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Recensione Gabriele Romagnoli

Gabriele Romagnoli

Passeggeri

le prime pagine
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DECOLLO

La poltrona accanto alla mia era vuota.
A chi potevo dirlo, quindi?
Avrei potuto telefonare. Chiamare da diecimila metri sull'oceano Atlantico (che fa sempre colpo) per confessare che non sapevo perché stavo volando. Dall'Italia all'America, portandomi tutta la vita dentro sei enormi sacche nere comprate all'ultimo momento in un negozio davanti al mercato. Confessare che non sapevo per che cosa stavo vivendo, per quale ragione attraversavo spazi e tempo, sempre con un nuovo biglietto nella tasca interna della giacca pur di non acquisire stabilità, diritti e doveri.
Aggiungendo la distanza delle parole, ognuna un nuovo passo che porta altrove, invece di sostare nel conforto del silenzio. Non parlare, non scrivere più, smettere di andare. Oppure, trovare una ragione per farlo.
"Ce l'avete, voi, una ragione per vivere e volare?".
Avrei voluto voltarmi e chiederlo agli altri passeggeri. Non avrebbero risposto. O forse sì, ma dentro se stessi. Magari qualcuno sarebbe entrato in crisi, non trovando un motivo valido. Impossibile verificare.
Era il momento del film, l'aereo era al buio, molti dormivano. Li contai: quelli visibili erano cinquantasei. Con gli occhi della mente li cancellai, disegnai lo schema della fusoliera e cominciai a evocare un differente carico di passeggeri disposti su tre colonne (a due posti le file laterali, a tre quella centrale). Uomini e donne che componessero un catalogo di ragioni per vivere e volare. Persone che avevo conosciuto direttamente o la cui esistenza (e la sua motivazione) mi fosse stata tramandata da una fonte attendibile. Decisi di procedere per associazioni di idee, fino a riempire i cinquantasei posti. Bastava trovare un punto di partenza.
Da dove comincia ogni storia, se non da una parola? Ma "chi è capace di vivere per una parola?", chiedeva un personaggio di Dinner Party, commedia scritta da Pier Vittorio Tondelli. Conoscevo la risposta. La risposta era:

PASSEGGERI

1A
CRESCENZIO CANE
L'uomo che visse per una parola

Un pomeriggio del 1959, mentre era solo a Torino, dove "per guadagnarsi il pane dava botte alla gente" come guardia di pubblica sicurezza, Crescenzio Cane, nato a Palermo, rione della Zisa, nel 1930, figlio di un macchinista del transatlantico Rex, artista per vocazione, aprì un quaderno dalla copertina nera e, in alto, nel mezzo, a lettere maiuscole, scrisse

LA SICILITUDINE

Seguì un racconto di cinque pagine, che cominciava così: "Emigrare è quanto di meglio si poteva fare nel dopoguerra".
In seguito Crescenzio Cane ha avuto una moglie e cinque figli, che oggi sono tutti diplomati e vivono a Firenze, Benevento, Catania. Ha militato, dipinto manifesti di protesta durante l'autunno caldo. Ricorda spesso che all'età di dieci anni mentre si trovava in una colonia marittima fu trascinato davanti al tribunale speciale del fascio perché imputato per l'alzabandiera di un fazzoletto rosso durante un raduno della gioventù del littorio. Ha studiato da autodidatta, "fatto l'amore e riso insieme con i libri". Ha lavorato per anni come vigile urbano a Palermo. Oggi è in pensione e si dedica all'arte a tempo pieno. Nei risvolti di copertina delle sue pubblicazioni, che stanno, in uno scaffale lontano, accanto a quelle di Calvino, fa sapere che "ha scritto molti racconti e si interessa vivacemente di antropologia". E, ancora, che "nel 1972, sopraffatto da centinaia di quadri, ma aiutato affettuosamente dai galleristi-pittori M. Catalano e R. Piraino faceva la sua prima mostra". Ha una bella barba bicolore e una casa in via Bronte da cui non si vede il mare. Sulla sua vita nutre molti rimpianti. Pensa che avrebbe potuto fare di più, come "intellettuale", se non avesse dovuto lavorare troppo per sopravvivere. Si giudica "un sognatore sconfitto, emarginato e solo, in un mondo dove nessuno si batte per la verità".
Tuttavia non pensa di aver vissuto invano.


© 1998, Garzanti Editore s.p.a.

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