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Recensione Piersandro Pallavicini Atomico dandy - Le prime pagine
dal Capitolo 1, 2002
Sono nel corridoio del dipartimento e, pigro, cammino verso l’ascensore. Ho tra le mani la lettera del “Journal of the American Chemical Society”: quello che tutti – per così dire confidenzialmente – chiamiamo JACS. La soppeso, valuto che contenga tre o quattro fogli A4 ripiegati. Ricordando la data in cui abbiamo spedito il nostro articolo alla redazione, mi dico che con ogni probabilità questa lettera contiene la risposta. Una pagina dell’editore, e una pagina ciascuno per il giudizio dei due referee. Mi fermo alla macchina delle bevande calde, infilo 0,40 euro, faccio scendere un caffè. Mentre aspetto che sia pronto mi dico anche che gli ultimi sette lavori ce li hanno accettati con i due referee che si prodigavano in complimenti, e che dunque non dovrei aspettarmi alcuna brutta sorpresa.
Bevo solo metà del caffè, che è pessimo oggi più di ieri, e il resto lo getto. Salgo in ascensore dove mi compiaccio, invece, per la bella musica che esce dalla filodiffusione. L’ho fatta mettere dacché il dipartimento lo dirigo io. A dispetto del naso storto dei miei colleghi, la spesa per l’impianto è stata contenuta. E sarà un caso che le iscrizioni, qui a Chimica, siano aumentate del settanta per cento da quando abbiamo musica nei corridoi, pareti tinteggiate ogni anno, moquette sui pavimenti degli studi, arredi nuovi in segreteria?
Il cd che sta andando ora l’ho comprato sabato con Roberta. Siamo stati alla Ricordi, a Milano. Vestiti come si deve, rapidi e allegri, abbiamo preso questo album di lounge svedese, poi un classico di Sinatra, poi un gruppetto nuovo di downbeat, giapponese. 70,5 euro, in totale. Una bella spesa, ma ridacchio come uno sciocco, adesso, pensando che se alla Ricordi di Milano esistesse un premio per l’acquisto più cool del giorno, io e Robertina usciremmo nove volte su dieci vincitori...
Il cd svedese l’ho duplicato subito, e dato ai giovanotti della segreteria. È piaciuto tanto. Hanno un gusto neo-lounge che non avrei mai detto, i due ragazzi. Ora – mi dico, ridacchiando un altro po’ – mentre lo mandano in filodiffusione nel dipartimento, devono sentirsi i dj più à la page dell’Università di Pavia. I due bravi giovanotti. Nei loro bravi spezzati tweed e velluto.
Sono al piano. Con la chiave apro la porta scorrevole riservata che, dall’ascensore, porta al mio studio.
Cammino sulla moquette giallo uovo. È splendido questo colore. È splendido e oltraggioso. Sì, oltraggioso: mi piace portare quassù gli ospiti in visita dalle loro tristi università nordeuropee, e vederli fare tanto d’occhi per gli accostamenti degni di un cocktail-bar modaiolo e londinese. E quanto si consumano d’invidia quando vedono, sul tavolino basso centrale, il vaso Seguso di cristallo, coi fiori freschi cambiati dai bidelli ogni mattina.
Magnifici i gigli sfumati azzurrino, mi dico mentre siedo sulla poltrona basculante, dietro la mia scrivania. Magnifici, e davvero in risalto sull’ebano e sull’acciaio dell’arredo high-tech. Sulle pareti ghiaccio. Sulle serigrafie di Vedova e Afro.
Cosa non direbbe il professorone tedesco di turno. Teutonico e austero, col tre pezzi di lana grigia esalante dieni, vinilderivati, chetoni con l’insaturazione in beta...
Scollego entrambi i miei cellulari. Tolgo la linea al telefono fisso e vintage, arancione. Dal portatile Apfel escludo l’audio della filodiffusione.
Le cappe aspiranti, dietro la parete insonorizzata, non fanno altro che un brontolio smussato. Le voci dei ragazzi, in laboratorio, le posso solo immaginare. Dietro i doppi vetri, fuori, le cime dei pioppi stormiscono senza alcun suono.
Appoggio la nuca allo schienale anatomico, chiudo gli occhi per un secondo o due.
È l’inizio di febbraio, ma qui dentro c’è un tepore meraviglioso.
Il profumo è quello fresco e morbido dei gigli.
Apro la busta, ora.
© 2005, Feltrinelli editore.
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