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Recensione Nathaniel Kahn My Architect - L'estratto
dal Capitolo 1, Geni e maestri, architetti e artisti
La grandezza degli architetti si misura non solo dalla meraviglia delle loro opere, ma anche dal modo in cui il loro insegnamento ha inciso nel lento mutare delle cose.
I geni sono figure straordinarie e inimitabili, artisti e poeti che hanno prodotto capolavori da segnare le epoche. Hanno agitato e infiammato gli animi, ma dietro la loro ombra hanno lasciato spesso miserabili imitazioni.
I maestri hanno lavorato sui tempi lunghi, con lentezza, nelle contraddizioni e nel dubbio. Hanno costruito un’idea di architettura e su questa, anche loro malgrado e spesso in silenzio, hanno saputo formare una scuola. La loro eredità rimane negli ideali che hanno saputo al loro tempo tramandare e negli insegnamenti, buoni e cattivi, che con la loro opera ancora trasmettono.
Il tempo solo è giudice dell’architettura. Quella buona sopravvive, quella cattiva si perde. I migliori architetti sono scomparsi davanti alla grandezza della loro opera. Il loro insegnamento vive nel metodo, nelle idee, nei consigli che le architetture possono trasmettere per continuare a farne altre: “L’opera d’arte mi dona idee, insegnamenti, non piacere. Perché il mio piacere sta nel fare, non nel subire. Ma l’opera che m’impone un piacere, il piacere che produce, m’ispira venerazione, terrore, il senso di una forza superiore”.
Kahn è stato un maestro. Un maestro geniale.
Più giovane di una quindicina d’anni rispetto a Le Corbusier, Gropius, Mies van der Rohe, di una generazione rispetto a Wright, ha vissuto da studente i tempi d’oro dell’architettura moderna e si è affacciato alla professione durante la Grande depressione economica, nel momento più difficile del Novecento americano. Ha creduto nel miracolo del New Deal, ha lavorato per la pubblica amministrazione, e non ha nascosto le sue idee socialiste. Passato ai molti inosservato, forse per quell’aria mite e un poco dimessa, per il suo parlare ostico e spesso confuso, per le tasche sempre vuote, per le strane passioni fuori moda, per la sua elegante inattualità. Musicista e disegnatore eccelso, non è stato però un enfant prodige: timido e scostante, era rimasto, fin da piccolo, indietro con gli studi. Appena laureato, mancava di quelle qualità necessarie per il successo professionale: senso degli affari, spirito pratico, affettazione intellettuale. La sua carriera è costellata di lavori persi, di contratti stracciati, di rapporti logoranti: “Sono terrorizzato dalla gente che vede le cose dal punto di vista del denaro... L’altro giorno mi è toccato incontrare alcune persone di questo genere a proposito di un progetto per un centro artistico cui stavo lavorando... Mi hanno subito chiesto quanto sarebbe venuto a costare. Una situazione molto imbarazzante per me, avrei preferito prima mostrare il progetto poi parlare di costi. Io i costi li conoscevo, ma sapevo che superavano di molto quelli previsti. Ho presentato così il progetto nel modo più invitante possibile. Allora mi hanno chiesto: ‘Ma quanto costerà?’ ‘Venti milioni di dollari’ ho risposto. Quei signori pensavano a uno stanziamento di due milioni e mezzo... ‘Con due milioni e mezzo cosa si potrebbe ottenere?’ ‘Niente!’ risposi ...”.
Ha aperto relativamente tardi, all’età di quarantasei anni, il suo studio e costruito verso la fine della vita la maggior parte degli edifici più noti. La formazione intellettuale, scostante e autoreferenziale, è avvenuta in maniera disordinata e confusa, ma con passione e umiltà.
Pochi hanno reso onore alle sue opere da vivo, ancora meno subito dopo la sua morte. Solo un paio di importanti pubblicazioni, tra cui la memorabile monografia del 1962 di Vincent Scully e un numero della celebre rivista francese “L’architecture d’aujourd’hui” a lui dedicato, hanno offerto uno sguardo antologico al suo lavoro.
Il compiacimento verso un modo di essere démodé ritorna di continuo nelle testimonianze di chi ha lavorato al suo fianco. L’architettura di Kahn appare ancora oggi come un buon prodotto senza data di scadenza, senza possibilità di deperimento alcuno. Il mistero di Kahn, apparentemente così semplice, è nascosto nelle pieghe profonde di un’anima solitaria e indecifrabile. La grandezza delle sue architetture rimane nella coerenza a una personale visione del mestiere, non a uno stile, a delle formule, o a un linguaggio.
Kahn era difficilmente inquadrabile attraverso le consuete categorie della storia e della critica. Guardava troppo all’antico per piacere ai modernisti, si interessava troppo alla tecnica per compiacere i classicisti, si rifaceva troppo alla geometria cartesiana per attrarre gli espressionisti, aveva un orizzonte troppo ampio per conquistare i tradizionalisti... Le sue architetture, tutte incredibilmente uguali nella coerenza a un metodo e tutte straordinariamente diverse nelle forme, hanno dimostrato la verità più scomoda e imbarazzante: l’inconsistenza delle etichette davanti alla grandezza dell’architettura reale. “Quelli che, come Kahn, mostrano un accentuato individualismo in un mondo in cui il lavoro di gruppo diventa sempre più accettato e diffuso, quelli che aspirano a costruire per l’eternità in un mondo dominato dall’economia dei consumisi trovano, in un certo senso, in ritardo rispetto al tempo contingente; ed è proprio da questa posizione che la loro personalità esce consolidata. La personalità di Kahn evoca un quadro di magistrale saldatura di elementi che coesistono in antitesi. Mentre Kahn è, nei fatti, classico, per la solidità e la simmetria delle sue forme, egli è romantico nella sua nostalgia per il Medioevo. Applica con convinzione i più avanzati strumenti tecnologici, ma questo non gli impedisce affatto di usare la pietra come elemento portante... Egli ha superato gli schemi del Funzionalismo nella sua distribuzione spaziale, ma, in molti casi, egli utilizza l’estetica funzionalista. Ha un culto da razionalista della stereometria, che tuttavia il sottile rivestimento e la totale trasparenza dei suoi blocchi tende a negare. Kahn ha approfondito i concetti vitali dell’architettura organica, ma non ne condivide la scomposta morfologia”.
L’ultimo simposio del Ciam, il XX Congrès Internationaux d’Architecture Moderne, si tenne nel 1959 in Olanda, a Otterlo. L’associazione aveva retto le sorti dell’architettura negli ultimi trent’anni, definendo regole e pronunciando proclami. Tutti i grandi architetti del Movimento Moderno vi si erano riconosciuti. Louis Kahn, già noto professore che aveva insegnato nelle grandi università americane – Yale, Mit e Penn – fu invitato a parlare davanti a tutti i mostri sacri. Il suo discorso, inatteso e sorprendente, fu una sorta di epitaffio dell’architettura funzionale, cui tutti i presenti avevano fino ad allora creduto e per cui avevano duramente combattuto. A modo suo, ha contribuito attivamente a mettere in crisi il Movimento Moderno e a liberare la nuova generazione dall’eredità dogmatica del Funzionalismo, aprendola ad altre poetiche evocative. Le riviste di architettura erano subissate da mediocri edifici modernisti, che mostravano continue ripetizioni e copie autoreferenziali. Le Corbusier, genio al di sopra di tutto, aveva già imboccato un’altra strada. Davanti al nuovissimo Palazzo dell’Unesco a Parigi di Marcel Breuer e Pier Luigi Nervi esclamava senza pudore alcuno: “C’est du mauvais Corbu!”. Quando nel 1965 Bernard Rudofsky tenne al Moma di New York, con il beneplacito dei vecchi maestri moderni, l’esposizione “Architecture Without Architects” sembravano già passati secoli da Otterlo. Una nuova generazione di maestri si cominciava ad affascinare d’altro: dell’ordinario, del rozzo, del grezzo, del banale, del quotidiano. Tra questi c’era Louis Kahn, insieme a lui pochi inglesi, forse qualche olandese, francese e spagnolo.
Il dibattito architettonico europeo alla fine degli anni cinquanta si interrogava, con momenti anche di polemica violenta, sul destino dell’ortodossia modernista. La posizione italiana, in modo particolare della rivista milanese “Casabella”, lanciava negli stessi anni una campagna antifunzionalista a favore di un ritorno etico ai principi civili e umanistici della disciplina. Simbolo di questa cultura milanese è la Torre Velasca che, presentata al congresso di Otterlo, riceveva dure contestazioni da parte di molti dei delegati. La figura di Kahn sarebbe potuta essere bandiera di tale battaglia, ma solo occasionali passaggi faranno cenno alla sua opera e le uniche pubblicazioni italiane di un certo rilievo non appaiono sulle maggiori riviste o case editrici. Gli appelli di Kahn alla continuità e alla permanenza, alla visione della città come opera di architettura accanto al magico realismo degli edifici costruiti, rivela oggi profonde affinità elettive con gli obiettivi di “Casabella” non solo con la direzione e alcuni redattori di quegli anni, ma anche dei successivi che esprimeranno forti perplessità sul lavoro di Kahn, definito artista formale e di superficie. Louis Kahn terrà due memorabili lezioni in Europa: nel 1967 a Milano, in un Politecnico già in contestazione, e nel 1969 all’Eth di Zurigo. Un numero della rivista “Zodiac” dedicherà notevole spazio all’avvenimento di Milano con un saggio di Maria Bottero e la traduzione dell’intervento di Kahn. Poi quasi nulla fino agli anni ottanta. Troppo tardi.
La fortuna critica è stata molto scarsa e ancora oggi sono pochissimi i libri validi che si sono occupati della sua architettura e del suo pensiero. Gli storici hanno ignorato Kahn al punto da considerare la sua architettura come un fenomeno essenzialmente formale, venato di una visione del mondo unicamente poetica. Le architetture europea e giapponese degli anni settanta e ottanta gli devono oggettivamente un enorme tributo.
A livello accademico, al contrario, Kahn era molto famoso per essere il più europeo dei professori. Tale reputazione era dovuta alla grande attrazione che esercitava sugli studenti stranieri e sul dialogo pressoché esclusivo che intratteneva con loro. Tra tutti i docenti, Kahn era il più interessato all’Europa, nonostante fossero gli anni in cui insegnavano nelle università i grandi nomi del Movimento Moderno, fuggiti dalla Germania o delusi dall’Inghilterra. Kahn, agli occhi degli studenti, appariva molto più europeo di quei maestri che giocavano a fare gli americani. Si compiaceva della sua origine estone, dei suoi occhi da tartaro, del suo padre ufficiale contabile dello zar di Russia, della sua nonna materna che viveva su un’isola nel Mar Baltico. Amava definirsi, con una certa malizia, “un ebreo finlandese”.
Il lavoro di Kahn ha segnato una via etica al destino dell’architettura, tanto nelle nazioni sviluppate, quanto alla periferia dell’impero. Negli Stati Uniti ha saputo indicare la dimensione civile dell’architettura, opposta alla volgare retorica imposta dalle automatiche leggi del mercato. In India e Bangladesh ha dimostrato la possibilità di grandi architetture monumentali, costruite attraverso le più semplici tecniche e con i più poveri materiali, con le quali esprimere la cultura millenaria di un popolo. […]
© Feltrinelli Editore.
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