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Thomas de Quincey e il consumo d’oppio nell’Inghilterra vittoriana

Pubblicato il 15-12-2009


L’8 dicembre di centocinquanta anni addietro moriva a Edimburgo il grande scrittore-giornalista inglese Thomas de Quincey (era nato a Greeenheys il 15 agosto del 1785). Figlio di un commerciante di Manchester malato di tubercolosi, rimase orfano in tenera età - era un bambino gracile e malaticcio - e fu affidato alla madre e alla sorella, morta prematuramente nel 1792. Dotato per gli studi ma d’animo inquieto, abbandonò la scuola per vagabondare soffrendo la miseria e la fame e trovando soccorso soltanto in Ann, una povera ma compassionevole ragazza che ricordò sempre con rammarico. Studente universitario a Oxford, nel 1804 aveva cominciato a prendere il laudano, prima per curare una banale nevralgia poi per vizio. Il laudano era un famigerato farmaco costituito da una tintura alcolica d’oppio e tanti danni provocò nelle isteriche donne dell’Ottocento (fu responsabile della morte della grande poetessa inglese Elizabeth Barrett Browning); era una sostanza che tutte le famiglie inglesi tenevano allora in casa (come oggi noi l’aspirina) e molti ne facevano abuso. Nell’autobiografico “Confessioni di un oppiomane (Confessions of an English Opium Eater)” (1821), considerato uno dei capolavori romantici della letteratura inglese della prima metà dell’Ottocento, de Quincey racconta la sua esperienza sull’oppio. Nella droga - e non fu il primo - lo scrittore vedeva la possibilità di giungere alle vette della creatività letteraria, ma fu costretto a convivere con questa nefasta tossicodipendenza per cinquanta anni (era arrivato a prendere sino a ottomila gocce di laudano al giorno). Con triste consapevolezza scriveva: «Chi non l’ha preso mai, ora lo prenderà / e chi l’ha sempre preso, ne prenderà di più», e osservava: «Ecco il segreto della felicità, intorno al quale i filosofi avevano disputato per tanti secoli! Eccolo scoperto d’un tratto: la gioia si può comperare con due soldi, si può tenere nel taschino del panciotto: estasi portatile che si può imbottigliare a litri, pace dell’anima che si può spedire per posta»; provava però anche «i tormenti di un uomo che passa da un modo di esistere a un altro ed è soggetto alle pene del nascere e del morire». Descrisse i «celestiali piaceri dell’oppio» (la sua capacità di conferire serenità rimuovendo i dolori fisici e le sofferenze morali «per le ferite che non guariranno mai», il suo effetto di espandere la luce della mente e i sentimenti del cuore) ma n’esaminò anche «le pene», costituite da orribili visioni da incubo, da fantasmi e ombre nemiche, e da terribili allucinazioni (e le pene fisiche e spirituali diventavano ancora più intense e distruttive, quando tentava di ridurne le dosi). E noi sappiamo bene che da allora numerosissimi sono stati gli eredi di questi sogni distorti e di questa tragica dipendenza (pensiamo ai grandi e controversi scrittori della “Beat Generation”)! Thomas cita come consumatori abituali d’oppio i poeti Samuel Taylor Coleridge, George Byron e John Keats, e riporta come i lavoratori delle classi povere usassero l’oppio il sabato come un’alternativa più economica alla birra o al whisky, essendo disponibile liberamente e a poco prezzo nelle rivendite autorizzate.
Grande estimatore di Coleridge e Wordsworth (amici nella vita oltre che ispiratori creativi), de Quincey nel 1809 si stabilì vicino a loro nel Westmorland, ove condusse studi classico-filosofici (fu precocissimo nell’imparare il greco antico). Gravato dai debiti e da quella dipendenza divenuta il centro delle sue cure quotidiane, oppresso dalla necessità di dover mantenere una numerosa famiglia (nel 1813 aveva sposato Margareth Simpson, figlia di un fattore con la quale aveva avuto otto figli), fu costretto per anni a scrivere numerosi articoli sul London Magazine sino a quando non raggiunse fama e benessere con le “Confessioni”, apparse prima a puntate sul London Magazine, poi in volume (da questo libro - così ricco di moderna introspezione, di divagazioni colte e di drammatiche atmosfere - fu tratto nel 1962 il film di Angel Zugsmith interpretato da Vincent Price). Seguirono “L’Assassinio come una delle belle arti” (1827), “I poeti dei laghi inglesi” (1834), “Suspiria de Profundis” (1845) (che ha ispirato l’onirica trilogia di Suspiria, Inferno e La terza madre di Dario Argento) e “Il Postale inglese” (1849), che celebrava la modernità di un impero. L’autore non bissò più, però, il successo imperituro del primo libro.
Virginia Woolf prediligeva de Quincey (era tra l’altro l’autore preferito della madre): a lui, che aveva conosciuto «il solitario combattimento con il dolore... la tenebra possente... il dolore senza voce», dedicò il saggio L’autobiografia di de Quincey. Fu amato anche da Charles Baudeleire (col quale condivise l’abuso di droga), da Edgar Allan Poe (col quale condivise l’humour cinico) e dai simbolisti (coi quali condivise la visionarietà). Anche lo scrittore argentino Jorge Luis Borges fu un suo grande estimatore: amò soprattutto “Le avventure di una monaca vestita da uomo”, romanzo di avventure dedicato alla vita di Catalina (suora travestita da soldato); egli scrisse: «De Quincey, in certe notti di minuzioso terrore, s’immerse nel cuore di labirinti, ma non coniò la sua impressione di “inesprimibili e ripetute infinitudini” in favole paragonabili a quelle di Franz Kafka».

Di Silvia Iannello



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