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Samuel Johnson, grande critico e filologo inglese

Pubblicato il 18-09-2009


Il 18 settembre di trecento anni addietro, nel 1709, nasceva in Inghilterra Samuel Johnson, noto come “il dottor Johnson” e fondatore del “The Club” (divenuto poi “Literary Club”), una società culturale che raccoglieva il meglio dell’intellighenzia inglese del tempo; diresse anche il periodico “The Rambler (Il Divagatore)”, che si occupava di filosofia e morale: influenzò stile e visione filosofica della grande Jane Austen. Il suo contributo alla letteratura inglese è stato enorme e il suo peso nella storia culturale umana insostituibile.
Johnson era sempre vissuto in mezzo ai libri: il padre era un colto libraio precipitato nella povertà e oppresso dai debiti. Scontroso ma intelligentissimo, imparò a leggere precocemente e ricordava tutto senza difficoltà perché era dotato di memoria eccezionale (aveva scritto: «L’uomo dovrebbe leggere secondo la propria inclinazione, perché quello che legge per dovere non gli servirà a niente... La vera arte della memoria è l’attenzione»). Costruì così la sua estesa cultura letteraria; disse di lui Adam Smith: «Johnson ha conosciuto più di libri di qualsiasi uomo vivente». Giovanissimo, iniziò a scrivere poesie e a tradurre versi. Completamente inesperto di relazioni femminili, nel 1735 a soli 25 anni sposò Elizabeth Jervis denominata “Tetty”, la vedova quasi cinquantenne con tre figli adulti dell’amico Harry Potter, che da quel momento si occupò di lui anche finanziariamente (il matrimonio fu avversato dalla famiglia Potter per la gran differenza d’età tra i due, e la mancanza d’indipendenza economica gli procurò in seguito gravi sensi di umiliazione). La morte della moglie che amava teneramente, avvenuta nel 1752, lo lasciò infelice e depresso per averla trascurata e costretta alla povertà (Johnson aveva creato una sua scuola privata, che presto era fallita rovinandoli economicamente).
Dopo gli studi rimasti incompleti per penuria di denaro a Oxford (che gli conferì però un dottorato onorario nel 1755), fu insegnante, giornalista, scrittore, poeta ma soprattutto critico letterario: il più autorevole della sua epoca e il più importante del mondo anglosassone, Curò in maniera mirabile prefazione e critica di molti drammi di Shakespeare, che considerava autore grandissimo e «fedele specchio di costumi e di vita inglese». Eccellente biografo di poeti del 17°-18° secolo, scrisse “Lives of the English Poets” in 6 volumi, convinto (alle soglie del Romanticismo ma nel solco della tradizione) che la vita dei grandi autori fosse utile per capire “circostanze”, contesto culturale, aspetti di un’epoca e significato della letteratura. Immenso studioso, col suo “Dizionario della lingua inglese” scritto tra il 1747 e il 1755 - prima grande esperienza enciclopedica ma anche importante testo letterario - definì e regolamentò la lingua inglese (aveva scritto: «Il linguaggio è la veste del pensiero»), guadagnando fama e denaro, ed esercitando un forte impatto sull’Inglese Moderno (fu molto imitato e ispirò Diderot e D’Alembert). Anticipatore dei grandi mutamenti politico-culturali che stavano maturando, sosteneva: «La conoscenza è di due tipi: o conosciamo un argomento per conto nostro, oppure conosciamo dove poter trovare informazioni al riguardo».
Cagionevole di salute sin dalla nascita (per anni fu affetto da scrofola tubercolare che riempì il suo corpo e il suo volto di cicatrici devastanti), visse in gravi ristrettezze economiche: fu arrestato più volte per debiti - la «calamità» di tutta la vita - e fu aiutato economicamente da editori, amici, allievi e ammiratori-mecenati. Segnato da dubbi morali e scrupoli religiosi (era un anglicano devoto e compassionevole, un antischiavista, oltre che un politico conservatore), pieno di tic e convulsi gesticolamenti, tormentato da comportamenti ossessivo-compulsivi (nel 1967 è stata fatta una diagnosi postuma di sindrome di Tourette), soffrì di un continuo disagio psichico nel timore di perdere la salute mentale, allettato dal suicidio e prossimo all’infelicità. Celeberrimi sono i suoi aforismi: «La vita umana è dovunque una condizione in cui c’è molto da sopportare e poco da godere» e «Colui che trasforma se stesso in un una bestia si sbarazza del dolore di essere un uomo», ma anche molto citata è la frase che recita: «Se un uomo parla delle proprie disgrazie, in esse c’è qualcosa che non gli è sgradevole». Della ricerca della felicità fece il tema della sua migliore opera in prosa: il racconto filosofico alla Voltaire “Rasselas (The History of Rasselas, prince of Abyssinia)” del 1759, scritto in una settimana per pagare i debiti e il funerale della madre. Il libro, pieno di episodi, esperienze, incontri, conversazioni e discussioni, ebbe un gran successo e fu tradotto in molte lingue. Una pensione governativa, attribuitagli nel 1762, gli regalò una modesta indipendenza economica sino alla morte avvenuta a Londra il 13 dicembre 1784 in seguito a un ictus cerebrale (fu seppellito nell’Abbazia di Westminster alla stregua dei grandi Poeti).
Lo scrittore Thomas Carlyle lo definì «un grande uomo capace di superare la sua epoca fino a incorporare l’idea romantica della cultura come processo lungo e ininterrotto» e il critico Harold Bloom disse di lui: «ineguagliabile per qualsiasi critico di qualsiasi nazione prima o dopo di lui», mentre la scrittrice Charlotte Lennox lo celebrò come «il più grande Genio nell’Età presente».

Di Silvia Iannello


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