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Recensione Elisabetta Rasy

Elisabetta Rasy

Tra noi due

le prime pagine
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uno

Quando mia nonna morì, il 3 gennaio del 1974, avevo da poco comprato una borsa. Era una borsa di nappa nera, molto grande, rettangolare, una specie di cartella piatta e morbida. Ero sicura di non aver mai posseduto una borsa così bella, così importante. Ed ero anche sicura che a mia nonna sarebbe piaciuta molto. Mia nonna Adele non era una signora frivola e, sebbene avesse una grazia leggera e un'eleganza di passero fuggitivo, non era neanche una signora ma una vecchietta che, da quando la ricordavo, vestiva sempre di nero e di grigio - non portava nemmeno il marrone, o il bordeaux, o il verde scuro. Vestiva come una vecchia donna di campagna ai primi del Novecento, l'epoca in cui aveva più o meno vent'anni. Aveva un unico debole relativo alla moda e all'abbigliamento: i cappelli, e, appunto, le borse. Per mesi, dopo la sua morte, non potevo darmi pace di non aver fatto a tempo a mostrarle la borsa di nappa. In quell'inizio del 1974 molte cose erano cambiate nella mia vita e altre stavano cambiando, senza che io afferrassi davvero la natura e il significato del cambiamento. Anche il mondo si era fatto confuso e meno luminoso ai miei occhi, si profilava all'orizzonte l'ombra scura e indistinta dell'età adulta.
In realtà quella borsa - che separava per sempre, come un sigillo definitivo, lo sguardo di mia nonna dal mio e mi raccontava, per la prima volta da molto vicino, la morte - non era tanto simile alle sue borse che erano di pelle più rigida, un vitello nero foderato di uno scamosciato chiaro e profumato, oppure, se morbide, più cave, più panciute, come quella, arricciata attorno alla chiusura, anche piuttosto sensuale e esuberante, e dunque del tutto in contrasto con la situazione, che appare in primo piano nella foto che la ritrae con un suo amico gesuita, un uomo in odore di santità ma che poi non fu mai fatto santo, che andava spesso a trovare, talvolta portandomi con sé, nella chiesa di Sant'Ignazio. In realtà la borsa piatta di nappa nera che non potevo guardare senza pensare agli occhi chiusi per sempre di mia nonna, non era simile alle sue borse quanto a quelle - o a quella che avevo in mente - della signorina Starita.

Emilia Starita entrò in classe non proprio all'inizio dell'anno scolastico, i primi di ottobre. Non so se fosse indisposta, come allora si diceva, o dovesse finire uno dei suoi viaggi di studio - quei viaggi, non ultimi tra i suoi segni d'elezione - ma non la vedemmo fino alla metà del mese. Gli altri professori erano quelli dell'anno precedente, cioè l'anno della prima media. Allora la lingua straniera si cominciava a studiare soltanto in seconda, per continuare poi fino al quinto ginnasio: quattro anni in tutto per renderci poliglotti e cittadini del mondo moderno, mentre eravamo molto più curati come poliglotti e cittadini del mondo antico, con gli otto anni di latino - dalla prima media al terzo liceo - e i cinque di greco - dal quarto ginnasio al terzo liceo.
Nel mio caso la lingua straniera era il francese. Mia madre aveva deciso così, forse un ultimo residuo di fedeltà al marito abbandonato, mio padre che parlava il francese come l'italiano, e che glielo aveva insegnato negli anni della guerra, gli anni del loro amore e del matrimonio, durante le licenze. Sebbene il francese fosse allora la lingua del nemico era anche la lingua della allegra giovinezza a Parigi con il nonno, o nei collegi dove si coltivava il corpo più che lo spirito e la loquacità senza frontiere, e ci si addestrava alla difficile arte del buon umore come estremo blasone della cortesia. Douce France, dolce amore, dolce lingua, tu vois, j'ai n'ai pas oublié la chanson que tu me chantais... pas oublié, be' un po' sì che l'aveva scordata mia madre quella canzone, ma non del tutto, non proprio del tutto. Tanto che non ebbe dubbi e mi iscrisse in una sezione della media T. Tasso dove, dopo un primo anno di grigia e spenta malinconia scolastica, ravvivato solo dalle ferree stranezze del latino, in quello successivo, e cioè il 1959-1960, in seconda appunto, avrei studiato il francese. Appunto, con la signorina Starita.


© 2002 RCS Libri

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