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Recensione Michael Crichton

Michael Crichton

Intervista

Le sue storie nascono da preoccupazioni e ansie personali o si ispirano piuttosto a temi e avvenimenti contemporanei?

Cerco sempre di non analizzare troppo la genesi dei miei romanzi. Il punto di partenza può essere la soluzione di un problema narrativo (per esempio come indurre il lettore a credere nella sopravvivenza dei dinosauri) o di un problema reale (qual è il rapporto tra aggressore e vittima in un caso di molestie sessuali?).

La trama serve a dimostrare una serie di assunti scientifici o a metterli in discussione?

Più che per la stesura di un romanzo, le ricerche mi servono per dare una risposta alla questioni che più mi interessano. Per esempio, in Timeline volevo scoprire come vivevano i cavalieri medievali, mentre in Preda mi sono interrogato sui possibili sviluppi della biotecnologia e della nanotecnologia.

Che cos’è la nanotecnologia?

È il tentativo di costruire macchine sempre più piccole, nell’ordine dei 100 nanometri, mille volte più piccole del diametro di un capello umano. Come prevede Pundits, queste minuscole apparecchiature troveranno molteplici applicazioni, dai componenti dei computer alle nuove terapie contro il cancro e alle nuove armi da guerra. Scoperta nel 1959 dal fisico Richard Feynman, dopo quarant’anni questa tecnologia è ancora agli albori ed è stata applicata nella fabbricazione di schermi solari, tessuti antimacchia e componenti dell’industria automobilistica di dimensioni estremamente ridotte. Soltanto nel 2002 sono apparsi i primi “miracolosi” prodotti della nanotecnologia, come le finestre autopulenti o le garze con proprietà antibiotiche e anti-infiammatorie.

Queste piccole e insidiose macchine sembrano essere l’argomento che le sta più a cuore tra quelli che ha esplorato nella sua carriera. Come in Andromeda, il punto di partenza di Preda, sembra essere più tangibile e riguardarci più da vicino che la sopravvivenza dei dinosauri.

Il mio punto di vista non è questo. Cerco sempre di scrivere libri che mi prendono per la gola. Non penso di avere molta scelta o di poter esercitare un qualche controllo sul risultato finale. Spesso non voglio scrivere un libro ma mi sento quasi costretto a farlo.

Preda può essere letto come una sorta di Frankenstein dei giorni nostri. Come nel romanzo di Mary Shelley, Preda affronta l’eterno dibattito tra umanisti e scienziati, dove la scienza può migliorare la qualità della nostra vita ma, come è emerso nel XX secolo, può anche cancellare l’umanità. Pensa che per uno scrittore con un background scientifico e una grande capacità divulgativa schierarsi dalla parte degli umanisti, come fa in Preda, sia una specie di obbligo morale?

No. Come ha chiaramente spiegato C.P. Snow nel suo saggio Two Cultures, il problema non è tanto criticare l’una o l’altra posizione, ma essere in grado di affrontarle entrambe. La nostra società dipende in gran misura dalla scienza e dalla tecnologia e ormai non è più possibile tornare indietro. I creatori della tecnologia dovrebbero tuttavia preoccuparsi maggiormente delle conseguenze. Come la guerra è troppo importante per essere lasciata ai generali, anche la scienza è troppo importante per essere lasciata soltanto agli scienziati. Nel corso degli ultimi anni, tuttavia, le critiche degli umanisti si sono spesso rivelate prive di fondamento e gli scienziati non hanno prestato ascolto a chi cercava di spaventare il pubblico con assurdi rischi frutto di una totale disinformazione. Nel frattempo, la scienza ha cambiato la definizione di umanità. Trapianti, computer palmari, telefonini cellulari, pillole per rilassarsi e attivarsi, jet intercontinentali e nuove terapie mediche hanno radicalmente mutato la nostra esistenza. Fino a non molto tempo fa, i genitori non davano subito un nome ai loro bambini perché molti morivano da piccoli, e spesso si mettevano in posa per una fotografia con il bambino morto prima di seppellirlo. Gli hawaiani non celebravano la nascita dei bambini finché non avevano compiuto un anno, e questa tradizione sopravvive ancora oggi. Fino a non molto tempo fa, una donna su sei moriva durante il parto. Oggi tutto questo è cambiato, e conseguentemente sono cambiate anche le nostre vite e le nostre aspettative, perlomeno nei paesi più industrializzati. Ma nessuno si è mai lamentato di questo impatto della scienza sull’umanità.

Ha scritto Preda pensando anche ai lettori più giovani, la generazione che utilizzerà per prima i prodotti della nano e della biotecnologia? Quali letture suggerirebbe per un primo approccio alla scienza? L’etica è secondo lei davvero così importante come sostiene in Preda?

I giovani lettori hanno sempre apprezzato i miei libri e spero che lo stesso accadrà con questo romanzo. Ma non l’ho scritto pensando a un pubblico particolare. In appendice al volume, una bibliografia scelta suggerisce alcuni percorsi di lettura per chi vuole approfondire i temi trattati.

Quanto tempo dedica alla scrittura di un romanzo, dall’idea iniziale alla pubblicazione?

Ogni libro è un caso a sé. La grande rapina al treno l’ho scritto in tre anni, Sfera in venti. Per Jurassic Park ci ho messo otto anni e per Rivelazioni cinque. Generalmente, lascio decantare a lungo l’idea di partenza prima di mettermi a scrivere.

Svolge un ruolo attivo all’interno della comunità scientifica o si tiene informato sulle più recenti tecnologie leggendo libri e riviste?

La lettura ha un ruolo primario. Parlare con gli esperti non è infatti il sistema migliore, giacché gli scienziati, in quanto tali, non sono molto inclini alla speculazione.

Le macchine e i computer possono pensare da soli, senza l’intervento dell’uomo?

No. I cosiddetti prorgammi multiagenti creano un gran numero di agenti virtuali che interagiscono tra loro all’interno del computer. Questi agenti cooperano per raggiungere un obiettivo, ma il risultato finale è imprevedibile. La capacità di pensiero di questi programmi e soprattutto una questione di definizione, e d’altronde anche i meccanismi del nostro pensiero sono in gran parte sconosciuti.

Le dà più soddisfazione la scrittura solitaria di un libro o la collaborazione a un film o a un programma televisivo?

Quando scrivi un libro, puoi raccontare le cose esattamente come vuoi, ma devi lottare con te stesso. E poi sei spesso solo, il che mi va anche bene, se non fosse che poi alla lunga finisci per perdere la capacità di conversare (che in me non è mai stata molto spiccata). In un certo senso, scrivere è quindi un’attività asociale, ma quando il libro è finito, bello o brutto che sia, lo senti come qualcosa di completamente tuo, e questa è comunque una grande soddisfazione. La collaborazione a un film o a un serial TV è invece qualcosa di completamente diverso. Non riesci mai a farlo esattamente come vorresti e devi sempre lottare con gli altri, il che è più facile che lottare con te stesso ma non certo più divertente. Il risultato finale non è interamente tuo, anche se sei il regista o lo sceneggiatore. Dopo tanti anni di lavoro in collaborazione ho finito per abituarmi, e talvolta può essere molto divertente.

Quali erano le sue materie favorite al college? E quali sono oggi i suoi hobby?

Ho studiato antropologia, e l’archeologia e le prime civiltà erano gli argomenti che più mi appassionavano. Attualmente mi piace fare escursioni e scuba, mi interesso d’arte e colleziono orologi da polso.

Quali sono i suoi romanzi favoriti?

Il signore delle mosche di William Golding è il mio romanzo favorito, ma anche Vita sul Mississippi di Mark Twain (che considero un romanzo), I tredici orologi di James Thurber e L’abbazia di Northanger di Jane Austen, e poi tutti i libri di Sigmund Freud, che è senza dubbio il miglior romanziere del XX secolo, e alcuni classici della letteratura per ragazzi, come Il mastino dei Baskerville di Arthur Conan Doyle, La signora in bianco di Wilkie Collins e L’isola misteriosa di Jules Verne.

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