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Recensione Patrick Süskind

Patrick Süskind

sull'Amore sulla Morte

Quell’eterno dilemma
Che Patrick Süskind sia una autore sopra le righe, anticonvenzionale in maniera estrema, schivo nella vita, quanto clamoroso nella scrittura, lo si era già capito col suo originalissimo Il Profumo (1985), romanzo dal successo mondiale, bestseller (che solo in Italia ha venduto un milione di copie), tradotto in più di venti lingue, da cui è uscito nel 2006 un adattamento cinematografico, diretto da Tom Tywker e persino due canzoni, Scentless Apprentice (apprendista senza profumo) dei Nirvana e Duriechst so gut (hai un profumo così buono) del gruppo tedesco Rammstein.
Un romanziere con questi connotati letterari, non deve dunque stupirci se continua a mantenere il suo carattere anche come saggista, magari scandalizzando i benpensanti, ma divertendo quanti sanno volare oltre l’angustia del convenzionale. Ci riferiamo al saggio sull’Amore sulla Morte (titolo originale: “Űber Liebe und Tod”, Longanesi, pp.74, euro 9,60, tradotto da Giovanna Agabio) dove l’autore compie un viaggio dentro l’antico tema di Eros e Thanatos, esplorandolo col suo occhio disincantato.
Süskind non può sottrarsi all’eterno dilemma per cui Amore e Morte siano così fortemente legati. “Stendhal – scrive - lo chiama una cristallizzazione, in altra sede una febbre; l’innamoramento sarebbe un’ ebbrezza, dice Socrate nel Fedro, una malattia, una follia (…) una mania ispirata dal divino, una follia divina che farebbe vibrare l’anima prigioniera del terreno”. Dunque, la passione amorosa, quando raggiunge il suo acme, conduce in maniera irreparabile all’idea della morte?
Rispondere non è certo facile e il nostro scrittore bavarese (nato nel 1949 ad Ambach) si fa confortare da Socrate, Platone Goethe, Kleist, il già citato Stendhal, Wagner e Thomas Mann al fine di sciogliere l’enigma, mettendo in epilogo a confronto i destini di Orfeo e Cristo, dimostrando una netta preferenza per il primo.
Certo, il suo modo di affrontare l’argomento è a dir poco irriverente, ma a nostro avviso Süskind non può essere letto alla lettera, in maniera pedissequa, senza indossare gli indispensabili occhiali della sua corrosiva e laica ironia, quando afferma di ammirare l’umanità di Orfeo che – sceso agli inferi alla disperata ricerca della sua Euridice – “subiva la duplice tortura di non potersi voltare e forse di esser stato ingannato fin dall’inizio”, preferendo la fragilità dell’eroe mitico che non sa resistere e si volta a guardare, rompendo l’incantesimo con la sua disubbidienza, alla perfezione – a suo avviso - freddina del Cristo.
“La storia di Orfeo ci commuove ancora oggi perché è la storia di un fallimento. – sostiene l’autore - . Il tentativo meraviglioso di conciliare fra loro le due misteriose forze primordiali dell’esistenza umana, l’amore e la morte, e di indurre a un piccolo compromesso almeno la più crudele delle due, alla fine ha mancato il bersaglio. La storia di Gesù, invece, per quanto riguarda il confronto con la morte, è trionfale dall’inizio alla dolorosa fine”. Nell’ottica dissacratoria di Süskind, è deplorevole il fatto che in Gesù l’eros non compaia, per cui il Nazareno, così immune dalla febbre amorosa, gli appare pervaso da “una grande freddezza, distacco e disumanità. Ma non pretendiamo troppo da lui. Forse era soltanto un dio. Orfeo ci è più vicino – sostiene -. Nonostante la sua esaltazione e la sua successiva bizzarria, ci è più vicino per via del suo carattere non fanatico, della sua civiltà, della sua astuzia e della sua assennatezza assolutamente non apodittiche; e nonostante e proprio per il suo fallimento. Orfeo è stato indubbiamente l’essere più completo”.
Pur dissociandoci dal bizzarro percorso suskindiano, non possiamo non sottolinearne la forza laica pervasa di stuzzicante cultura, il viaggio dentro l’amore per la morte e la morte per l’amore di uno scrittore che, a volte, ci sembra dire cose controcorrente anche e soprattutto per sbalordire.

Grazia Giordani

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