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Recensione Matteo Grimaldi

Matteo Grimaldi

Matteo Grimaldi, intervista all’autore di “Non farmi male”

Matteo Grimaldi, venticinquenne aquilano, è autore della bella raccolta di racconti intitolata “Non farmi male” (Kimerik). Senza dubbio, il suo è uno fra gli esordi più significativi che il panorama abruzzese degli ultimi tempi abbia conosciuto. Il suo blog è www.lastanzadelmatto.splinder.com. Simone Gambacorta lo ha intervistato.

Mi è parso di capire che scrivi da sempre, nonostante la tua giovane età…

«Sì. La scrittura è stata fin da giovanissimo il mio semplice modo per scacciare la realtà. Mi rifugiavo in pagine inventate, e facevo accadere quello che nella vita quotidiana non potevo modificare. Si è evoluta con me e continua a farmi compagnia. È consolazione perché comunque una possibilità me la offre sempre, ed è rabbia, perché certe volte fa davvero male. Entra dentro, e mi tormenta finché non trova la sua via di fuga»

Cos’è che leggi?

«Mi piace molto la narrativa italiana contemporanea. Baricco, De Carlo, Benni, Ammaniti. Vado alla ricerca di un linguaggio diretto, d’impatto, che scava nelle emozioni senza troppi fronzoli. Ora sto leggendo “V.M. 18”, l’ultimo romanzo di Isabella Santacroce. Ecco, lei è l’unica che io conosca capace di tagliare la pelle con le parole»

Hai un blog che si chiama “La stanza del matto”. Chi è il matto, tu?

«Sì. Il nick matto proviene dalla scuola superiore. Una compagna di classe mi chiamava così giocando col mio nome, per via della mia tendenza ad essere esageratamente me stesso in ogni circostanza, senza preoccuparmi di quelli che sono i paletti che regolano le buone maniere, o i comportamenti da tenere, per non risultare fuori luogo, anche a costo di ricorrere ad atteggiamenti costruiti. Mi sono sempre tenuto distante dalla finzione, andando spesso incontro ai giudizi poco carini di chi vive per i modi. Solo i matti sono sempre e pienamente loro stessi. Per questo ho chiamato così il mio blog, al quale naturalmente siete tutti invitati.
www.lastanzadelmatto.splinder.com»

“Non farmi male”, il tuo libro, raccoglie sette racconti: come mai hai scelto questa forma narrativa?

«Le storie di “Non farmi male” hanno bisogno di poco tempo per parlare. Mi piace paragonarle ognuna ad una coltellata assestata da un’anima diversa, arrabbiata, delusa, vendicativa, ingiusta. Amo il racconto, ma sto lavorando ad altro. Il mio prossimo libro, editori permettendo, sarà un romanzo»

Vorrei che mi dessi una “tua” definizione di ogni racconto.

«“Cemento” è l’allucinazione di una notte stanca. Quello che più s’è lasciato apprezzare ancor prima che venisse pubblicato su carta. La prova di quanto un’amicizia di sangue possa distruggere la vita. “La voce di V” è il resoconto di una violenza carnale sulla quattordicenne V, vista dagli occhi dell’amica e raccontata nel suo blog. Il più vero dei sette. In “Passione da cani” il protagonista si sfoga contro una realtà che sembra non voler vedere la sua passione, che è vita per lui. Anche questo è intriso di sensazioni che ho provato, e spesso provo ancora, sulla mia pelle. “Grigioscuro” è la scelta. Smettere di vivere una vita che non ci piace per niente, sfortunata se paragonata ad altre più luminose, oppure continuare a respirare, consapevoli che non sarà mai felicità. “Non farmi male” è il più crudo. Il grido di dolore, travestito da ingenuità, di un bambino di otto anni che subisce continue violenze dal compagno di sua madre. È un’ingiustizia straziante, raccontata da una piccola voce impotente. “Domani addio” è la lettera di un figlio arrabbiato con un uomo che ha smesso tutto d’un tratto di essergli padre. “Veleno Rosso Sangue”, una lunga novella vampirica in undici capitoli. Un racconto particolare, più simile, per struttura, a un romanzo in miniatura. La vicenda della giovane Diana e del suo incontro con Alejandro, la Morte, che le salva la vita condannandola per l’eternità. Lo so che sembra uno scioglilingua folle. Bisognerebbe leggerlo»

In quanto tempo li hai scritti?

«La prima stesura, quella d’istinto, solitamente si conclude in un paio di notti. Poi qualche giorno per aggiustamenti vari. Eccezion fatta per “Veleno Rosso Sangue” e per “Passione da cani” che hanno richiesto un lavoro più attento e accurato, anche di ricerca»

Sono nati ciascuno per conto proprio oppure li hai pensati e messi su carta con l’idea precisa di farne un libro?

«Quando l’ho scritti non pensavo di farne un libro. Poi un giorno riflettevo sulla notevole quantità di storie che avevo accumulato nel tempo, e queste sette sembravano gridare accomunate dallo stesso filo conduttore. La paura di vedere la propria vita rovinata da un incontro. E così l’ho proposte ed è nato “Non farmi male”»

Qual è quello – o quali sono quelli – che ti hanno fatto penare di più? Voglio dire: quali sono i racconti che, per essere scritti, hanno preteso da te più concentrazione e lavoro?

«Certamente “Veleno Rosso Sangue”. Quando ci si addentra nel fantasy si corre sempre il rischio di dire stupidaggini e cadere nel ridicolo. Di storie sui vampiri ne sono state scritte milioni. Volevo che Alejandro fosse diverso, che avesse dietro una caratterizzazione forte, rabbiosa, dolorosa. C’è voluto tempo e tante ricerche nella Storia. Quella vera, fatta di momenti di cui l’uomo deve continuare a vergognarsi, come l’inquisizione, appunto. Alejandro ha il potere di inorridire il lettore e allo stesso tempo quasi di farsi voler bene, per via del suo orribile passato»

Hai dei modelli di riferimento? Dei maestri, anche ideali, che tieni presenti mentre scrivi?

«Molti hanno ritrovato nelle mie storie Niccolò Ammaniti. Il paragone mi onora. Non è voluto, ma quando leggi tutto di un autore qualcosa inevitabilmente ci finisce dentro»

C’è qualcuno cui sottoponi le tue pagine? Un consulente speciale, un amico, un’amica…

«No, prima capitava. Mi sono reso conto col tempo che il parere di una persona cara è per forza di cose troppo condizionato dal legame affettivo, e quindi mai obbiettivo. Adesso sono io il più intransigente critico di me stesso. Non mi piace quasi nulla di ciò che scrivo e quindi, di getto, finisce nel cestino. Pochi lavori sopravvivono; e quando questo accade, si rivelano poi effettivamente buoni»

Quand’è che ti accorgi di dover scrivere una storia?

«Quando la vedo per intero. Con i suoi personaggi, con i loro sguardi. E quando mi viene la pelle d’oca. È quello il momento di mettersi a scrivere, poi magari finisce tutto dopo due pagine»

E quand’è che capisci che quella storia può camminare da sola, con le proprie gambe?

«Rileggo le mie storie fino allo sfinimento, e non esagero quando dico che alla fine le conosco quasi a memoria. Il momento di chiudere e respirare coincide in me con la consapevolezza che quella storia ha voce autonoma, e spesso riesce a dire molto più di quanto pensassi quando era ancora soltanto un’idea»

Il tuo libro è fatto di emozioni, di sentimenti, di sensazioni, di impatti e di escoriazioni. Forse però c’è qualcosa di più. L’indizio viene dal titolo: “Non farmi male” (dal racconto eponimo, forse il più bello della raccolta). Credo il tuo sia soprattutto un libro sulla sostanziale vulnerabilità dei viventi.

«È certamente la definizione migliore che sia stata data del mio libro. L’essere umano ha un’innata fragilità capace di mettere in dubbio qualunque certezza. Esistono personaggi incontrati del tutto casualmente a volte, che nel corso della vita assumono un tale potere da rovinarla definitivamente. E il piccolo Daniel, più d’ogni altro protagonista, ne è un esempio lampante»

Qual è la tua idea di racconto?

«Il racconto ha la particolarità di nascere e morire in poche pagine. È una forma espressiva che si adatta perfettamente a quelle che io chiamo folgorazioni. Quando un’immagine, o un personaggio racchiudono già in sé una storia che non ha bisogno di intrecci macchinosi, che ruota attorno a un episodio che si completa in quell’arco di tempo relativamente breve. È l’idea di un attimo, ma questo non vuol dire che dietro non vi sia un lungo e attento lavoro»

Ho notato che lavori anche sui dialoghi…

«Un dialogo riuscito arriva al lettore molto più di una buona descrizione. Il dialogo è diretto, talvolta irrazionale, incontrollabile, questione di pochi minuti. Rivela l’essenza dei personaggi, come la pensano e come reagiscono di fronte a determinati accadimenti o risposte. Dedico molto tempo ai dialoghi, li rileggo finché non vedo coi miei occhi il personaggio pronunciare quelle parole, con il tono che più gli si addice. Spesso rimango sorpreso persino io, perché non me l’aspetto»

Ma conta più la storia o lo stile con cui è scritta? Oppure sono due cose inscindibili?

«È come chiedersi se di una canzone è più importante il testo o la musica. Io ad esempio faccio molto caso al testo, anche se esistono delle melodie capaci di trasmettere emozioni, ed evocare immagini splendide a prescindere dal contenuto. Tornando alla letteratura una buona storia è fondamentale, lo stile poi è la confezione regalo. Devo dire però che resto più affascinato da uno stile particolare che da una trama avvincente, ma è un discorso puramente soggettivo perché poi, quello che resta nel tempo, quello che davvero convince, è l’accostamento speciale, irripetibile e perfetto. E, se dovessi fare un nome, direi Italo Calvino»

Intervista di Simone Gambacorta

Tratto da www.abruzzocultura.it

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