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Recensione Vincenzo Cerami

Vincenzo Cerami

Fantasmi

le prime pagine
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Primo movimento

Non badare troppo alla forma, Angela. Qua e là ho scritto con foga, lasciandomi prendere dall'ingordigia di raccontarti chi sono. Finalmente, dirai tu. Ho buttato sul computer parole alla cieca, liberando il più possibile la spontaneità dei pensieri. Perché di me conosci solo la maschera che ogni mattina incollo sul volto per piacerti, per piacermi attraverso i tuoi giudizi (oh, quanto silenziosi!) Non posso più rimandare quest'appuntamento con la verità. Che forse è durissima, che forse non ti piacerà. Ma devo rischiare. Se dovrai starmi accanto tutta la vita, hai il diritto di sapere chi sono veramente. L'artista è un po' mitomane, e presuntuoso.
I fondali, le scenografie dell'autoritratto che stai per leggere non corrispondono a quelli reali. Anche l'epoca in cui mi vedrai agire non corrisponde a quella vera. Mi sono calato nei panni di un altro uomo che fa cose diverse da quelle che ho fatto io e che vive circa seicento anni dopo Cristo. Ti chiederai perché questo assurdo salto temporale, perché tanta finzione per confessarmi? Soltanto immaginandomi diverso da come sono, in un'altra epoca e in un altro luogo, sono riuscito a fotografare quella che io penso sia la mia vera essenza di uomo. Ti sembrerà un paradosso, ma è così. Mi racconto attraverso un apologo, mettendo in scena ciò che ho dentro e che neppure io conosco bene, senza perdermi nella pastoia limacciosa e fuorviante dei ricordi personali.
Ciò che stai per leggere è il film che voglio realizzare, il mio primo e forse ultimo film. All'inizio farai fatica a riconoscermi. Piano piano, invece, scoprirai che "Madame Bovary c'est moi" (scusa la banalità della citazione) e che dentro alla storia ci sei anche tu. Buona lettura.

Bahira, un anziano monaco cristiano, camminava nel deserto con la testa incappucciata e i sandali in mano. Come Matamoro aveva le tasche gonfie di grandi pietre, per umiliare, assoggettare il corpo. Lo accompagnava un coro di angeli che soltanto lui sentiva. Un pesante medaglione a forma di pesce gli batteva sul petto. Finalmente, dietro le ultime dune, lontanissimo, contro il cielo avvampato egli vide il nero baluginio degli uccelli.
Laggiù scorreva l'Eufrate. E sulla riva dell'Eufrate, lungo un'ansa, era ferma una carovana. All'ombra di un palmizio c'era un gruppo di arabi seduti a terra, in circolo. Sulla sabbia, al centro del cerchio, giaceva un lungo spago con un nodo in mezzo. Il viso cianotico del kahin, il mago dei carovanieri, si gonfiava fissando minacciosamente la cordicella. Egli salmodiava e soffiava, soffiava. La sabbia volava e ricadeva sullo spago, e lo copriva. Il mago allora, con la punta delle dita, lo portava allo scoperto, lo lasciava ricadere, come se scottasse, e ricominciava da capo. Gli altri invocavano i ginn, gli spiriti invisibili, con una litania corale piena di ardore, le braccia sollevate.
Abu Talib, il vecchio capo della carovana, faceva parte del coro. (Nota bene: è un signore dall'aspetto buio, calcinato: penso a mio padre nella calura delle nostre vacanze estive in Maremma). Attaccato alle sue vesti c'era il nipote, un ragazzino silenzioso e stravolto dalla paura. (Nota bene: quel ragazzino, mia cara Angela, sono io nell'età dei brufoli, spaventato dal futuro che mi appariva come una montagna di detriti, pronta a cadermi addosso con un frastuono spaventoso).
Gli arabi in circolo, a turno, cominciarono a sputare con forza sullo spago. Ben presto da quelle bocche non uscì più saliva. (E io sono lì, pronto ad accettare l'idea che mi aspetta una vita in gran parte incomprensibile).
- Vai, corri! - disse il vecchio al nipote. - Porta acqua per tutti!
Il ragazzino era impietrito. Tirò per la manica Abu Talib.
- Cos'hai detto? Non ho capito!
Ma lo zio era rientrato nel delirio. Stava con la testa in un altro mondo e non gli rispondeva.
- Cos'hai detto? Ripeti!
Niente. Abu Talib neanche lo ascoltava.
Sulle guance del bambino cominciarono a scivolare due lacrime. Lentamente egli si ritrasse e andò a sedersi su una pietra poco distante. (Ti ricordi quella grande roccia di pomice vicino a Lavinio?) Rimase con lo sguardo sperduto, il cuore disperato e assente.
Il kahin, ostinato, si mise a battere con forza le palme delle mani sulla sabbia, tutt'intorno alla cordicella. Questa finalmente si mosse, per un breve istante s'ingobbì all'altezza del nodo. I giovani fuggirono terrorizzati, gli altri restarono al loro posto aumentando il volume e la furia delle loro preghiere.
Fino a quando il mago, ormai bagnato di sudore, si aprì in un sorriso. Lo spago prese a ondeggiare come un serpentello e il nodo si sciolse, lentamente ma senza indugi.
In quel momento preciso il ragazzino seduto in disparte si ricordò cosa gli aveva chiesto lo zio: saltò in piedi, afferrò il secchio di legno. Poi, di corsa, scomparve dietro le dune e raggiunse una piccola oasi.


© 2001, Giulio Einaudi editore

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