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Juan Ramón Jiménez, delicato poeta romantico e Premio Nobel

Pubblicato il 28-05-2008


Juan Ramón Jiménez, poeta dal temperamento delicato e dalla sensibilità sofferta, ma anche scrittore romanticamente crepuscolare, è conosciuto col solo nome di battesimo “Juan Ramón” e ha costituito la figura più rilevante del Modernismo spagnolo (una corrente nata sul filo della nuova poetica francese che in suo onore in Spagna è stata chiamata “juanramónismo”), che rappresentò la dura reazione della poesia ispanica al sentimentalismo enfatico dell’Ottocento. Senza Jiménez, senza la sua «poesía desnuda (poesia nuda)» in versi liberi e priva di metrica formale, non esisterebbero certamente i grandi poeti spagnoli Federico García Lorca e Rafael Alberti.
Juan Ramón nacque a Moguer (Huelva) nel 1881 da padre castigliano (con occhi azzurri) e da madre andalusa (con occhi neri); rimasto orfano di padre a 19 anni, dopo qualche mese nel 1901 dovette essere ricoverato per una grave depressione in una clinica per malattie mentali ove rimase per alcuni anni (questa fragilità nervosa lo perseguitò per tutta la vita). Studiò a Siviglia e quindi nel 1911 si stabilì a Madrid. Durante la guerra civile lasciò la Spagna per andare a Cuba (L’Avana), ove suscitò l’entusiasmo dei giovani poeti cubani che gli si erano raccolti intorno. Nel 1913 aveva conosciuto Zenobia Camprubí Aymar (traduttrice spagnola del poeta indiano Tagore), la donna della sua vita che sposò nel 1916 a New York, la moglie amata teneramente per quarant’anni. Nel 1931 Zenobia, purtroppo, si ammalò di un tumore che la tormentò per quasi venticinque anni. Nel 1936 la coppia si spostò a Washington ove Juan Ramón era stato nominato addetto culturale dell’ambasciata spagnola. Nel 1946 il poeta precipitò di nuovo in una grave crisi depressiva che richiese un nuovo ricovero durato molti mesi. Si mosse poi per tutto il Sud-America, tenendo affascinanti conferenze in quella lingua spagnola che amava tanto.
Nel 1950 Juan Ramón e Zenobia si stabilirono definitivamente in Portorico ove si riacutizzò la grave malattia della moglie, che fu costretta a subire diversi interventi chirurgici e che morì nel 1956. Questa situazione di tormento esistenziale è ben rappresentata nella lirica Nel nostro amore, la pena e la gioia: «Nel nostro amore, la pena e la gioia / si accendono e si spengono, / come a primavera, / la mattina e la sera. / Oh soave scontro dolce / dell’ombra e della luce, / della luce e dell’ombra / - né luce del tutto / né ombra del tutto... / Amore; crepuscolo, aurora / di primavera!». In un’altra piccolissima poesia - Il tuo cuore e il mio - così canta il suo amore per Zenobia: «Il tuo cuore e il mio / sono due parti in fiore, / che unisce l’arcobaleno». Dopo la morte della moglie, amante immortale e compagna indispensabile come l’aria, il poeta disperato si recluse in casa in completa oscurità; nella piccolissima lirica Triste? (quasi un singhiozzo), ammette di sentirsi un freddo cimitero: «Triste? / Sì; un cimitero nuovo io sono, / inaugurato, questa sera, da una / donna che è morta.». Sempre a Portorico e nella stessa clinica ove era deceduta Zenobia, Jiménez moriva a 77 anni nel 1958 (il 29 maggio di cinquant’anni addietro). I corpi dei due sposi furono in seguito traslatati in Spagna e riportati a Moguer, il paese natale del poeta che trasformò la sua casa in un museo.
Insignito del premio Nobel nel 1956, scrisse un’enorme quantità di versi di grande poesia triste e malinconica (densa di un lirismo che incanta) ma scrisse anche Platero e io (1916), un romanzo di tono elegiaco dedicato a un uomo e al suo asinello andaluso, che é stato considerato il suo capolavoro in prosa e che rappresenta un vero e proprio monumento della letteratura spagnola.

Di Silvia Iannello


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