Recensioni libri

Claude Lévi-Strauss e l’antropologia strutturale

Pubblicato il 24-11-2008


In questi giorni Claude Lévi-Strauss compie 100 anni. E’nato, infatti, a Bruxelles il 28 Novembre del 1908 da genitori francesi d’origine ebraica. Dopo essersi laureato in Filosofia alla Sorbona nel 1931, militò attivamente nel Partito Socialista ai suoi albori e insegnò in una scuola secondaria di provincia legandosi al circolo culturale del filosofo Jean-Paul Sartre. Uomo concreto, prese le distanze dall’idealismo che negli anni ’30 e ’40 imperversava nella Filosofia francese e si volse con spirito innovatore alle scienze sociali e all’antropologia, che poté esercitare attivamente mentre era professore di Sociologia all’Università di San Paolo del Brasile (1934-7), occupandosi degli Indios del Mato Grosso e della foresta amazzonica («I veri selvaggi»). In “Tristi tropici” (1955), descrisse queste straordinarie esperienze con i toni nostalgici di una commossa testimonianza e con notevole talento narrativo; un critico ha scritto: «Costituisce un’autobiografia intellettuale in cui convivono l’esperienza del viaggiatore, la ricerca sul campo e il confronto tra società moderne e primitive che si risolve spesso a favore di queste ultime».
Nel 1941 (dopo l’armistizio), costretto dalle inique leggi anti-semite riparò negli USA, ove dal 1941 al 1945 fu Visiting Professor presso la New School for Social Research di New York, occupandosi della vita familiare e sociale degli Indiani Americani. Nel 1948 ritornò a Parigi e conseguì il dottorato di ricerca, pubblicando nel 1949 la sua tesi di dottorato “Le strutture elementari della parentela”. Nel 1952 in “Razza e storia”, negò il primato dell’Occidente sostenendo la parità e l’interscambio reciproco tra le diverse culture, e scrivendo: «Nulla, allo stato attuale della scienza, permette di affermare la superiorità o l’inferiorità intellettuale di una razza rispetto all’altra». E a questo proposito presenta un esempio molto dimostrativo: considerando come criterio di sviluppo evolutivo la capacità di adattarsi a un ambiente ostile, i Beduini del deserto e gli Inuit dell’Artico debbono essere ritenuti più evoluti degli Occidentali. Ogni cultura può quindi rivendicare una superiorità che gli è propria e non esiste un criterio più specifico di un altro che consenta di considerare una cultura superiore rispetto a un’altra (si trattava allora di una nuova eversiva teoria!).
Dal 1950 al 1974 fu il direttore dell’École Pratique des Hautes Études (EPHE) dell’Università di Parigi, e dal 1959 anche professore al Collège de France. Nel 1960 fondò il giornale l’Homme.
Mentre iniziava a crescere l’interesse per lui, uscirono due libri di successo che lo resero una celebrità internazionale: l’“Antropologia strutturale” (1961) e “Il pensiero selvaggio” (1962), che considerava il pensiero allo stato grezzo (presente in tutti gli uomini, antichi e contemporanei, lontani e vicini) come un attributo universale dello spirito umano. E il pensiero selvaggio e il pensiero scientifico sono diversi ma entrambi positivi (su questi concetti si aprì un acceso dibattito con Sartre).
Seguì la scrittura e la pubblicazione di un’opera monumentale in più di 2000 pagine e in quattro volumi, dal titolo “Mitologiche” (1964-71), dedicata alla religione, all’arte e alla mitologia dei Nativi americani della Costa di Nord-Ovest.
Intellettuale insigne, fu eletto all’Académie Français e ricevette la Grand-Croix de la Légion d’Honneur. Rimase attivissimo anche dopo la pensione (1982), scrivendo numerosi saggi nei quali il suo metodo analitico di approfondimento oscillava tra pensiero logico e percezione estetica. Ormai ritiratosi a vita privata, concede ancora qualche interessante e lucida intervista.

Di Silvia Iannello



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