rapporto d’amore-odio per contrasti sostanziali), ritornò in Italia
stabilendosi a Sorrento ma lasciando il suo cuore in Russia. Richiamato per
motivi di propaganda politica, nel 1931 ritornò a Mosca ove era considerato il
«Papa della letteratura russa» Morì a Mosca il 14 giugno del 1936, forse vittima
di un complotto anti-sovietico trotzkista di destra o forse avvelenato con un
siero infetto dal capo della polizia segreta (suo amico) o forse per ordine di
Stalin del quale era stato un sostenitore, divenendo poi un ingombrante
«dissidente» sia per la brutale repressione stalinista sia per il desiderio di
mantenere la letteratura autonoma da controlli e censure.


Di Silvia Iannello


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