Recensioni libri

Carlo Bernari tra napoletanità e neorealismo

Pubblicato il 13-10-2009


Cento anni addietro, il 13 ottobre del 1909, nasceva a Napoli Carlo Bernari (pseudonimo di Carlo Bernard), uno dei maggiori narratori meridionalisti e un precursore del Neorealismo. La sua famiglia era di origine francese: il padre dirigeva un’azienda per la tintura dei tessuti. Adolescente difficile e ribelle, ebbe una giovinezza inquieta: assolutamente inadatto alle regole scolastiche, fu espulso da tutte le scuole conducendo studi da autodidatta. La sua autonoma formazione culturale si mosse tra lo storicismo crociano e l’ideologia socialista ma grande fu la sua attenzione alle avanguardie europee: fra il 1930 e il 1932 Bernari era stato in Francia ove era venuto in contatto con Bréton, Aragon, Eluard. Ha scritto Giuseppe Giacalone: «Questo soggiorno parigino ebbe una notevole importanza per la genesi della sua prima opera importante, “Tre operai” (1934): certa spavalderia sintattica appartiene indubbiamente a quel generale sentimento di spregio per le norme costituite, per le grammatiche chiuse; lo stesso per quanto attiene alle spericolatezze avanguardistiche che non arretravano davanti a qualsiasi contaminazione; e così pure per quel clima etico-politico che l’antifascismo in esilio restituiva all’Italia dalle rive della Senna.».
Ingiustamente dimenticato, Bernari ha tracciato un solco indelebile nella letteratura italiana del Novecento con i suoi temi che gravitavano intorno al “fallimento sociale ed esistenziale” e alla sconfitta morale e materiale dei suoi velleitari protagonisti soffocati nelle loro speranze individuali (ha creato quasi un “ciclo dei vinti” alla maniera verghiana), con la sua rappresentazione dei grandi centri urbani e degli ambienti della provincia, con la sua lettura socio-economica della realtà, con la crisi del mondo contadino e l’innovazione industriale, con il contrasto nord-sud e la tragica “diaspora” della popolazione meridionale. Come ha scritto Ettore Janulardo, il suo capolavoro “Tre operai” ha costituito «un momento importante nel rapporto tra letteratura e ideologia, sia sul piano dei contenuti narrativi sia per essere stato veicolo di tensioni culturali...» (a proposito della scrittura di Bernari, Janulardo ha parlato di «valenza pittorico-visiva, dal taglio cinematografico ed espressionistico... pennellate geometriche, pastose e tenebrose, corrispondenti alle tracce figurative consacrate da Sironi alla periferia milanese... capacità dell’autore di fare di Napoli un luogo dello straniamento»). In questo romanzo Bernari rappresenta i «paesaggi interiori» di quella che definiva «la terza Napoli», città industriale piena di magagne; così scriveva: «Il nostro nerofumo, quando si spande sui mesti bucati stesi tra balcone e balcone, non è più allegro del nerofumo che si posa sui tetti del suburbio di Lilla, di Anversa o di Berlino.». Ha osservato Giacalone: «Il dramma del dopoguerra gli appariva come dramma comune di tutti i popoli... Diversamente dalla letteratura napoletana d’altri tempi che si risolveva tutta nel comico, questa di Bernari si esprime in una presa di coscienza dolorosa della realtà e della situazione di fatto in cui i personaggi napoletani vivono e soffrono, pur nella loro apparente ilarità, in una condizione grave di miseria... egli è soprattutto una mente critica, pensosa di problemi umani e sociali, che ha trovato nella Napoli fascista e del dopoguerra il teatro onde presentare la sua umanità e la sua visione della vita...» (visione di vita controcorrente, perché quello era il tempo del vuoto dannunzianesimo!).
All’inizio degli anni ’50, la sua napolitanità si trasforma in meridionalità, e nei suoi libri si fa forte la componente amorosa (la donna, con la sua ricchezza di femminilità e maternità, diviene il perno dei suoi romanzi). Pierfranco Bruni lo considera «scrittore che ha scavato nella psicologia degli amori e delle passioni. Amore-passione, amore-amante costituiscono i codici di un paesaggio sentimentale in cui l’amore stesso vive tra disillusioni, disamori e condizionamenti». Stupende pagine di letteratura d’amore ritroviamo in “Domani e poi domani” (1957) - storia della passione impossibile per una ragazza del vecchio Monaco, che come in un soliloquio continuo riflette sul suo destino e sugli anni da vivere nel sogno vano di una nuova giovinezza - e in “Amore amaro” (1958), storia della bellissima e anziana vedova Renata, amata disperatamente dal giovane Ugo ma piena di pregiudizi borghesi, in lotta con la differenza d’età e la presenza di un figlio fisicamente segnato e moralmente infelice che convincerà Ugo ad allontanarsi da lei. Ha scritto Mauro: «Libro impegnativo sul piano psicologico, proprio laddove aveva dimostrato una certa carenza di approfondimento, a vantaggio dell’indagine storica: nel ricambio poi di crudeltà e pietà, e nel distendersi di questo rapporto, Bernari ha rivelato forti e coscienti doti di narratore: essendo riuscito a cogliere, nella caducità dei rapporti umani, il disperato contrasto della vita.».
Morì a Roma il 22 ottobre del 1992.
Si è detto di lui: «scrittore realista ma soprattutto scrittore dell’incanto dei personaggi che raccontano gli amori»; e i critici hanno dato una interpretazione non soltanto realista ma anche estetico-simbolica dei suoi testi «richiamando eredità che riportano a Giuseppe Marotta, Carlo Levi, Corrado Alvaro e Thomas Mann» (tra l’altro, Bernari aveva scritto un saggio su Corrado Alvaro nel 1957 e sulla rivista “Paragone” nel 1966 aveva pubblicato “Mann e noi”).


Di Silvia Iannello


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