Paul von Heyse, un premio Nobel che amò Leopardi
Pubblicato il 22-03-2010
Cento anni addietro riceveva il premio Nobel per la Letteratura Paul von Heyse (nato a Berlino il 15 marzo del 1830 e deceduto a Monaco il 2 aprile del 1914), che è ritenuto uno dei più grandi autori tedeschi. Figlio di un noto filologo e di una ricca israelita imparentata con Mendelssohn, sulle orme paterne seguì presso le università di Berlino e di Bonn studi di filologia e di letteratura romanza. Il suo esordio fu strepitoso: ancora giovanissimo, nel 1850 conobbe il successo con la tragedia in cinque atti "Francesca da Rimini", uno dei suoi testi più conosciuti, di ambientazione italiana come per molte sue opere. Dopo aver conseguito il dottorato (1852), andò in Italia grazie ad una borsa di studio e vi rimase per un anno, iniziando ad amare e a tradurre diversi poeti italiani (nel 1868 curò l'edizione di una "Antologia dei moderni poeti italiani").
Chiamato nel 1854 a Monaco da Massimiliano II di Baviera, gli fu offerta una lauta pensione come professore onorario (quasi un poeta di corte), che gli consentì di dedicare tempo ed energie alla scrittura di novelle, romanzi, drammi e poesie. Grande esperto nei racconti brevi (ne scrisse oltre 100, quasi tutti di ambiente italiano), vi riversò fantasia e capacità di indagine interiore, stile raffinato e accurati ritratti psicologici: sono da ricordare numerose raccolte di novelle che includono la famosissima "L'arrabbiata" (1855) - che racconta una storia d'amore ambientata in Italia - , "Figlia di Maria" (1892), "Un matrimonio a Capri" (1896) e "L'imperatrice di Spinetta" (pubblicato postumo nel 1981), tradotte e conosciute anche in Italia. Raggiunse la fama con i tre volumi del romanzo "I figli del mondo" (1873). Nel 1900 pubblicò la sua autobiografia "Ricordi di gioventù e Confessioni" (così popolare arrivare alla quinta edizione nel 1912).
A capo del circolo dei poeti estetizzanti di Monaco e membro delle più importanti Società di Poesia, divenne ben presto uno degli scrittori tedeschi più stimati ed influenti. Nel 1910 ricevette il Premio Nobel per la Letteratura con questa motivazione: «Come un tributo alla sua consumata abilità artistica, permeata d'idealismo, con la quale si è rivelato durante la sua lunga e produttiva carriera come poeta lirico, drammaturgo, novelliere e scrittore di racconti rinomati in tutto il mondo». Ben presto le opere di von Heyse furono dimenticate, cancellate dal Naturalismo e da autori come Henrik Ibsen ed Émile Zola.
Von Heyse amò l'Italia e gli autori italiani ma predilesse soprattutto Giacomo Leopardi, in onore del quale scrisse il breve romanzo lirico "Der verlorene Sohn, Nerina (Nerina, Il romanzo del segreto amore di Leopardi)", incluso nelle "Novellen" pubblicate nel 1890, in cui rivisita la storia dell’incontro di due anime affini (una giovanissima figlia del popolo e un sensibile infelice ragazzo di nobile famiglia) e ricostruisce l'amore perduto di Giacomo per una fanciulla - quasi il fantasma di un sogno - che sapeva comprenderlo e che era compresa da lui. Rammento che "Le ricordanze" (XXII) - che iniziano con i noti versi «Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea / tornare ancor per uso a contemplarvi» - ci parlano di Nerina, che probabilmente altri non era che Teresa Fattorini, la figlia del cocchiere della famiglia di Giacomo, morta di tisi nel 1818 e ispiratrice di "A Silvia" («Silvia, rimembri ancora / quel tempo della tua vita mortale, / quando beltà splendea / negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi...»). Forse, però, Nerina era Maria Belardinelli, un’altra ragazza morta a 27 anni, che era solita ricamare al telaio mentre stava affacciata alla finestra di fronte a quella del Leopardi: «(...) / O Nerina! e di te forse non odo / questi luoghi parlar? caduta forse / dal mio pensier sei tu? Dove sei gita / che qui sola di te la ricordanza / trovo, dolcezza mia? Più non ti vede / questa Terra natal: quella finestra, / ond’eri usata favellarmi, ed onde / mesto riluce delle stelle il raggio, / è deserta. Ove sei, che più non odo / la tua voce sonar, (…) / (…) Altro tempo. I giorni tuoi / furo, mio dolce amor. Passasti. (…) / Ma rapida passasti; e come un sogno / fu la tua vita. Ivi danzando; in fronte / la gioia ti splendea, splendea negli occhi / quel confidente immaginar, quel lume / di gioventù, quando spegneali il fato, / e giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna / l’antico amor. (…) / (…) Ahi tu passasti, eterno / sospiro mio: passasti: e fia compagna / d’ogni mio vago immaginar, di tutti / i miei teneri sensi, i tristi e cari / moti del cor, la rimembranza acerba.».
Se Silvia era il simbolo della Speranza vanificata dalla vita reale, Nerina era il simbolo amaro della Giovinezza ormai perduta. E Silvia e Nerina, personaggi autobiografici, sono diventati i simboli eterni della comune vicenda umana. Chi di noi (incluso Paul von Heyse) non è stato Silvia, Nerina, o Giacomo? Chi di noi non ha avuto acerbi sogni d’amore e di felicità che il tempo e la realtà hanno fatto miseramente fallire? Quanti cari compagni della giovinezza abbiamo perduto per strada, e il nostro cuore ancora ne soffre e piange!
Di Silvia Iannello
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