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Recensione Paul Ginsborg

Paul Ginsborg

L'Italia del tempo presente

le prime pagine
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Capitolo primo

L'economia italiana tra vincoli e sviluppo

1. Il ruolo dell'Italia nell'economia mondiale

Quando a Rambouillet, in Francia, nel novembre 1975, ebbero inizio gli incontri al vertice tra i leader delle maggiori potenze del mondo capitalista, l'Italia venne invitata solo all'ultimo momento. Il presidente francese allora in carica, Valery Giscard d'Estaing, avrebbe preferito escluderla insieme al Canada. Alla fine tuttavia dovette cedere su entrambi i fronti, e dal giugno 1976 il G7 assunse la sua forma attuale.
In occasione delle riunioni del club più esclusivo del mondo, i primi ministri italiani sono sempre apparsi grati dell'opportunità loro concessa, ben felici, insieme ai canadesi e ai giapponesi, di collocarsi ai lati o in seconda fila nella rituale fotografia di gruppo. Negli anni '80 e '90, al centro dell'inquadratura si trovavano immancabilmente il presidente degli Stait Uniti e il cancelliere Helmut Kohl, in apparenza unico socio permanente del club, la cui figura imponente (a differenza di quella dei suoi colleghi giapponesi) corrispondeva da vicino al peso del suo Paese nell'economia mondiale. Inglesi e francesi, come sempre nella seconda metà del XX secolo, avrebbero voluto contare più di quanto la realtà di fatto potesse giustificare.
Fino a che punto le esitazioni sull'Italia erano giustificate? Aveva diritto o no di appartenere al club? Gli economisti si sono sempre mostrati incerti nel rispondere a questa domanda, talvolta sottolineando l'instabilità economica del Paese, talaltra esaltandone la vitalità, talaltra ancora relegandolo alla semiperiferia anziché al centro del capitalismo mondiale.
Tenendo presenti tali dubbi, il mio principale intento in questo primo capitolo è quello di condurre il lettore in un lungo viaggio attraverso i molteplici aspetti dell'economia italiana. Mi sono soffermato in particolare sul settore terziario, non soltanto perché i servizi sono giunti a dominare l'economia italiana, ma anche perché essi raramente ricevono quella specifica attenzione che meriterebbero.
Il primo passo di questo viaggio consiste nel considerare il volume e la qualità del contributo italiano al commercio mondiale. Nel periodo che ci interessa, caratterizzato dalla tumultuosa crescita delle economie del Sudest asiatico, ma anche dalla crescente consapevolezza dei limiti e dei pericoli di uno sviluppo incontrollato, la presenza italiana sui mercati mondiali ha superato con onore la prova del tempo. Mentre nel 1951 la quota percentuale dell'Italia sul complesso delle esportazioni mondiali era appena del 2,2 per cento, nel 1994 aveva raggiunto il 4,5 per cento. Nel 1987, anno intermedio del periodo che stiamo considerando, la quota dell'Italia ammontava al 5 per cento, a fronte del 5,7 per cento della Gran Bretagna, del 6,2 per cento della Francia, del 9,9 per cento del Giappone, del 10,5 per cento degli Usa e del 12,7 per cento della Germania Occidentale.

a) Il commercio mondiale di manufatti. Al di là di queste cifre complessive, è necessario tracciare una distinzione tra il commercio dei manufatti e quello dei servizi. Se prendiamo in considerazione i primi, scopriamo che la prestazione dell'Italia su scala mondiale fu senz'altro ammirevole, giacché nel 1996 ammontava al 4,8 per cento delle esportazioni mondiali del settore, e al 3,8 per cento delle importazioni. Il suo commercio era pienamente integrato con quello delle altre economie avanzate e decisamente orientato verso queste ultime. Nel 1987, il commercio italiano di manufatti si svolgeva per tre quarti con gli altri Paesi dell'Ocse, e per più del 50 per cento con i suoi partner della Comunità Europea. L'Italia esportava con particolare vigore verso la Germania Occidentale, la Francia, l'Inghilterra e l'Europa meridionale; più debolmente verso l'Olanda, il Belgio , la Danimarca e l'Irlanda. Un robusto 10 per cento delle sue esportazioni prendeva la via degli Stati Uniti. I prodotti italiani erano poi attivamente presenti sia in Medio Oriente e in Africa settentrionale, sia, per quanto in misura minore, nell'Europa orientale.
A differenza della Gran Bretagna, dove negli anni '80 si è assistito a una drammatica crescita del deficit della bilancia commerciale dei manufatti, e della Francia, il cui deficit nei confronti dell'Europa era solo parzialmente compensato dalle esportazioni verso i Paesi in viadi sviluppo, l'Italia beneficiava di un costante surplus negli scambi di prodotti manufatti con i Paesi dell'Ocse. Nel 1990 Michael Porter della Harvard Business School pubblicò un significativo studio comparativo della competitività economica nazionale. Gran parte di ciò che disse riguardo all'industria italiana era estremamente lusinghiero.


© 1998, Giulio Einaudi editore s.p.a.

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